Il mio amico canadese
Un thriller sul Monte Bianco
1
Ricordo bene la Nord alla Tour Ronde e tutto il casino che ne venne fuori. La cosa che mi stupisce è che di alcune cose ho ancora oggi un ricordo perfetto, come se fosse stato ieri, mentre di altre non ricordo nulla. Il vuoto. Ricordo addirittura dove parcheggiammo la mia VW Scirocco a La Palud. Ricordo perfettamente il cambio di funivia e il paesaggio tormentato del versante sud del Bianco mentre salivamo. Soprattutto ricordo il senso di claustrofobia nel percorrere i ripidi 222 gradini che collegano il vecchio Torino con il nuovo. O forse erano i 3.000 e passa metri di quota uniti ai sacchi da più di 20 kg che ci portavamo dietro in quell’estate del 1982. Però non ricordo nulla del rientro al Torino, né di dove dormimmo in rifugio. Ma del sacco nel crepaccio mi ricordo eccome. Ma andiamo con ordine.
Estate 1982. Io e Mike, un ragazzone canadese di madre italiana, conosciuto a far cascate da Giancarlo Grassi, in quel di Condove. Il telefono che squilla verso metà luglio.”Hi! I’m Mike! Sono in Italia qualche giorno. Sei impegnato? Andiamo a fare qualche cosa?”. Il bagagliaio della macchina carico di attrezzatura. Un po’ di tutto, non di sa mai. Roba da ghiaccio e da roccia. Un paio di giorni a casa mia, a Como, e qualche via in val di Mello. Poi il desiderio di mettere mani e piedi sulla neve. Uno sguardo al meteo, cambio di abbigliamento e auto puntata verso Courmayeur. “Andiamo al Torino, ci facciamo la Tour Ronde per cominciare e poi vediamo come butta. Ok? Tra tre o quattro giorni si torna.” “All right”. A Mike andava sempre tutto bene. Era il tipo che come sport preferito aveva quello di riempire lo zaino e di girovagare per i boschi in pieno inverno. Arrivammo così al Torino. Ricordo la sala da pranzo dalle pareti di legno chiaro, con la magnesite sopra lo zoccolino in alto. In un punto si diceva ci fossero le impronte di Patrick Berrault. In un altro quelle di John Harlin. Pochissimi quelli di cui si ricordava avessero fatto il giro della sala appesi con 2 cm di falangi. Io non ci provai. Mike era alto quasi due metri e pesava quasi 90 kg. Probabilmente avrebbe staccato tutto.
Ricordo perfettamente l’uscita dal rifugio nell’oscurità della mattina dopo. Il Dente del Gigante aveva un’aureola viola. Feci una foto che devo ancora avere da qualche parte. Scavalcammo il Col des Flambeaux a quota 3.407 e scendemmo sulla sinistra fino a passare sotto il ripido scivolo a nord dell’Aiguille des Toules. In direzione del Mont Maudit risalimmo il Glacier du Géant e in meno di un’ora arrivammo all’attacco. Superammo la crepaccia senza problemi e facemmo il primo tiro di conserva. Poi Mike piazzò un paio di chiodi da ghiaccio e iniziammo la sequenza che ogni alpinista malato di ghiaccio ama più di ogni altra cosa. Picozza. Picozza. Rampone. Rampone. Con l’unica variante, nei punti meno impegnativi, picozza, rampone, rampone, picozza. La parete era in condizioni perfette. Almeno per noi, abituati alle cascate. Poca neve, molto ghiaccio. Arrivammo in cima. Foto di rito. Discesa. Fu su un punto un po’ più ripido che mentre scendevo faccia alla parete mi si staccò un rampone. Cioè. Si sfilò la punta. Incominciavano a circolare i primi ramponi con gli attacchi rapidi. Era ora di finirla con i ramponi tradizionali, giurai a me stesso mentre scivolavo in basso. Non riuscii a piantare le picozze e mi ritrovai faccia alla parete. Con una certa sorpresa sentii il vuoto. Capii immediamente. Stavo finendo in una crepaccia terminale. Sentii un colpo e smisi di scendere. La crepaccia era stretta e lo zaino aveva bloccato la caduta. Guardai in alto e vidi Mike appena un paio di metri sopra di me. Non era stato un gran volo, ma mi era parso fosse durato un infinità. Attesi che il respiro fosse tornato normale, poi piantai le picozze e mi autoassicurai. Sistemai il rampone. Prima di salire diedi un’occhiata di sotto. La crepaccia si stringeva. In ogni caso non sarei precipitato di molto. Stavo per ripartire ma qualche cosa alla mia destra catturò la mia attenzione. A qualche metro da me, un po’ più in basso, c’erano un paio di chiodi da ghiaccio di ultima generazione, una fettuccia e un sacco di dimensioni generose attaccato al tutto. Un Karrimor viola da un ottantina di litri, direi. Bello pesante, a giudicare da come tirava la fettuccia. Ma chi l’aveva messo? E perché?
