Il trebbo

Dalle origini della comunità alla nuova società

Mauro Sandrini
Italian espresso

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Il futuro del pianeta è in mano ai contadini.
Carlo Petrini

“La sera, a veglia, nella stalla di Fregiolo, ci venivano i vicini da Penetola, dai Fondi, da Fregiolino e fino da più lontano. Quasi sempre i discorsi, al lume della lanterna, andavano a finire sugli spiriti. Nella gente c’era la convinzione che di notte ci si vedesse e ci si sentisse e su questo ognuno aveva la sua da dire.”
Mario Gurioli (1)

Oggi il trebbo è il luogo della nostalgia dei vecchi. Fino a pochi decenni fa, però, non era così. Il trebbo era tante cose: la necessità di resistere ai freddi dell’inverno stringendosi gli uni agli altri nelle stalle, il desiderio di passare del tempo con i propri compagni di esistenza giocando, filando, ascoltando… La vita brulicava nelle campagne d’inverno e le porte erano aperte a chi si affacciava a portare la propria novità ad una vita sempre uguale da centinaia d’anni, forse millenni. L’atmosfera di un trebbo del 1920 delle campagne romagnole, infatti, non doveva essere troppo diversa da quella di 1000 anni prima. Era l’atmosfera in cui si svolgeva la vita della gente comune, quella che non finisce sui libri di storia ma che la Storia, giorno dopo giorno, la fa.

Una Storia in cui il trascorrere del tempo è centrale. Oggi che non abbiamo mai tempo, che non possiamo permetterci di “perdere tempo”, è inconcepibile il suo fluire, calmo e ciclico, che disegna la storia e accompagna la vita. Le persone il tempo lo condividono: ne fanno esperienza. Oggi che di tempo non ne abbiamo più per nessuno e, spesso neppure per noi stessi, il tempo lo estinguiamo bruciandolo nel consumo, in un tempo senza esperienza e senza soddisfazione che è quello dei quiz televisivi e della rinuncia ad esserci, pagata magari al prezzo, carissimo, di un happy hour. Il trebbo, invece, era esperienza condivisa nel tempo. Il tempo che si passava con gli altri (us paséva e temp) era esperienza e spazio. Vita e morte. Uno spazio sociale che scandiva la vita e dove si costruiva il ponte fra l’oggi e il domani nella condivisione. Quando la sera ci si incontrava, infatti, si lasciava il giorno che stava finendo gettando lo sguardo sul domani: sulle attività, il tempo meteorologico, le forze della natura.

“(…) Si venne a indicare, Trebbo/Trebbio, sia l’incrocio di più vie (trivium), sia le riunioni che si tenevano nelle rustiche abitazioni contadine (trebum) e per estensione qualsiasi riunione”(1)

L’etimologia della parola trebbo è la porta di accesso ad una scala temporale che si fa vertiginosa e ci lascia sconcertati: i racconti dei nonni diventano la trasmissione orale dell’evoluzione di un popolo e, forse, dell’umanità stessa. Andando a ritroso dal dialetto si passa al latino, dal latino alle radice celtiche e da queste al passaggio dal nomadismo alla fase agricola quando la tribu scopre le abitazioni di tronchi, e poi le case e poi gli insediamenti da coltivare. Il significato moderno di trebbo che è limitato a riunione, incontro, conversazione diventa allora il condensato di tutta la storia umana.

Il patriarcato e l’origine del trebbo

Al calar del giorno, nello scuro gelido dell’inverno, nelle campagne, si andava a trebbo. In una casa o nell’altra dove la porta della stalla era aperta per chi volesse stringersi in uno spazio denso: di animali, di persone e di… odori. Puzza diremmo oggi: anestetizzati come siamo dai profumi di plastica della pubblicità. Si tratta di un’esperienza che non è solo romagnola ma appartiene all’umanità stessa da quando si è affacciata all’agricoltura. L’agricoltura, infatti, porta con sé i primi insediamenti stabili, l’aratro e l’irrigazione, che la distinguono dall’orticoltura che l’ha preceduta (più legata al concetto di beneficiare di ciò che la natura provvede), una maggior produttività e il concetto di proprietà privata.

