Da “Fame di realtà: un manifesto”, di David Shields, Fazi Editore 2010

Racconti ultrabrevi

Simone Sbarbati
32 min readJul 31, 2015

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Nota: dove viene segnalato “questa è fiction” beh, quella è fiction.
Il resto è realtà. Ma “realtà”, come ricorda Nabokov, è l’unica parola che senza virgolette non significa niente.

#21

La grande novità dell’estate 2015 sono state le mantidi religiose.
Qua in giardino non sono sbarcati immigrati né abbiamo trovato sedicenni fatti di ecstasy. Nessuno ha mai nominato la Merkel, nemmeno il gatto, che pure si chiama Otto — ma effettivamente avrebbe dovuto chiamarsi Bruno, e prima ancora Franco ma il ragazzo catalano che abitava con noi nell’appartamento da sei in Bolognina all’epoca in cui andammo a prendere Franco/Bruno/Otto al gattile (ma giurerei che ce lo presentarono con un altro nome), beh il ragazzo catalano, che con omissis/Franco/Bruno/Otto avrebbe dovuto vivere qualche mese, ce lo chiese proprio di non chiamarlo Franco, e dunque, scartato Franco, rimase omissis/Bruno/Otto, ma solo per qualche istante, perché quando lo vedemmo, piccolo e nero e tutto acciaccato, con la psoriasi, un occhio pesto, le croste per i tagli che qualche ragazzino figliodiputtana gli fece prima di essere trovato, quando lo vedemmo e mi saltò in testa, proprio sopra, sui capelli, attaccato con le unghiette, lì capimmo che lui era Otto: Otto nell’appartamento da Sei al Quinto piano (Quinto poi ritorna come numero perché la sera che facemmo la seduta spiritica — ma lo spagnolo se n’era già andato — evocammo un certo Quinto, sedicenne romano morto nel ’14 per l’influenza Spagnola, e non è un caso perché di sicuro Quinto l’abbiamo creato noi, seduta stante, quella stessa sera, senza rendercene conto, anche se questa, come si dice, è un’altra storia, che tra l’altro a Otto interessò ben poco perché al contrario di quanto si dice, e cioè che i gatti avvertano la presenza degli spiriti, lui se ne stette beato a dormicchiare e leccarsi il culo per tutto il tempo che noi eravamo alle prese con la tazzina, la tavola con le lettere scritte a pennarello e i pianti di chi era preso malissimo, confermando poi che non di evocazione si trattava ma del parto del nostro inconscio colletivo).
Numerologia e spiritismo a parte, messa in standby la crisi greca, ritrovandoci sia senza droghe che senza sedicenni e al netto di qualche dibattito sulla Grande Grandinata di Ferragosto (quale dei mille meteo consultati ci ha indovinato?), gli gnocchi col sugo alla papera della Festa dell’Assunta (si potranno congelare?), i rimedi contro la diarrea (tè o camomilla a piccoli sorsi), le stelle cadenti che finalmente sono cadute — rapide come missili ma ancora magiche — pure nella vita di mia figlia (l’anno scorso sai che pianto quando fu l’unica a non vederle, e sì che le avevo spiegato come fare: guarda un punto, al centro del cielo, ma non guardarlo davvero) alla fine sono dunque arrivate le mantidi. Che abbiamo subito cercato su Wikipedia, per documentarci, e che di giorno se ne stanno nascoste chissà dove e di notte amano attaccarsi sulla zanzariera. Ma soltanto quando stiamo fuori a chiacchierare, sennò non si vedono.
Tipo adesso, che qua già tutti dormono e sono seduto da solo, davanti alla pozzanghera perenne e accanto al gatto che russa: di mantidi nemmeno l’ombra.

#20

«Allova lui gli ha scvitto sulla sua bacheca, su Facebook, ma Giovgio non ha visposto».
CIAF CIAF CIAFCIAFCIAF CIAF
«Passa un giorno, ne passano due e quello niente, non visponde».
CIAFCIAFCIAF CIAF CIAF

«Pensa che l’ho incontrato una settimana fa e mi ha detto: “oh ho scritto a Giorgio ma mica mi risponde, che ce l’ha con me? Che gli ho fatto qualcosa?”»
CLAP CLAP CLAP

(L’uomo sulla cinquantina, accento emiliano, occhi chiari e fisico robusto, si mette a ridere)
CIAF CIAF

(Ha una polo color gambero, dei pantaloncini marroni e grosse mani. Il suo amico, seduto di fronte, ha un accento più difficile da definire, mi verrebbe da dire basso Lazio, o campania. Non riesco a vederlo bene perché è coperto da una ragazzina che se ne seduta con la schiena tesa, a guardare davanti a sé, ascoltando chissà che musica nelle cuffiette).

CLAPCLAP CLAP

«Ché poi gli ho scvitto puve io a Giovgio. “E cazzo vispondi!”, gli ho detto. “vispondigli a Pievo. È due giovni che aspetta che gli vispondi”»
CIAF………CIAFCIAF

«Che rincoglionito che è Giorgio. Magari non l’aveva neanche aperto Facebook».
CLAP CLAPCLAPCLAPCLAP

«No! L’aveva apevto, mi ha detto. Ma non c’aveva voglia, pensa te!»
CIAFCIAFCIAFCIAFCIAF CIAF……….CIAF

(Silenzio)

CLAP CLAPCLAP

CIAF CIAF CIAF CIAF CIAF CIAF

(E andarono avanti così, sul regionale veloce 2123, diretto ad Ancona, uno battendosi la mano sul polpaccio, l’altro battendo le mani dopo ogni scambio di battute, e per riempire il silenzio, come se pure le mani stessero portando avanti un dialogo tutto loro, fatto di ritmo, tra gli sguardi allucinati di noi seduti lì accanto, chi ascoltando la musica, chi parlando al telefono, chi (io) provando a sbobinare un’intervista, tutti quanti con quel sottile brivido d’allarme a ogni scarica di colpi, anche dopo mezz’ora, anche dopo un’ora, quasi affascinati dalla surreale imprevidibilità di ogni istante di quel viaggio).