2
Qui i ricordi si fanno più confusi. Mi sembra di aver gridato qualche cosa a Mike, ma tra il suo italiano e il mio inglese non ne cavammo un granché. Decidemmo che il sacco poteva restare dov’era e che avremmo avvisato il gestore del Torino. Uscii dalla crepaccia e terminammo la discesa. Tempo mezz’ora eravamo al rifugio. Spiegammo la faccenda al gestore, il quale disse che l’indomani sarebbe andato a dare un’occhiata. Nella notte il tempo cambiò. Alla faccia dell’anticiclone delle Azzorre la mattina dopo nevischiava. Prendemmo la funivia per La Palud, saltammo in macchina e imboccammo il tunnel per la Francia diretti a Chamonix. Bighellonammo per i negozi di articoli sportivi, visitammo un paio di librerie e poi ci sedemmo a Le Nationale. Ricordo che ordinai un croque monsieur con una birra. Fu mentre aspettavo che notai i due ragazzi un paio di tavoli più in là. Come si usa a Chamonix, erano ancora vestiti da montagna. Addirittura uno dei due aveva ancora un imbrago leggero. Segno — pensai — che erano stati costretti a tenerlo fino alla funivia. Nonostante in basso ci fosse il sole, il Bianco era avvolto nelle nuvole. In alto dovevano aver preso neve. Dall’aspetto erano i classici americani della costa est. Capello biondo lungo, pile Patagonia a pezzi, scarponi mai visti. Ma la cosa più incredibile era che ai piedi del tavolo c’era un sacco Karrimor identico a quello del crepaccio. Ancora adesso non so spiegarmelo ma credetemi: in quel momento era assolutamente sicuro. Era lo stesso zaino. Forse era l’adrenalina che avevo sviluppato nel cadere nel crepaccio. Sta di fatto che non avevo dubbi. Era quello zaino. Feci un segno a Mike, indicandogli il sacco ma dimenticandomi che lui non l’aveva visto. Mike abbassò i Ray Ban e allungò lo sguardo e disse qualche cosa del tipo “Bello zaino” in inglese. Uno dei due americani si accorse della cosa. Si girò verso di noi, sollevò la birra e biascicò qualche cosa sorridendo. Mike ricambiò. Non capii una parola.
“Che ha detto?”, gli chiesi.
“Di farci i fatti nostri”.
“E tu cosa gli hai detto?”.
“Di salutarci sua sorella”.
“Siete sempre così affettuosi tra di voi?”
“Sono californiani. Io sono canadese. Molta differenza”.
“Sempre americani”, risposi ancora sbalordito dallo scambio di battute.
“Noi abbiamo la foglia d’acero sulla bandiera. Quelli ci metterebbero una foglia di marjuana se potessero”.
Fine della simpatica conversazione. Finimmo le nostre ordinazioni e ce ne andammo. Gli americani o quel diavolo che erano non si mossero. Qualcosa mi disse che aspettavano che ce ne andassimo prima noi.