Con l’agricoltura avviene anche il passaggio dalle società matrilineari a quelle patrilineari (3). In queste società pre-patriarcali il ruolo delle donne era centrale e per nulla succube: le donne, infatti, erano necessarie nel fornire cibo costante al proprio gruppo con la raccolta, cosa che la caccia non era in grado di garantire per via della variabilità dei risultati. Il sapere delle donne di selezionare semi e pianti, sviluppato in milioni di anni, è quindi stato determinante per lo sviluppo successivo dell’agricoltura. Un’agricoltura, quindi, che diventa lo spartiacque nel passaggio da una fase dell’umanità a quella successiva. Si tratta, forse, del bivio evolutivo in cui è avvenuto il passaggio di consegne dell’autorità tra i generi. È anche il luogo dove si situa la comparsa del trebbo: ovvero della caratteristica di incontrarsi e passare il tempo con i propri vicini di abitazione. È la matrice di tutte le esperienze sociali successive — anche di quelle consumistiche attuali — e, sopratutto, il punto di contatto con le altre culture che popolano il nostro mondo oggi.

Se si prova a parlarne con chi ha partecipato a queste esperienze da giovane il ricordo è invariabilmente di piacere e non solo per l’età e la nostalgia: ma per la pratica della vicinanza. È ovvio che non è tutto oro quel che riluccica: che i tempi della campagna e del trebbo erano i tempi durissimi non solo per la fatica fisica ma, anche per il controllo sociale pervasivo sull’individuo la cui esistenza era subordinata a quella della comunità. Eppure. La matrice della capacità relazionale umana risiede probabilmente in quella prima esperienza dove si sono avviati i primi tentativi di collaborazione attraverso il linguaggio. Oggi per andare avanti, dobbiamo probabilmente tornare (molto) indietro per poter attingere alla nostra potenza iniziale in quanto umani. Quella stessa potenza da cui è scaturito il linguaggio e da questo la possibilità del costituirsi di una società. Forti della nostra individualità, ma consapevoli degli sfruttamenti che subiamo e mettiamo in atto quotidianamente, possiamo tornare indietro a quelle radici che non sono fuori di noi ma dentro di noi, che le nostre cellule non hanno dimenticato e, anzi, si manifestano nelle sofferenze solitarie di oggi. Quelle sofferenze che in origine non c’erano perché non c’era la possibilità dell’individuazione. Oggi questa è l’eredita più preziosa, forse l’unica, del nostro modello di sviluppo occidentale. È a partire da ciò che possiamo permetterci un passo indietro per guardare avanti. A un futuro che si cela se lo guardiamo con gli occhi di un patriarcato che non c’è più (3).

La stessa matrice

I trebbi della Romagna, i filò del Veneto, le veglie della Toscana appartengono alla stessa matrice: quella agricola che ha accompagnato l’umanità negli ultimi 10.000 anni. Tutte le società sul pianeta hanno questo passaggio nella loro storia. È un punto di condivisione arcaico ma, proprio per questo, potente. Ha la stessa forza dei miti; la stessa forza delle parole che di bocca in bocca, di cuore in cuore, hanno la capacità di raccontare il mondo e così facendo di costruirlo. È difficile, oggi, ripartire da qui perché la memoria corre il rischio di rendere neutra ciò che è innanzi tutto un’esperienza sociale densa. Una densità che non riguardava solo gli odori dentro la stalla e le nebbie fitte fuori dalla finestra. Ma anche le relazioni: il senso della comunità, il controllo sociale strettissimo e l’esercizio del potere patriarcale intrinseco alle società agricole. Un potere che si riproduceva costringendo alla passività sia le donne sia gli uomini che pure il potere lo esercitavano. L’esercizio del potere, però, è sempre stato ambiguo: per esempio spesso era delegato alle stesse donne: il ruolo dell’arzdora nella riproduzione del potere patriarcale, infatti, è centrale nel favorire gli uomini ed escludere le donne; nel togliere la parola pure a se stesse. Ma la parola sopravvive al potere. Come quella di Maria Buonavista che analfabeta detta la sua autobiografia alla figlia sulla soglia dei novantanni: “Nelle famiglie a quei tempi comandavano solo gli uomini che tenevano le redini di tutto e le donne erano considerate meno di niente. Mia madre poi aveva quel fratello maggiore, che era più che un tiranno, e così se ne dovette andare senza corredo, ma solo con pochi stracci di tela vecchia. Una famiglia facoltosa come la sua che lasciò la sua unica figlia femmina senza corredo! Era allora questa una consuetudine importantissima perchè difficilmente in seguito c’era la possibilità di rifornirsi di biancheria”(4).