CLAPCLAP

CIAF

#19

Mi chiamo Aniceto Tirapani.
Senti come suona bene. A-ni-ce-to-ti-ra-pa-ni. Otto sillabe.
Mi chiamo Aniceto Tirapani e sono morto. Mi hanno seppellito al cimitero della Certosa, a Bologna. Non so l’anno perché chi sta scrivendo di me, ora, non si ricorda né l’anno di nascita né quello di morte e neppure il volto se è per questo (certo però che potevi scattarla una foto! Lo so, non si fanno le foto al cimitero ma con quelle diavolerie che ora avete tutti dietro chi volevi che se accorgesse?), quindi una faccia non ce l’ho. Dovremo immaginarla: io, te e quello che scrive, che a dirla tutta si era dimenticato pure il nome e l’ha ritrovato sopra a una di quelle diavolerie di cui parlavo prima. L’aveva scritto come appunto, preso il 3 agosto del 2014 e riletto un anno esatto dopo: Aniceto Tirapani. Finita lì. C’è voluta poi la sua compagna, quella certa Ethel, che sarebbe poi una moglie ma oggi non ci si sposa più e non si sa più come chiamarle: mogli, donne, fidanzate, compagne…
E comunque è stata lei a ricordarglielo. E finché non gliel’ha ricordato, che erano andati assieme al cimitero, lui aveva visto la lapide, gli era piaciuto il nome e se l’era scritto, beh, per un anno esatto non sono stato neanche morto. Cioè, ero morto ma poi lui mi ha messo nel suo telefono, si è dimenticato tutto e io per 365 giorni c’ero e non c’ero. Mi era parso di capire che avrei dovuto vivere nella fantasia, per rinascere da qualche parte, in una storia credo, che poteva parlare di me com’ero (si fosse messo a far delle ricerche) o di me come potrei esser stato. Se m’andava male avrebbe potuto farmi fare la figura del babbione, farmi mettere in galera, tranciare tutte e due le gambe da un treno, nascere senza occhi, persino essere un cane (ma un cane col cognome? Chi l’ha mai sentito?). E invece s’è scordato. Quindi nella sua testa ci sono stato appena qualche giorno, a trastullarmi senza far niente, illuso che quei due o tre incipit che gli vennero in mente lì, direttamente al cimitero, avessero poi un seguito. Ma niente. D’accordo, bisogna capirlo. C’era lì la moglie, la compagna. Ethel. E c’era pure la figlia, che parlava in continuazione e il cimitero non è che le piacesse poi molto. Non è che ti metti a scrivere in condizioni così. Ma poi più nulla. Zero. E dalla sua testa sono passato dentro a quello schermo, vivendo in un minuscolo pezzetto tutto intricato che chiamano la Memoria. Sì come quella delle persone. E mica c’ero solo io lì dentro. Non so come facevamo a starci tutti ma eravamo in tanti. Nomi, numeri, facce. Qualcuno, beato lui, ce l’aveva la faccia. E un indirizzo. I più fortunati persino la data di nascita. Di tanto intanto lui ne tirava fuori qualcuno, per chiamarlo al telefono, o giusto per ricordarsi il nome. Ad alcuni scriveva, con altri non ha mai fatto nulla di nulla. Ce n’erano centinaia così. Presi chissà dove poi rimasti lì. Tra di noi non parlavamo mai. Non so come spiegarlo ma semplicemente non potevamo. Non ci veniva nemmeno pensato di farlo, di chiacchierare. Alcuni erano addirittura sdoppiati. Erano la stessa persona ma lì dentro vivevano come fossero diversi. Stesso nome ma numero diverso. Oppure uno in una parte della Memoria e uno dall’altra. Non lo so mica come ci si senta, da sdoppiati.
Ma alla fine comunque mi ha tirato fuori di nuovo. Così per caso. Stava per andare in vacanza, è uscito sul balcone a fumare e si è messo a rileggere gli appunti. È un momento pericolosissimo, quello, perché ci mette un attimo a cancellarti via per sempre. Quel giorno ne ha cancellati tanti. Gente che vedevo qua in giro da mesi. Senza faccia, come me. Un sacco di scrittori, pure. Accompagnati dai titoli dei loro libri. Dove si va quando si viene cancellati? Non ne ho la più pallida idea. E non voglio nemmeno saperlo. Ma non è come morire. Perché io, come dicevo, sono già morto ma non so quando né come né dove. Poi sono morto di nuovo, oggi stesso. Quando lui ha visto l’appunto, ha scritto il mio nome da qualche parte e lei, Ethel, gli ha ricordato tutto. Gli ha ricordato del cimitero e quindi pure del fatto che sono morto e a quel punto sono morto di nuovo. Due volte, sono morto. Ma in compenso ora sono di nuovo nella fantasia, quindi posso dirmi fortunato. Mi avesse cancellato, quello sì sarebbe stato brutto. Cancellato è peggio che morto. Quando ti cancellano non puoi tornare. Potrei persino dirmi orgoglioso. Perlomeno del mio nome: due volte, due volte gli è rimasto impresso. Mica male per uno che si chiama Aniceto Tirapani. Otto sillabe. Discendente di fornai? Non si sa. Forse di uno che faceva il garzone e portava le panotte a domicilio, dai signori. O che tirava la pasta, la mattina presto, all’alba, chiuso nella sua bottega. Che tempi saranno stati? E una compagna, come la chiama lui, ce l’avrò avuta anch’io? Chissà se era sepolta accanto me, come succede tante volte. Mi faccio domande, sì, me ne faccio tante. Ma non è che senta qualcosa. Se non hai nemmeno una faccia di sicuro non stai lì a rimuginare su chissà quale rimpianto, a farti pigliar la malinconia.
La vera domanda, ora, è questa: e adesso? Che diventerò? Lui scrive scrive ma ancora non s’è detto niente, niente di preciso. L’importante è non finire in un cul-de-sac. Quanto gli piace a lui, quest’espressione qua! Cul-de-sac. L’ha insegnata a sua figlia, quando fanno i giochi di parole in cui uno dice ad esempio “cane” e l’altra deve usare le ultime due lettere per cominciarne una nuova: “nera”. E allora lui: “ramo”. E lei: “mora”. E lui di nuovo: “ramo”. E via così. Un cul-de-sac. Un via senza uscita. Che poi un giorno lei, la figlia, ha scoperto come infinocchiarlo. Aspetta che lui dica una parola che finisca con “-no” e allora: “nord!”. Non c’è niente che cominci con “rd-”.
Mi sta simpatica la piccola. Si vede che è più sveglia del papà.
E comunque spero di non finirci mai, mai in un cul-de-sac.