3
Nel pomeriggio tornammo a La Palud, mollammo la macchina nel parcheggio della funivia e salimmo al Torino. A cena il gestore venne al tavolo per spiegarci che aveva mandato un paio di ragazzi a vedere ma del sacco nessuna traccia. Cioè, la crepaccia c’era, ovvio. Avevano anche trovato il punto dove mi ero infilato. Da lì erano risaliti alle viti e all’ancoraggio. Ma quanto al sacco, niente. Appena avesse avuto un po’ di tempo un’occhiata l’avrebbe data anche lui. Poteva essere, avanzò l’ipotesi, di qualcuno che avesse fatto un’esercitazione di recupero e poi si fosse dimenticato i chiodi. Però, ammise, le esercitazioni non si fanno in un posto così poco agevole. Insomma: un bel mistero. Dato il tempo infame, il giorno successivo lo passamo a giocare a carte e a saccheggiare — senza essere visti — la riserva di pacchetti di patatine del bar. Poi mettemmo in cantiere il Mont Blanc du Tacul dal canale nord-est. Alla notte, che secondo le previsioni meteo avrebbe dovuto “interessata dalle propagini di un perturbazione soltanto di passaggio”, seguì, come da copione, una pessima alba. Uscimmo egualmente, sperando in un miglioramento che non ci fu. Nei pressi del Col d’Entreve era chiaro che la giornata era persa. Eravamo in ritardo e la nebbia avanzava. Decidemmo di rientrare. Di passaggio dalla Tour Ronde ci scappò un occhio verso la crepaccia. “Che ne dici? Andiamo a dare un’occhiata?”, chiesi a Mike.
“Why not? Tanto oggi non si fa niente”.
“Ok. Andiamo”.
Aggirammo lo sperone e in poco tempo ci ritrovammo alla crepaccia. Trovammo il punto x e Mike preparò una sicura. Il sacco era ancora lì. Bello grosso come la volta scorsa. Lo recuperai. Stavo per aprirlo quando nella nebbia che arriva a folate da valle sentimmo delle voci. All’inizio non capii. Sembrava un miscuglio di inglese e russo. Pensai che si trattasse di qualche alpinista dell’est: a quell’epoca cominciavano a vedersi. Gente dura, non delle mezze seghe come noi. Gente per cui farsi la Tour Ronde con visibilità pari allo zero era più o meno come passeggiare per via Roma a Courmayeur in una giornata di pioggia senza ombrello. Poi qualcuno urlò qualche cosa con un forte accento americano e Mike rispose. C’entrava una sacco. Che qualcuno era venuto a riprendersi. E che sarebbe stato molto contento se non lo avessimo toccato. La cosa curiosa, lo ricordo bene ancora adesso, é che il proprietario del sacco, quello che parlava, non si faceva vedere. Si era fermato più in basso. E così, nella nebbia del Bianco, ai piedi della Tour Ronde si svolgeva questa strana conversazione tra un italiano e un canadese, da una parte, e un russo e un inglese dall’altra. Capivo la metà di quello che si dicevano. Capii benissimo però quando Mike mi disse sottovoce ^Let’s go! Andiamo! Be quite”. Prendemmo la nostra roba e cominciammo a scendere. Mike era teso come cordino da 8 millimetri alla fine di una doppia da 50. Fedele alla consegna non proferii verbo. Sentimmo i russi-americani parlottare tra di loro. Nonostante gli fossimo passati probabilmente a non più di 4, 5 metri non li vedemmo. Se ne stavano immobili da qualche parte, aspettando che ce ne andassimo. Ci avviammo verso il Torino nella nebbia, voltandoci ogni tanto. Niente. Trovammo la pista e la seguimmo. In breve raggiungemmo il rifugio. Mike borbottò qualche cosa, mangiò svogliatamente e si infilò in branda. Non lo vidi tutta la serata. Oltre alla nebbia, anche la tensione si poteva tagliare con un coltello.