La violenza non era solo verso le donne: nei ricordi emerge la durezza dell’arzdor e la sua vigliaccheria nel rifuggire i sentimenti verso la vita che nasce: la vergogna per le proprie lacrime, l’ “uomo che non deve chiedere mai” e le violenze familiari, prima nascoste, che oggi spesso vediamo sbattute in prima pagina sui media hanno storia antica. E chi indugiava su queste veniva denigrato con faciloneria: “Cose di donne” dicevano uomini troppo abituati ad obbedir tacendo e, in questo modo, a morire in guerre di cui cui nulla sapevano3. Questi elementi si condensavano in uno spazio-tempo, quello del trebbo, che ha accompagnato l’umanità per parecchie centinaia d’anni, forse migliaia, in tutta la fase agricola dell’evoluzione fino a quando lo sviluppo industriale prima, e quello postindustriale poi, hanno l’hanno relegata nel regno della memoria.

Quella memoria, però, è ancora attiva e cova sotto la cenere. Pochi decenni di sviluppo forsennato non sono riusciti a cancellare un’esperienza arcaica che non solo ha determinato l’evoluzione della nostra società in termini culturali, ma anche noi stessi in termini biologici. Il rapporto tra cultura e genetica, per esempio, è sempre più stretto: i nuovi studi sugli intrecci fra nutrizione e genetica hanno portato alla nascita di una nuova disciplina, la genomica nutrizionale, che ci dice come il nostro modo di alimentarsi sia entrato, nel corso dei secoli, a far parte del nostro DNA e che, per salvaguardare la salute, non possiamo prescindere dall’inserire nella nostra alimentazione una quota almeno degli alimenti antichi che appartengono ai territori di origine dei nostri nonni e bisnonni. È questo il modo che la scienza ha trovato per dirci oggi che il nostro passato, individuale e collettivo, è dentro di noi, che la memoria è viva nelle nostre intimità più profonde e che possiamo attingervi. Se solo sappiamo ascoltare: noi stessi e gli altri.

L’origine del futuro: significato ed evoluzione

Non è soltanto il rapporto tra alimentazione e biologia a rafforzare l’importanza delle nostre radici in termini evolutivi ma anche del quello tra significato ed evoluzione. È qui che la matrice sociale di cui il trebbo è una “implementazione” trova il suo ruolo in processi ben più potenti del trovarsi dopo cena per giocare a carte ed ascoltare racconti e storie: si tratta, invece, di comprendere il significato che nelle stalle, sera dopo sera, ci ha determinato come società e come individui e che continua a vivere nella nostra memoria cellulare.

Di qui l’importanza di ripartire dalle origini del trebbo, perché lì si situa il punto iniziale di un ramo dell’evoluzione e da lì si può ripartire per un’altra possibilità evolutiva. Oggi che la crisi si presenta in tutte le sue sfaccettature — economiche oltreché sociali e culturali — la posizione nostra, di romagnoli, e più in generale di nativi delle aree rurali che hanno condiviso un’esperienza simile è una posizione di privilegio. Lo sviluppo industriale, con il conseguente abbandono delle campagne, infatti, è così recente che la memoria è ancora fresca ed i ricordi ancora vivi. Non è questo il caso di popolazioni che hanno conosciuto lo sviluppo industriale ben prima, tra il settecento e l’ottocento e che oggi, forse, si trovano ad essere un po’ più lontani da tutto ciò. Detto altrimenti il collegamento con le radici è per noi ancora forte perché è passato troppo poco tempo per dimenticarle. Siamo, quindi, nella condizione di poter attingere ad esse per immaginare e condividere un mondo nuovo imparando da tutto il nostro sviluppo: includendovi sia ciò che abbiamo escluso, il trebbo per esempio, sia l’emancipazione dalla povertà. Si può fare se si lasciano da parte, un momento almeno, gli strumenti, la tecnologia, e si recupera la capacità intrinsecamente umana di condividere: un tempo, uno spazio, un luogo, una vita. Esattamente ciò che accadeva nel trebbo sottoposti però, in quel caso, alle maglie strette del patriarcato.