#18

Càmbiati i calzini, dice, che sennò con quei piedi impuzzi tutte le coperte. Quindi è coi calzini a righe che mi ha lanciato lei dal soppalco, presi a caso tra la colonna dei calzini a righe, su mia indicazione (non i bianchi e blu, non i gialli e rossi, non gli arancioni e rossi, quelli neri e verdi sì, vanno bene), mentre parlavamo il meno possibile e quello che dicevamo lo dicevamo sussurrando per non svegliare la bambina, è coi calzini a righe che intanto tendevo un orecchio verso il muro, che risuonava metallico delle voci dei vicini e le voci dei vicini sembravano come quelle che puoi ascoltare mentre sei in acqua, galleggiando a pochi centimetri dalla superficie, con le schegge di luce che ti trafiggono gli occhi irritati dal sale, e in quel brodo primordiale che a metà mattina comincia a scaldarsi pare di sentire il rumore di fondo dell’universo, la eco del big-bang, dentro alla quale si rincorrono, distorte dalla dinamica dei fluidi, le chiacchiere balneari che arrivano dalla spiaggia: il bambino che ha paura e chiama il papà, la recensione estemporanea sulla cena di pesce della sera prima (troppo cara, piatti poco generosi, ma la cameriera…), i dispetti amorosi di un gruppo di adolescenti, mentre ogni parola prende il largo e ti viene quasi l’istinto di andare a raggiungerla per vedere dove ti porta: fino a che punto riesci a seguire una vocale mentre se ne va guizzando tra i banchi di quei microscopici pesciolini che compaiono dal nulla e poi se ne tornano tra la melma del fondo sabbioso e quando col secchiello provi a tirarne su un pezzetto, un piccolo mare portatile dentro a un recipiente azzurro o giallo o fucsia, basta cambiare angolazione e in quel magico secchiello di Schrödinger i pesciolini li vedi di nuovo, solo appaiono ancora più piccoli, e intanto immagini che al di là del muro, là dai vicini che parlano, sia pieno d’acqua, immagini normali scene di famiglia sottomarine, il papà con lo scafandro, la mamma con lo scafandro, la suocera con lo scafandro che suona alla porta e ha le teglie con le lasagne in mano e i nipotini con lo scafandro corrono e corrono a cercare i pesciolini che compaiono e scompaiono, col loro secchiello a cercare inutilmente di prendere un pezzetto di mare, mentre tu alzi la serranda e guardi fuori, coi calzini a righe, per vedere se c’è già il sole, se c’è ancora l’acqua, se c’è la famiglia con lo scafandro, per capire se a un certo punto puoi magari salire sul davanzale della finestra, infilarti gli occhialini e fare un bel tuffo caldo. Coi calzini, per non impuzzare anche il mare.

#17

(Questa è fiction)
C’è stato: un abbraccio. Eterosessuale ma non sensuale. Né amichevole. Più paterno che amoroso.
Avevi (tu): i capelli umidi. Ma non pioveva. Più da bagno in mare fatto da poco (ma non so se il mare era vicino, e il cielo era grigio, eravamo quasi due ombre). O da piscina (indoor). Forse da doccia (propendo per la doccia, a pensarci bene: si sentiva odore di pulito ma non di capelli passati col fon).
La valigia (mia): riempita di adesivi. E tatuaggi trasferibili da portare a qualcuno. Intere mazzette, prese di nascosto quando stava per arrivare il tramonto e le stanze odoravano di fiori e scarpe di ragazzini in piena fase ormonale. Quando arrivò, l’arancione del sole sembrava poter sfondare le finestre. Incendiò tutto (indoor) mentre sopra al paesaggio (outdoor) c’era un coperchio di nuvoloni scuri.
Le scale (rampe in su e rampe in giù): gran trascinare di valigie. Niente traccia di ascensori. Se ne andavano tutti. Come si fosse al termine di qualcosa. Ci si salutava e i saluti sembravan di più, per via della eco. Rimbalzavano sui muri e tornavano indietro più piccoli.
Finito il tramonto (finisce sempre): un vocìo generale, come davanti a un hotel a fine stagione. La stanca e malinconica allegria di chi si lascia e sa di ritrovarsi l’anno dopo (o forse no): “Sapore di mare” e “Sapore di mare 2 — un anno dopo”. Atmosfera da acqua frizzante sgasata.
Come a un segnale (che però non c’è stato): arrivarono le macchine, i bus, i taxi, qualcuno andava a prendere il treno, trascinando borsoni (ma gli adesivi li avevo tutti io).
Anche tu (ti aspettava qualcuno; io non so, mi sembra non ci fosse nessuno per me). Avevi i capelli umidi e un lungo cappotto. Ma niente odore di fon. Ci salutammo anche noi. Stretti. Come sotto la pioggia ma senza la pioggia. Un lungo abbraccio. Paterno, più che amoroso.
E andandomene (dove?): mi parve di sentirti dire qualcosa (ma cosa?).

#16

Il sole delle sei e mezza. Siamo in estate ed è sera. Le galline vanno rallentando nelle aie a portata d’orecchio. I grilli scendono dagli alberi a vedere le auto che tornano dal mare, cariche di sabbia che dopo mesi sarà ancora lì, nascosta negli angolini insieme alla lanugine degli ombelichi, ai capelli e alla pelle morta.
E il sole delle sei e mezza cade giù obliquo tra le foglie degli alberi, mentre stai attaccata in braccio a me che salgo per la stradina di breccia che non vuoi fare a piedi, ché quei sassetti son sempre lesti ad infilarsi tra suola e piede — colpa mia: i sandaletti che chiami “nuovi” ma già van stretti, chi li ha fatti aveva in mente padri che ti accompagnano in piscina o judo o inglese ma sempre in macchina, non per quelli come me, senza patente, col pallino di infilarti a forza in quella testa, tra un pomeriggio e l’altro di quella manciata di giorni che ancora ci rimangono, almeno per quest’anno, un’enciclopedia di panorami verdi ed oro (ancora “panorama” neanche l’hai capito bene che vuol dire: guardi, guardi e continui a chiedere «dov’è, dov’è, papà, il panorama?») e tutto quello spazio che l’occhio può abbracciare pure in verticale, ché basta prender su per la collina e il sotto non finisce a livello della strada, guarda là che c’è un bel fosso, guarda gli alberi, le canne, i rovi, laggiù c’è il bivio e stavolta magari andiamo a destra, non come facevo io da ragazzino, che m’infilavo sempre per le strade senza uscita, l’ansia di veder finire un mondo chiuso, poi alzare lo sguardo e immaginar di scollinare chissà dove, l’ultima casa lassù in alto come ultimo confine — dall’altra parte chissà poi che c’era (non sembra di sentir suonare le fisarmoniche?).