4
Non facemmo parola con nessuno dell’incontro. E nemmeno del sacco. Il giorno dopo il bel tempo decise di farsi vedere. Ci svegliammo presto e ci dirigemmo verso il Mont Blanc du Tacul. Passammo dal Cirque Maudit, scivolammo sotto la nord della Tour Ronde e ci portammo alla base del canale che scende dal Col du Diable. Attaccammo il canale nord-est e nel primo pomeriggio fummo faticosamente in cima. Mentre ci mangiavamo un paio di pere, fu lì che Mike mi chiese se avevo capito con chi avevamo avuto a che fare. Polacchi?, dissi. Ok, ma a parte la nazionalità? Boh … Cercatori di cimeli della grande guerra? Quelli erano sull’Ortler, mica sul Bianco. Penso si tratti weed, erba, biascicò Mike. Cioè? Arrivano dall’Italia, evitano il tunnel e i cani antidroga, salgono al Torino, la lasciano da qualche parte verso la Tour Ronde e qualcuno viene a prenderla dalla Francia. Il pensiero che qualcuno sgobbasse a 4.000 metri perchè qualcun altro godesse della sua fatica 2.000 metri più in basso non mi dispiaceva. Magari il prodotto migliorava, dopo un simile trattamento. Lanciammo i torsoli delle pere, infilammo le borracce nello zaino e scendemmo. Qualche ora più tardi eravamo a farci un Génépy al bar del Torino.
5
Il tempo peggiorò nuovamente e decidemmo di scendere. Arrivammo a Courma in tarda mattinata, mangiammo qualche cosa in un bar e bighellonammo fino a quando Grivel decise di aprire. Eravamo dentro a ispezionare quello che non potevamo permetterci quando a un certo punto capitarono i tizi californiani. Uno dei due aveva chiaramente bevuto. Quando vide Mike cominciò a dar di gomito al suo socio. L’altro cercò di portarlo fuori ma quello non se ne diede per inteso e puntò dritto su Mike. Pessima scelta, pensai. Dopo di che, nell’ordine, questo è più o meno quello che ricordo: il tizio A dice qualche cosa in inglese di poco comprensibile a Mike a proposito del fatto se gli piacessero i Karrimor. Mike gli risponde che gli piacevano solo quelli di Chamonix. L’energumeno ride. Segue scambio di battute in un inglese incomprensibile, visibile alterazione della cute del californiano, voci che si alzano, il californiano urla qualche cosa sul fatto che Mike stava per rovinargli la consegna ma commette l’errore di prendere in mano una piccozza da ghiaccio e a dare del rompicoglioni a Mike. Mike non ci pensa un attimo, gli blocca il braccio con il sinistro e con il destro lo colpisce con un discensore che stava esaminando fino a un attimo prima. Il tizio B, socio del tizio A, si butta su Mike, ma io riesco a sgambettarlo prima che lo prenda. Il tizio plana su un paio di scaffali. Arriva il commesso, arriva un erede Grivel, volano attrezzature di vario genere, qualcuno urla ^Chiamate la Polizia!^. Crolla la mini parete di arrampicata. Il tizio ubriaco, con un vistoso ematoma sullo zigomo sinistro, ritenta con la picozza, questa volta con intenzioni assassine. Mentre questo lo apostrofa con “Come here, piece of shit!”, Mike, aiutato dalla scarsa reattività del californiano, ripete il gesto di prima, questa volta con un arco perfetto del braccio destro da sinistra a destra e dal basso verso l’alto, consegnando a qualche chirurgo plastico il futuro del setto nasale del tizio. Rumore soffocato di cartilagine frantumata e schizzi di materiale ematico. La rissa si conclude pochissimo tempo dopo con l’arrivo di due carabinieri che erano al bar di fronte a farsi un caffè. Visita alla locale stazione dei Carabinieri, esibizione dei documenti, interrogatorio e, sia pure con fatica e complice un po’ di erba nelle tasche del tizio alticcio, viene fuori quello che Mike aveva intuito. I due vengono trattenuti. Noi rilasciati nel tardo pomeriggio grazie al giovane ufficiale di guardia che, dopo una lunga lezione a Mike sul fatto che in Italia non si va in giro a picchiarsi nei negozi e lunghe telefonate all’ambasciata canadese, ci lascia andare con l’invito a tenerci a disposizione per la Procura. Mike che esce dal comando sorridendo. Il tenentino che mi saluta sui gradini e mi dice, serio, “Ringrazi il suo amico …”. De che? penso.