Perché è importante affondare le mani nel significato del trebbo e non solo nelle sue origini? Innanzi tutto per alzare il velo della nostalgia: un velo che illude e nasconde. La nostalgia fa brutti scherzi infatti: evoca emozioni, percezioni di un tempo che non c’è più al confronto del quale, il tempo di oggi, la vita vera, svanisce nello sfondo. Gli occhi di chi ricorda il trebbo si illuminano e un canale di parole, emozioni si apre: ma restano là, lontane ed inafferrabili. È come il profumo della merenda che ci preparava la mamma da bambini: evoca un sapore così inafferrabile ed intenso da far svanire qualsiasi altro possiamo gustare oggi. Nulla regge il confronto. Evocare l’inconscio, solleticare le immagini arcaiche, può avere degli effetti potenti sui singoli e sulla società. Lo sanno bene i pubblicitari che oggi, magari, riscoprono proprio la valenza dei rapporti interpersonali per vendere di più facendo leva sul grande senso di vuoto e di solitudine che caratterizza il nostro tempo, promettendo, una qualità di rapporti umani che possiamo acquistare magari proprio con i prodotti della comunicazione (telefoni, internet, ecc.). Oggi, infatti, al tempo della crisi economica più grave, gli unici prodotti che si sono continuati a vendere sono proprio i dispositivi di comunicazione: telefonini, net pc, iphone… proprio quelli che fanno rimanere in contatto col mondo e che promettono relazioni ed esperienze.

In contatto con tutti e col mondo, così ci promette la pubblicità. Quel contatto umano che ci promette la tecnologia è un contatto libero da vincoli, un contatto libero da vincoli e senza responsabilità. Se, infatti, sono in contatto con tutto il mondo, con tutti, diventa facile sostituire un “amico” con un altro, una donna con un’altra. È la versione consumistica del piacere senza soddisfazione questa. Un modello utilissimo per vendere prodotti in una società consumistica ma inutile per ciò che riguarda il godere la vita istante per istante.

Oltre la nostalgia

La nostalgia del trebbo porta con s’è un’illusione: quella del non essere da soli e, in questo contenitore così ricco, di annullare la solitudine di ciascuno. Ma la solitudine è il prezzo dell’identità; forse l’unica conquista vera del mondo occidentale. Pagata ad un prezzo terribile: sociale, ecologico, umano. Per esempio la nostalgia del trebbo illude che sia possibile affrontare la morte con gli altri. Invece la morte la affrontiamo sempre da soli1. Come la nascita per altro. Nasciamo con un atto di separazione e moriamo con un altro atto di separazione: entrambi irreversibili, irrevocabili. La paura della morte è una (la?) dominante della nostra società che oggi ci può riportare a questa illusione: al fatto che stringendosi gli uni con gli altri sia possibile affrontare la morte. Non è così. Una delle chiavi del trebbo, che la nostalgia non ci permette di comprendere, è che è possibile godere del piacere della vita con gli altri ma non evitare la morte e la nascita. Questa, però, è la nostalgia di noi oggi, non la vita vera nello spazio del trebbo: nella civiltà contadina né la nascita, né la morte venivano “cancellati” e industrializzati come oggi. La vita di allora comprendeva il tempo avendo la conoscenza della nascita e della morte. Non la rimozione odierna. In questo senso nel trebbo si passava il tempo (us paséva e temp) anziché perderlo come si fa oggi. Il tempo si passava, si condivideva con gli altri e non come quello — dei morti vivi che oggi siamo- di fronte alla TV; nelle case chiuse che sono diventate le nostre abitazioni piene di oggetti e vuote di relazioni umane.

Affondare le mani e il cuore nel trebbo ha anche un altro rischio: quello di nascondere. Le evocazioni quando sono potenti riescono a cancellare quel che non vogliamo ricordare. Il trebbo era anche uno spazio violento di riproduzione del potere patriarcale. Le donne partecipavano lavorando (“cavandosi gli occhi” nel lavoro fatto al lume stentoso dei lumi a petrolio) i bambini partecipavano ma… zitti! In silenzio. Quello era lo spazio dove gli uomini giocavano a carte e bevevano e discutevano. Non era soltanto così, ovviamente, ma era anche così. L’intensità dei rapporti umani che si vivevano aveva un prezzo che si pagava alla comunità e al potere maschile. La comunità restringeva le possibilità espressive dell’individuo in un sistema di regole ferreo dove l’individuo ed i suoi desideri svanivano sullo sfondo.