#15

Una di quelle serate in cui esci a fumarti una sigaretta, porti fuori la spazzatura, ascolti non volendo qualcuno dei vicini che fa sesso, frammenti di dialoghi in tv, in qualche lingua esotica.
Poi arriva lei, correndo (e chissà se era di quelle che preferisce dire “running”, ma non se n’è parlato, non abbiamo fatto in tempo). E comunque lei arriva di corsa, ma è una corsa scomposta e stanca. Una corsa agitata.
Mi vede dietro al cancello e si ferma, ma senza smettere di correre. Quindi una corsa agitata sul posto. Mi dice “ehi, senti”. Ha le cuffiette e un grosso seno che balla su e giù.
Dice “senti, mi sono persa, dove sono?”. Dice “dov’è che siamo” e allarga le braccia, le alza al cielo, ma ne manca uno di braccio, dal gomito in giù, e quando poi l’ho raccontato a Ethel lei ha strabuzzato gli occhi e ha chiesto se, beh, se il braccio non ce l’avesse più da poco, cioè se l’avevo incontrata che il braccio se n’era appena andato oppure…
E invece il braccio se n’era andato già da un po’, credo, chissà da quanto, perché non c’erano bende, non c’erano segni e ovviamente non c’era nemmeno il braccio. Che poi tecnicamente è l’avambraccio, il destro. E io non posso fare a meno di fissarlo, quel vuoto, e intanto la ascolto mentre mi chiede dove siamo e io le dico la via, le dico il nome della parallela, delle due perpendicolari, e guardo sempre il vuoto.
Lei ha la voce spezzata di chi è in panico, ma non smette di correre per un secondo.
Esco dal cancello per raggiungerla. È uno di quei rari momenti in cui non passa nemmeno una macchina e quindi il suo tap tap sul posto è ipnotico, come il vuoto del braccio/avambraccio. Mi dico “non guardarlo, non guardarlo” e allora mi sposto sulle tette che vanno su e giù e mi dico “no, neanche lì, sali, guardali quegli occhi pieni di panico, aiutala”.
Le chiedo se vuole dell’acqua. Che posso portargliela, se mi aspetta lì.
Lei ringrazia ma dice di no. Tap tap tap. Vuoto, tette, occhi.
Dice che vuole solo sapere dov’è l’ippodromo.
“È appena girato l’angolo”, faccio io. E lei fa un sospiro. Le chiedo di nuovo dell’acqua. Ma, di nuovo, no.
“Grazie”, mi dice. E mentre riparte, sempre correndo, si volta e dice ancora un “grazie”. E dice pure “ma non guardarmi, non guardarmi in questo stato. Non guardarmi, sono tutta sudata”. E se ne va.

#14

11A, due fermate prima di scendere una ragazza si prende a male parole con un’altra per motivi apparentemente incomprensibili e, soprattutto, dal nulla.
Volano “vai a farti curare”, “stronza”. Volano “cicciona”, “scendi che è meglio”.
Due fermate dopo quella apostrofata come cicciona scende dietro di me. Facciamo un bel pezzo di strada assieme, ma io da un lato e lei dall’altro. Io con rumore di passi quasi assente (lo sanno bene i miei amici di come so spuntare dal nulla), lei strascicando ben bene le suole delle scarpe.
A un certo punto io attraverso poi svolto. Lei dietro. Strash strash strash. Quasi arrivato davanti al cancello di casa rallento e lei mi sorpassa.
Strash strash strash.
La seguo con lo sguardo e mi accorgo di due belle reti con doghe in legno accanto alla spazzatura.
Salgo a prendere il metro. Misuro il letto di mia figlia, che ha la rete troppo molle. Scendo di nuovo giù col metro. Di larghezza ci stanno. Di lunghezza no, per mezzo centimetro. Mezzo centimetro.
Risalgo su. Rimisuro il lettino. Ma il mezzo centimetro in più non c’è.
Quale sarà la reale importanza di uno 0,5? Voglio davvero piegarmi di fronte a una frazione?
Scendo di nuovo giù. Sono le 23,30. Misuro di nuovo. Sempre mezzo cm.
Decido di portarla comunque in casa. La prendo, salgo le scale con la rete, appoggio la rete al muro, tolgo dal letto di mia figlia il cuscino, le lenzuola, i peluche, ritrovo un cappellino perduto stamattina, tolgo il coprimaterasso, tolgo pure il materasso. E provo la rete. E non ci sta. Per mezzo centimetro non ci sta.

#13

È cascato giù dal cielo. Ho sentito il botto sul cornicione poi quello sull’asfalto. Si è agitato, come per rimettersi in piedi. È rimasto immobile per un po’, in una posizione innaturale. Si è agitato di nuovo. Pareva potesse farcela, poi è rimasto là, nero, al centro del rettangolo del parcheggio, nel cortile della casa accanto.
Così, davanti ai miei occhi, moriva il merlo.

#12

Si è ballato.
Mi sono innamorato dell’abitino nero smanicato con isoipse (o erano piume di pavone? O forse isobare? Magari isoterme?) dorate di una signora. E perché i fisarmonicisti da circolo Arci sono sempre ragazzini?
Me li figuro con dei fegati leggendari ma poi esce sempre fuori che sono bravi ragazzi molto responsabili.
Dalle mie parti quelli bravi e responsabili li chiamavamo gli “antifiga”. Però non tenevamo conto del fascino del fisarmonicista. I gilet, le paillettes, l’aria sicura, le dita titillanti, lo stantuffar e uff e uff.
Comunque al bar del circolo degli anziani non c’era il Varnelli ma solo una bottiglia di “Anice forte”, così diceva l’etichetta dall’aria vagamente surf.
A un certo punto la cantante ha detto “e ora burlesque” e si temeva il peggio.
Comunque a cena ho portato gli animali della savana di mia figlia, trasportati nella borsetta fucsia. Sotto all’elefante c’era scritto “Ciro”, bambino la cui identità è e rimarrà misteriosa.
Non ci sono stati infarti ma ho capito come passa il giovedì sera l’omarello magro magro che vedo la mattina al bar.
Tornato a casa ho preso miele e propoli.
Splenda a essi la luce perpetua.

#11

Treno in ritardo di 15 minuti.
La stazione scavata nelle miniere di Moriah offre pochi posti a sedere. Il Balrog è in agguato, nelle vesti di una donna in nero coi tacchi di un’altezza improbabile e le gambette secchette. Apparizione di Galadriel, trasfigurata: è la signora rifatta che viaggia solo a braccetto di uomini in cravatta. Madre e figlia, una manciata di diottrie in due, s’ingozzano di Pan di Via: lo vendono al bar sotterraneo a 1,80€.
Attendo lo sferragliar del treno per andarmene di qui. Sauron mi manda tre mail per dirmi che il Monte Fato non è praticabile per via dell’alluvione. Scuole chiuse. Gli orchi a casa.