6
Non ricordo molto altro del dopo, se non che dopo un po’ me ne tornai a casa. Mike andò da dei suoi conoscenti a Roma e se ne volò in Canada dopo pochi giorni, con l’assenso della Procura di Aosta che gli impose solo di presentarsi all’ambasciata a Montreal per confermare la sua deposizione. Il reato di rissa si sciolse come neve al sole all’interno delle ben più gravi accuse contro i due tizi. Andai poi una volta a Aosta a fare lo stesso nel corso del processo. Fu qualche anno dopo che, mentre ero in studio, ricevetti una busta gialla del Comando dei Carabinieri di Matera indirizzata espressamente a me. Dentro, accompagnato da un biglietto scritto a mano, c’era la velina di verbale ingiallito intitolato ^Comando Stazione Carabinieri, Strada Della Margherita, 8/b 11013 Courmayeur^. Il biglietto, firmato dall’ufficiale di Courmayeur, diceva più o meno così:
“Caro avvocato (perché immagino che nel frattempo lo sia diventato), insieme alla promozione di grado ho finalmente ottenuto il trasferimento a Matera, mio luogo d’origine. Nel sistemare il tavolo ho trovato la copia del verbale che Le allego. Il fascicolo chissà dove si trova e questa copia era destinata al cestino. A Lei, forse, può interessare per ricordo. Il suo amico canadese sta bene? Me lo saluti. Se passa da Matera passi a trovarmi.
Un cordiale saluto
Capitano […]
P.S.
Ho fatto una telefonata all’archivio della Procura di Aosta. I due americani, dopo aver scontato qualche mese da noi, sono stati messi su un aereo con destinazione New York insieme a un agente della DEA. I francesi hanno insistito perché venissero processati anche negli Stati Uniti sostenendo che, portando la droga tra Italia e Francia, il reato è internazionale. Credo stiano ancora scontando la pena”.
Ho ancora quel verbale. C’è un passo che ricordo benissimo. Dice:
[…] richiamati dal fragore proveniente dall’attiguo negozio Grivel ci portammo immantinente all’interno e lì sedammo la rissa che si stava svolgendo. Conducemmo quattro giovani, di cui uno di nazionalità italiana, al Comando per le necessarie identificazioni […]. Interrogato, il signor Mike Chameaux, di nazionalità canadese, dichiara: “Sono e mi chiamo Mike Chameaux, di anni 26, residente […]. Dichiaro di non avvalermi di un interprete in quanto mia madre è italiana. Mi trovo in Italia in compagnia del signor […], che conosco da tempo”. Alla domanda di indicare il signor […], il signor Chameaux dichiara: “E’ la persona che non ha riportato neanche un graffio nello scontro”. Il signor Chameaux chiede di evidenziare a verbale la circostanza, rivolgendo — se pur ammonito — parole di scherno al signor […], appellato con il soprannome di ^[..] the coward^, che lo scrivente traduce, utilizzando il dizionario a disposizione dell’ufficio, con ^codardo^.Viene in ogni caso appurato che il signor […], di nazionalità italiana, non ha partecipato alla rissa.
Come, non avevo partecipato alla rissa? E chi aveva sgambettato l’assassino della California? Mi ritornò in mente il sorriso di Mike all’uscita dai Carabinieri. Se avevo evitato un’imputazione ai sensi dell’articolo 588 del Codice penale (reato di rissa) era quindi grazie a lui. Figurarsi: un avvocato con un passato da rissoso. Non che la cosa mi avrebbe sarebbe stata d’impaccio. Semplicemente, avrei finito con il darmi al penale. Che, lo confesso, a differenza del Bianco non mi è mai piaciuto. Nemmeno un po’.