Quando il potere si fa istituzione esso assume i codici di tutte le istituzioni tra cui, primariamente, il controllo. Il potere maschile dettava la legge, combinava i matrimoni, arrivando ad esprimersi anche attraverso le donne. La figura dell’arzdora, infatti, è legata spesso al controllo delle donne attraverso le donne. All’inizio dell’alfabetizzazione di massa, per esempio, nelle campagne era consuetudine far sì che a essere mandati a scuola fossero soltanto i maschi: “ci si rende conto che la supremazia dell’uomo è legata all’isolamento della donna, che va tenuta lontano dalle occasioni di incontro o dalle possibilità di coalizione, naturalmente nel suo stesso interesse” (Bernardi Ulderico, Una cultura in estinzione, 1975). Nel trebbo, quindi, le donne erano presenti, ma tenute sotto controllo, le donne avevano da lavorare anche li, infatti. Il controllo si esprimeva direttamente sulla loro potenzialità di esprimersi: il linguaggio cioè. Non lasciando loro la possibilità della parola oppure costringendola in canoni maschili.

Il pozzo

In forme variegate il trebbo è stata probabilmente una istituzione che ha accompagnato tutta la società occidentale nel passaggio dall’agricoltura allo sviluppo economico preindustriale; ma tutto ciò all’interno di un sistema patriarcale1. È da dove si è originato il percorso evolutivo che si è sviluppato fino a dove siamo giunti oggi che un nuovo ramo può determinarsi. Anche sul piano sociale. Da lì si può ricominciare facendo tesoro dei risultati e degli errori. Oggi nel punto più basso della nostra crisi economica e sociale il mondo che verrà non si vede ancora. E non si può scorgere per un semplice motivo: spetta a noi costruirlo a partire da un qualche punto. Un punto iniziale di sperimentazione potrebbe essere proprio il trebbo, lo spazio delle relazioni che nelle aree rurali, ma anche nelle cellule dei suoi partecipanti, è memorizzato e vivo2. Non è un hard disk che se viene meno la corrente dimentica: le esperienze e le emozioni che sono arrivate ad oggi con le parole, ma anche con l’aria, pur se inquinata, di questi luoghi.

Il trebbo, inteso come matrice della socialità, è quel pozzo a cui la comunità umana ha attinto per evolvere i propri sistemi di coordinamento in quel modo che abbiamo poi identificato come società. Oggi che la nostra sopravvivenza è in pericolo è da qui che possiamo ripartire. Niente di meno. E abbiamo già cominciato a farlo. Non è un caso, forse, che la prima comunità virtuale di Internet nata negli anni ‘80 del secolo scorso, ora lontanissima se guardata nello spazio del tempo tecnologico, si chiamasse proprio The Well:il pozzo. Oggi, come all’inizio della nostra storia, le uniche risorse cui possiamo attingere siamo noi stessi e la nostra capacità di relazionarci. Per desiderare e condividere le nostre potenzialità nell’agire4. Desideri e azioni che sono le fondamenta dei nuovi mondi5. Ripartire dal trebbo significa tornare indietro, ripercorrere un ramo che conosciamo per riportarci al punto ove questo ramo si è originato. Per iniziarne un altro, nuovo, ma mantenendo la memoria di ciò che è stato. Senza illusioni e senza nascondere. Concretamente.

Grazie a Jerry Kirkhart per la foto all’inizio di questo articolo.

(1) Fet d’una volta, Storie di vita contadina in Romagna, Tempo al libro, Faenza, 2008

(2) Calvetti Anselmo, Voci del dialetto romagnolo, etimi e tradizioni, p. 34, Longo ed., Ravenna, 2001

(3) Muraro Luisa, Al mercato della felicità. La forza irrinunciabile del desiderio, Mondadori, Milano, 2009

(3) Rodriguez Pepe, Dio è nato donna, Editori Riuniti, Roma, 2000

(4) Buonavista Maria, E’ tribuleri, un secolo di memorie, Il Vicolo Ed., Forli, 2006, p.24

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Mauro Sandrini
Italian espresso

www.maurosandrini.it — Autore di “Tanto Tantra”e de “L’elogio degli ebook”. Cultore delle newsletter.