#10

(Questa è fiction)
Apro il giornale e dicono che c’è stato un casino giù dove una volta facevano le giostre, davanti al consorzio agrario, dove ora ci hanno costruito quei palazzi di finti mattoncini rossi per le giovani coppie come te e me. Un garage, la taverna, c’è pure il campetto da calcio in comune tra cinque o sei condomini, la fontanella dell’acqua. «Là ci sono i pali per mettere la rete da pallavolo ma qua sono quasi tutti maschi. Però se avrete delle figlie…», aveva detto l’agente immobiliare. Te lo ricordi? Sembrava un ragazzino infilato a forza in un completo da due soldi. Quel colletto inamidato. I pantaloni troppo larghi che si gonfiavano e si sgonfiavano all’altezza del cavallo con quella sua camminata da capo-squadriglia degli scout. Quando ce ne siamo andati avevi detto che ti sembrava di vedere il segno delle passate col ferro da stiro di sua madre. Di sentire l’odore dell’acqua ossigenata e del sugo a cuocere sul fornello, con lui, l’agente immobiliare che torna dall’allenamento con una tuta rossa e il nome della squadra cucito all’altezza del capezzolo sinistro. I calzini di spugna. *In borghese*. Proprio così avevi detto. Che lui rientrava senza la divisa da agente immobiliare, col borsone e la tutta e i calzini di spugna, mentre la madre gli stirava il colletto e i polsini della camicia. Per il figlio agente immobiliare. E poi avrebbero mangiato tutti le penne col sugo al pomodoro e piselli e salsiccia. E allora io ti ho detto che sì, mi pareva di sentirlo pure a me l’odore acido del pomodoro che cuoceva sul fornello. Poi l’appartamento ovviamente non l’abbiamo preso. Noi non volevamo viverci con quelli come noi, con le giovani coppie, o le coppie giovani — che anche se piccola, una certa differenza la fa — te lo ricordi? Conoscere i vicini sulle scale. Un certo Matteo o Francesco o Damiano che poi incontri tutte le mattine e gli tieni il portone aperto quando entra con le buste della spesa. E ne avremmo parlato a cena, di Matteo. Io ti avrei chiesto se sapevi qual era sua moglie. Tu avresti risposto di no. Che non eri sicura se era quella rossa con i due bambini o quell’altra anonima che sta sempre al telefono. E io sarei stato zitto ma in realtà lo sapevo che era quella anonima col telefono sua moglie ma non te l’avrei detto. Poi un giorno li avremmo visti insieme. Un sabato sera. Vestiti bene, lui col sacco dell’umido in mano, la figlia — quanti anni aveva detto? Cinque? — da portare dai nonni. «Seratina romantica» avrebbe detto lui, il tono confidenziale e ironico da giovane coppia con figli piccoli, che è poi il tono di chi sottintende che è una vita che di seratine romantiche non ne fa più ed è invidioso di te che non hai figli ma si sente pure superiore perché lui ne ha. E l’ultima volta che abbiamo parlato dell’ipotesi (non di aver figli, ma che lui ci avrebbe visti così) tu non ci potevi credere che con due sole parole si potessero mandare tanti messaggi.
Ad ogni modo loro prima o poi sarebbero venuti a cena a casa nostra. Io avrei alzato un po’ il gomito. Tu mi avresti tenuto il muso il giorno dopo accusandomi di averci provato con lei, con la moglie di Matteo, perché in fondo te ne saresti accorta anche tu che senza telefono e in una situazione informale e con quel vestito addosso. Ma non te l’avrei messa così, ovviamente. Però poi la sera saremmo andati a prendere il gelato sul viale. La stradina imbrecciata per tornare a casa, quella che poi sbuca sul campetto condominiale. Un film. Una scopata. Con le finestre chiuse, nonostante il caldo, per non far sentire i vicini. La mia sigaretta. Le nostre piante appassite sul balcone.
Ma tanto quella casa lì non l’abbiamo presa. Tanto più che ho letto proprio ora del casino che c’è stato l’altra sera. Due accoltellati. Uno è scappato. C’è la bambina in coma. C’è scritto che c’era gente al momento in cui quello ha tirato fuori il coltello ed ha quasi beccato l’altro, che ha risposto pure lui con una coltellata ma ha preso in pieno la bambina che stava passando in bici nel cortile. Ed è stata presa al fianco, c’è scritto. E ora è in coma all’ospedale. Mentre quell’altro è scappato. Il primo che ha tirato fuori il coltello, mi pare di aver capito. Speriamo solo che non sia la figlia di Matteo la bambina in coma. Quanti anni? Cinque, sei?
Poi tu mi avresti preparato acqua e Varnelli. E avremmo visto un film. Un bellissimo film romantico-adolescenziale. E a metà ci saremmo dati un bacio. Però non siamo più andati ad abitare lì, ti ricordi? Noi non volevamo viverci con quelli come noi. Con le giovani coppie.

#9

«Quando sei ubriaco diventi una merda», diceva lei col cane al guinzaglio.
«Non sono ubriaco», rispondeva lui con un furetto al guinzaglio.

#8

Il terreno poi andava in salita e potevi solo immaginare cosa ci fosse dietro alla collina dorata, che finiva appena sopra al tetto della casa.
Qualcuno una volta aveva parlato di “sabbie mobili” e quelle parole erano rimaste talmente impresse a noi bambini, talmente vivide, da restare fissate da allora nell’immaginario geograficamente e temporalmente circoscritto della casa in campagna. Quella in cui andavamo tutti alla domenica. Quella che sta in fondo alla lunghissima discesa di ghiaia, che dovevi tenerti forte al sedili davanti quando si scendeva.
Dietro alla casa, in mezzo al giallo pastoso del grano dritto sul marrone gonfio e spumoso della terra, dovevano esserci le sabbie mobili.
Quando qualcuno di noi cugini si avventurava in zone inesplorate c’era sempre qualcun altro a dare l’allarme — io, Simonetta, o il figlio dell’ospite di turno, subito istruito circa il “problema sabbie mobili” (nel modo iper-efficace dei bambini che, a differenza dei grandi, hanno il buon senso e la cortesia di consegnare idealmente al nuovo arrivato, specialmente se più piccolo, un “manuale orale” con le regole del luogo, gli usi e i costumi degli indigenti; una guida, in pratica, per risolvere ogni potenziale ambiguità e avvertire l’ospite, nel caso fosse impossibile far luce su alcuni elementi oscuri della storia in fieri che questi si fosse trovato a vivere, di pericoli veri o presunti, esagerati o completamente inventati, spesso con un certo sadismo, dalle gerarchie via via superiori: la cugina più grande e, in crescendo, le nonne, le zie, i genitori).
“Attenta, Serena (ci chiamiamo tutto con la S, noi cugini), là ci sono le sabbie mobili” dicevamo noi se lei, con un brivido alla schiena, gli occhi spalancati sull’eccitante baratro del richio, esistava un momento, provava ad allungare il piede sulla mota umida per verificarne la stabilità. Ma poi se ne tornava indietro. Nessuno osava mai andarci davvero, là dentro. Là nelle sabbie mobili. Ma anche solo pensare di farlo ti dava il diritto di incidere un’altra tacca immaginaria sul tuo bastone del comando.
Le sabbie mobili erano ovunque, lì attorno. La zone proibite erano un oceano e la casa in campagna la nostra isola.
A noi bambini erano vietati: tutto il piano superiore della casa (tranne che per il pisolino pomeridiano, per il quale avevamo il permesso di salire le scale, ma accompagnati da mamme, nonne, zie); il cortile sul retro, scuro, misterioso, possibile tana di serpi e ratti e blatte gigantesche nonché ragni mostruosi a dieci zampe e cinghiali feroci in cerca di cacciatori da incornare; il grano che saliva su fino in cielo, che era sempre inevitabilmente sereno, quasi che arrivare lì, la domenica, significasse entrare in un quadro, immobile nel tempo e nello spazio; la vigna, che ci arriva fin sopra alla testa e dove scomparivano, tutti i pomeriggi, la nonna e la zia Corradina, per interminabili (nel tempo) quanto brevi (nello spazio) camminate, interrotte dalle pause che la nonna, incapace di svolgere due attività nello stesso momento, imponeva a quelle passeggiate a singhiozzo; la strada, infine, quella lunga linea bianca e polverosa che iniziava nel lago di breccia del cortile e saliva ripida su per la collina, per poi svoltare a sinistra e scomparire dietro agli alberi.
A noi era permesso arrivare fino alla terza linea di erbacce selvatiche, che a ciuffi tagliavano a metà la strada.

#7

Ho sognato che dovevo a Renzi 209 euro.
Poi, passando per strada l’ho incrociato. Lui avrebbe tanto voluto un bracciale di corda (lo voleva verde) ma per averne uno comprato coi miei soldi doveva aspettare per via della burocrazia.
Alla fine non so come ci siamo accordati e lui si è preso il bracciale di corda. Dopo averlo misurato (11cm x 40mm, che cavolo di polso ha, Renzi?!) e scalatone il valore dai 209 euro, ha calcolato che gliene dovevo 185.
Avendo io il portafoglio vuoto Renzi ha tirato fuori la macchinetta per pagare col bancomat. Ce l’aveva in tasca.

#6

Il sole che bagna il treno, pastoso come un tuorlo d’uovo.
Treviso, stazione di Treviso.
Le borse di benvenuto in hotel. Una col materiale: inviti, programmi, quaderno, matita. Ci metto il tabacco e gli occhiali e la macchina fotografica e ogni propaggine del me digitale.
L’altra non la apro ma c’è del caffè.
Il talk in riva al fiume. Parole pelose. Innovazione. Ricordi. Scuola, sempre con la S maiuscola perché siamo allo Iuav.
Fatturare.
Startup è una brutta parola. Marzotto che al telefono snocciola di metri quadrati a migliaia e il pubblico guarda il cielo provando a visualizzarli.
Il familiare accento austriaco. Il blu Marc Jacobs. Le zanzare più timorose dell’anno scorso.
Ci si muove poi a gruppetti, «dov’è coso?», «ti cerca…», «sto aspettando…».
Ci accoglie un chiostro. L’importanza della front row quando una seconda fila non c’è, con le odiose strategie di posizionamento sostituite dall’idea di una tavolata cordiale. La passerella al posto del tavolo.
Sfilano le super-model degli anni ’90. Ritagliate. Storicizziamo un’epoca trasformandola in una serie di manichini pop. Sto applaudendo la Evangelista o l’idea assurda della Evangelista?
Nancy Sinatra mostra gli stivali nel video di sottofondo. Segue Venus in Furs. Provo a pronosticare il terzo pezzo — Suzie Q o Cocaine? — ma le sbaglio entrambe.
L’ultima studentessa che esce per gli applausi sembra avere il jet lag emozionale.
Si mangia! O, meglio, ci si chiede cosa si stia mangiando.
Le forbicione da sarta tagliano lingue di gelatina ai petali di fiore, all’ortica, al raperonzolo, che mimano le texture dei tessuti.
Acqua di rose, leccalecca allo zenzero, semi di papavero. Bicchierini, crostini, barattolini. Da shakerare.
Si rimbalza tra i tavoli. E i tavoli sono enormi specchi. Su uno c’è un braciere pieno di farina. Impossibile non ripensare al pronostico di Cocaine.
Poi mi distrae: maglieria e avanguardia. Chi era quell’Anna Pittoni, che discusse d’autarchia col Duce e che scrisse Industria tessile senza macchine e partì con un primo capitolo intitolato Ideali?
La Pittoni oggi avrebbe un tumblr? (e che scriverebbe sulla pagina About?)
Torno al cibo: ghiaccioli alla carne, vodka lemon mescolati con principi omeopatici, acqua lasciata riposare con l’alloro a marinare (digressione sull’alloro: dalle mie parti si chiama baccarolo o arolo; in un bosco d’arolo, che si estendeva fino a là dove ora abitano i miei, c’erano le muse, da qui il nome del paese dove sono cresciuto: Musianum, Monsano).
Continuando a girare tra gli specchi.
Le mie ex-studentesse vestono di nero. E sognano un agosto tranquillo. O festaiolo. L’importante è che si vada. Via.
Ma intanto: all’una di notte la scuola è bellissima, mi raccontano. All’una di notte lì sembra giorno. Si lavora tutti per la serata finale di domani.
(Sai quando poi finiscono cose così, lacrime e sangue, quanto spavento fa il silenzio?).

#5

Un racconto, scritto come una recensione o una falsa biografia di uno che si inventa una serie di successo su YouTube dove ci sono due che dialogano, ma completamente al buio. Quasi fosse una radio. La serie funziona perché di tanto in tanto i due fanno vedere che il video c’è: si accendono una sigaretta, la torcia del cellulare, una candela.
La serie diventa un culto. Ci sono pure i personaggi famosi che cominciano a fare le ospitate. Sempre al buio. Una volta hanno pure scopato. Ma non si sa chi, e con chi. Quando hanno acceso la sigaretta non si capiva.
Chi la recensisce tira in ballo le vignette dove i personaggi sono sempre identici e immobili e cambia solo il fumetto.

#4

Rovigo, stazione di Rovigo. 9,40 del mattino.
Luigi mi chiede se può sedere sulla panchina accanto a me. Ha un paio di pantaloni cachi, delle sneakers, una camicia a righine, un gilet mimetico, baffetti alla Sandro Paternostro. Forte odore di vino. Vino bianco, per la precisione.
Luigi attacca discorso dicendo che praticamente a Rovigo è pieno di figa e mi indica un paio di ragazzine con gli shorts che ci passano giusto in quel momento davanti.
Lo salutano in tanti, Luigi. Arriva un signore con uno di quei cagnolini-topini e “ciao Luigi”. Arriva un ragazzo dell’est con un bimbo piccolo e “ciao Luigi”. Un uomo lampadato con una polo rosa e “ciao Rambo”.
Sì perché Luigi lo chiamano anche Rambo. È sua moglie, gelosissima delle sue frequentazioni con le badanti (che spesso lo invitano pure a pranzo), che dice che assomiglia a Stallone. E forse forse… Ma proprio vagamente.
E comunque lui dice, in dialetto (tutto quello che mi racconta è in dialetto, a dire il vero, e non è che afferro ogni cosa ma dopotutto che importa, Luigi/Rambo è talmente espressivo che potrebbe pure mugugnare soltanto e si farebbe capire), lui dice quindi “che Rambo e Rambo, se ero Rambo mica stavo a Rovigo!”.
Luigi vive nell’appartamento di un suo amico, Flavio, che a quanto pare è morto poche settimane prima. Flavio era il suo migliore amico. Flavio a un certo punto si è ammalato e in pochi giorni è crollato, tanto che Luigi lo imboccava e lo lavava (e la moglie di Luigi: “che ti lavi un uomo?”, e lui: “io al mio migliore amico gli lavo anche il culo”).
Flavio è morto davanti agli occhi di Luigi.
“Aveva gli occhi verdi e la bocca verde”.
Luigi ha provato a chiamare l’ambulanza ma sia il suo telefono che quello di Flavio erano scarichi. E allora è uscito e dopo tanti che dicevano di non avere il telefono (“ma chi ci crede”) finalmente ha trovato una signora che gli ha fatto chiamare il 118.
Al funerale di Flavio erano in sette. Ma Luigi non ci è andato perché non se la sentiva (“quella era la prima volta che piangevo”). Tornando dalla cerimonia la moglie di Luigi, che invece c’è andata, gli ha raccontato che il prete ha parlato sempre di lui, di Luigi, di quanto fossero amici tutte e due.
Mentre me lo racconta, lì sulla panchina della stazione di Rovigo, Luigi si tocca le palle e manda un paio di maledizioni al prete.
Flavio comunque alla fine gli ha lasciato tutto. Pure i soldi. E con quei soldi lui ha ordinato una lapide. Gli altri, dice, probabilmente lì berrà.
Luigi, Rambo, ha 48 anni ma ne dimostra almeno cinque di più. Ha tre fratelli con cui non parla e una sorella che invece lo amava alla follia ma che è morta pochi giorni dopo Flavio.
Luigi ha anche tre figli. E una nipotina di due anni e due mesi.
Di tanto in tanto le compra un gelato, alla nipotina.
“Bevo un bicchiere di meno, così posso comprarglielo”, dice.
Fumiamo un paio di sigarette. Sono le 10,15 e tra poco arriva il mio treno.
Una stretta di mano e un arrivederci.
Quando arrivo sul mio binario guardo la panchina ma Rambo se n’è già andato.

#3

E poi vai a farti l’aperitivo con l’inflessione marchigiana chiedendo il vino che c’era ma che ora non tengono più ma sulla lavagnetta, sì, lì è rimasto.
“Come a volerlo ricordare”, dici tu, ma lei, la barista ti guarda storto e.
Le ragazze con le scarpe sbagliate entrano nei posti scompigliate dal vento. Hanno il cappotto di seconda mano, amano viaggiare in treno, in troppi han detto che sono belle e speciali e ora ci credono un po’, quando in coda per andare in bagno le guardo negli occhi per capire cos’è, da dove viene quel talento speciale per mettere le scarpe sbagliate.

#2

Ma far la trottola con l’auto alle due di notte nel parcheggio del Paradise non si era rivelata una buona idea. Filippo aveva proposto di andare a staccare le stellette delle Mercedes dei tamarri ma visto che avevamo sbagliato giorno e la discoteca era chiusa si era deciso di rimetterci in macchina dopo aver pisciato in compagnia sul muretto. Sette persone, una saccocciata d’erba, due auto, quattordici occhi arrossati che fissavano un punto invisibile di fronte a loro per non perdere la bussola, mentre la notte vorticava via e i neon rampanti del Paradise si mischiavano alle stelle e alle luci del castello, lassù in collina, in una scia giallofucsiaciano che assomigliava a uno di quei cocktail dal nome elfico che provavi a evitare come la peste ma che poi ti ritrovavi a vomitare la domenica mattina, una patina lucida e cangiante sopra strati di vino bianco sfuso e brandelli di maccheroncini al fumé, ricetta speciale della mamma di qualcuno.
“Simone, tu che sei un astronomo, dov’è venere?” mentre le due macchine giravano e giravano nel parcheggio vuoto.
“Deve stare là da qualche parte tra la A e la D”.
“Se giri un po’ più veloce superiamo la gravità e ci arriviamo direttamente”, disse Giovanni, che stava diventando di un color verde marino.
“Te la metto nel culo la gravità”, disse Enrico, le braccia tese sul volante, in scia alla Xara di Luca, mentre fissava con lo stesso sguardo afflitto di Alain Prost la targa illuminata lì davanti, quasi a prendere le misure.
“E quella sopra alla P?”, chiese, mentre continuavamo a girare in quella calda notte di maggio.

#1

(Questa è fiction)
La sezione fiati del Gran Soirée del Sottoscala de La Scala — avevano scelto il nome in omaggio al nonno di Desirée, neanche una prima persa in trentacinque anni di carriera come flauto traverso, passione che trasmise alla nipote durante lunghi pomeriggi nella sua tenuta appena fuori Vimercate — allibì di fronte alla mia trasformazione. Sfilandosi le rattoppatissime giacche in jeans, scientificamente sbrindellate, piene di spilloni, decorate di vernice spray color lavanda e profumate di Arbre Magique (che portavano strategicamente al collo, avendo abbandonato sulla strada dell’underground deodoranti e depilazioni ascellari), i volti arrossati e le fronti spaziose da fiamminghe d’altri tempi imperlate di sudore, le tre ragazze rimasero in shorts tonalità iceberg e reggiseno (sei coppe striminzite color carne, all’altezza dei capezzoli altrettante A cerchiate). Accerchiate dalle bocchette di riscaldamento regolate a temperatura Ade del Frecciarossa Hogwarts-Taranto, non si formalizzarono più di tanto di fronte al ragazzino con gli occhiali e una saetta sbaffata in fronte (disegnata con il rimmel). Di lì a poco si sarebbero tolte le scarpe regalandomi masse di vapore acqueo al sapor di cipolla rossa, broccoli e lime, discutendo le line-up dei gruppi di Gianni Marroccolo, che una volta avevano incontrato nella carrozza ristorante di un diretto Roma-Malmö, intento ad infilarsi minuziosamente in bocca micro-forchettate di quiche al guanciale e funghi porcini, sul tavolino un bicchierino di peltro con due dita di assenzio e una Smemoranda nera con sopra il simbolo della Golden Dawn.
Dopo aver firmato tre autografi su altrettanti libretti di istruzioni della libreria Billy, Marroccolo tentò di agguantare le chiappe di Camillah, la più giovane delle tre, trombonista virtuosa ed ex-fashion designer per un’azienda di borse in pelle di capibara (poi fallita per una brutta storia di evasione, paradisi fiscali e scatole cinesi, la magistratura sospettando il coinvolgimento, mai provato, del minore dei Della Valle). Abituata a trattare con musicisti di ben più bassa lega, la ragazza lasciò fare e sotto l’influsso di una variante in C# della maledizione Imperius congedò le amiche con un cenno della mano e s’infilò sotto al tavolo per assaggiare il seme del Grande Bassista, là dove si erano posate le labbra di un’intera generazione di stelle indie — pare che nella misteriosa Smemoranda di Marroccolo ci fosse pure una lista, che andava dalla B di Boosta alla S di Sangiorgi — per suggere cariche di bianco e appiccicoso talento al profumo di Dash.
«Se Lindo Ferretti non fosse diventato un antiabortista pare che avrebbe voluto formare un supergruppo con Godano, Zamboni, Marroccolo e Syria» disse Desirée sgranocchiando taralli alla bietola e salsiccia.
«Sai che dicono abbia evitato all’ultimo momento proprio l’aborto di Syria?» Camillah, rivolgendosi all’amica, che intanto provava ad infilarsi i taralli tra le dita dei piedi, riempiendo la carrozza di un fragrante odore di asado argentino.
«Ma perché Syria era incinta?» intervenne Pravda, clarinettista reggiana dagli zigomi pronunciati, indiscutibilmente la più silenziosa ma al contempo la più affascinanate del gruppo, con le sue braccia lunghe quasi fino alle ginocchia, i capelli bicolore da badante ucraina e due labbra rosso fuoco che nei suoi rari sorrisi svelavano almeno tre file di sottilissimi ed appuntiti denti da murena.
«Non era Syria che voleva abortire. Era lei l’aborto!» sentenziò Camillah con l’aria di chi sapeva che poi qualcuno — come infatti fece immediatamente Desirée — avrebbe chiesto «Ma scusa quanti anni ha Syria?».
«È del 2007. Pesci.»
«Quindi di marzo.»
«Potrebbe pure essere nata in febbraio.» Pravda era l’esperta astrologa del gruppo e di tanto in tanto le amiche la beccavano a pagare le notti di hotel o i biglietti del treno con dei temi natali fatti sul momento, che assicuravano quasi sempre alla sezione fiati del Gran Soirée del Sottoscala de La Scala viaggi in prima classe e bottiglie di Brachetto omaggio personale del capotreno.
«26 febbraio, infatti. E se ve lo state chiedendo sembra molto più vecchia proprio per via dell’intervento di Lindo Ferretti».
«Il bubbone?» chiese Desirée riferendosi alla leggenda che girava ormai da anni durante i festival estivi, secondo la quale il celebre bubbone di Ferretti non sarebbe stato altro che un frammento dell’Arca dell’Alleanza, finito sul volto emaciato del cantante dopo una notte passata all’addiaccio sulle rive del Po.
La notte portò consiglio. Dopo la ninna-nanna di Desirée le tre si addormentarono sotto la veranda a fiori della carrozza 6 mentre seicento mori a cavallo, ciascuno con una torcia in una mano e una scimitarra nell’altra, cercavano di conquistare la rocca in stile gotico che dominava la collina a pochi chilometri da loro, sotto a un cielo tagliato a metà dalla spolverata di stelle della Via Lattea e i bagliori, all’orizzonte, delle rocche già messe a ferro e fuoco, le teste mozzate degli infedeli catapultate in aria che esplodevano in complessi fuochi d’artificio, illuminando le schiene delle donne e dei bambini che in lunghe carovane si dirigevano a sud-est, lungo la strada piangendo i mariti, i padri, i fratelli e i nipoti le cui teste, nell’esatto istante in cui diventavano brandelli di carne bruciata senza nome, illuminavano il loro stanco cammino verso un futuro di stupri e schiavitù: vista dai vagoni di un treno, la caduta dell’Occidente era uno spettacolo da togliere il fiato, immortalato dagli acquerelli degli artisti in terza classe e dagli appunti dei professori di geopolitica che nella carrozza ristorante festeggiavano in silenzio la nascita di Europa, la figlia di Paride Alfonso Battincasa, loro illustre collega appena diventato padre grazie alle abili manovre di un programmatore informatico della carrozza nove che, improvvisatosi ostetrica, per due lunghissime ore di travaglio era riuscito a salvare la minuscola bimbetta ma non la madre, lanciata sui binari al termine del parto e data in pasto ai gatti selvatici che, lo dico con una certa sicurezza, non si curarono troppo dei blasoni quando azzannarono in branco la carogna sfigurata di Ruperta Lancamoscia de Cubertini, nobildonna lucchese che nonostante la profezia aveva deciso lo stesso di salire su quel treno. Con la piccola affidata ad un balia cieca (come pure annunciato dalla profezia), il signor Battincasa ebbe appena il tempo di versare qualche lacrima di circostanza, prima di gettarsi nel fervore dei preparativi per la sobria festa, vergando di suo pugno i 785 inviti fatti recapitare in tempo record ai suoi colleghi dall’addetto stampa della Società Tarantina Geopolitica e Botanica, un ragazzino di diciassette anni in viaggio premio insieme alla comitiva. Quando aprirono la busta, gli esimi studiosi si scoprirono meravigliati di fronte alla perfezione dell’invito del Battincasa: un ritratto a penna biro della neonata che in un fumetto esclamava, in greco, il primo passo del Vangelo di Maria, mentre il nome, pure in greco, era scritto con un biondo, sottilissimo capello della bimba. In quel sapiente intreccio i professori di geopolitica lessero la sofferenza di un marito, l’orgoglio di un padre, i dubbi di un accademico e, commossi e ammirati, sacrificarono l’addetto stampa, terzogenito indesiderato di un parrucchiere di Monza e di una precaria che dopo anni di chiamate inbound al centralino della Fastweb abbandonò la famiglia e scappò con un settantaduenne di Cucullo che non riusciva ad aprire la posta elettronica. Come altare sacrificale i professori utilizzarono il tavolino reclinabile del posto 11C e per sgozzare il poveretto usarono la stilografica a inchiostro rosso del capodelegazione, regalo del rettore per i venticinque anni di servizio (regalo che il capodelegazione interpretò come un oscuro messaggio in codice ma che in oltre 200 ore di straordinario non riuscì mai ad interpretare e alla fine si convinse che no, non c’era nessun sottinteso, dimostrando una leggerezza che nessuno che poteva dire di conoscere bene il capodelegazione gli avrebbe mai attribuito, leggerezza che due anni dopo gli sarebbe costata la vita quando accettò a cuor leggero l’invito a cena a casa del rettore: 18,30, abito scuro). Il sangue del giovane addetto stampa, di un color rosso rubino dai riflessi verdognoli per via della tappezzeria del vagone, venne usato per disegnare sulle lunghe pareti interne della carrozza due lettere greche: Omega e Phi.

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Simone Sbarbati

Papà, co-fondatore e direttore di @frizzifrizzi. Scrivo, curo, talvolta insegno, in ogni caso imparo. [Profile pic di @marcogoranromano]