burp! — rassegna di gastroscritti/01

Ei fu “Per un pugno di link”

Gabriele Rosso
John Doe
Published in
8 min readMar 21, 2020

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Apro con una doverosa premessa, ma chi vuole passare subito agli articoli gastronomici più interessanti della settimana non si disperi: può scorrere oltre senza farci caso.

Per un pugno di link era una rubrica nata su piattoforte.it il 18 marzo 2017 (lacrimuccia). Non ha fatto in tempo a compiere tre anni di età (altra lacrimuccia), perché il 16 marzo 2020 mi è stato comunicato che il sito web avrebbe interrotto le trasmissioni (singhiozzo strozzato): l’editore che lo foraggia, Giunti, deve fare i conti con le problematiche indotte dall’attuale emergenza COVID19, che nel caso specifico vuol dire uffici e punti vendita chiusi, e per il momento non può garantirne la sopravvivenza. Lo capisco, e mi spiace (faccia costernata).

Ma siccome Per un pugno di link non ha esaurito le energie, anzi, è vivo e lotta insieme a noi, e considerato che dopo tre anni una bella rinfrescata iniziava a sembrarmi doverosa, ho pensato di non chiudere, di continuare a scrivere, di fare più o meno la stessa cosa di prima, ma in un luogo diverso e provando a gettare le basi di quello che sarà. Anche se il fatto che la comunicazione piattofortesca sia stata tutto sommato improvvisa mi ha impedito di riflettere e programmare questo passaggio con la dovuta tranquillità.

Per ora Per un pugno di link diventa burp! — rassegna di gastroscritti, così inizio a restituire il vecchio nome ai legittimi proprietari, gli autori del programma RAI Per un pugno di libri. Burp, per chi non lo sapesse, in inglese significa rutto. E nel rutto c’è tutto quello che caratterizza questa rubrica, dall’irriverenza un po' sguaiata al fatto di aver pre-digerito alcune cose per chi legge.

Per almeno quattro puntate se ne starà qui, su Medium, una piattaforma che amo da tempi non sospetti, ma che noi scribacchiatori italiani ancora non siamo riusciti a capire e a sfruttare in tutte le sue potenzialità. E ci starà con una formula che cambia un po’, ma non di molto: continuerò a condividere e commentare i migliori articoli gastronomici della settimana, senza seguire tuttavia l’ordine Italia vs Oltreconfine; non sarò rigido nel numero di articoli scelti e nello spazio di commento a loro dedicato, che qui è casa mia e faccio come mi pare (faccina che ride); aggiungerò qualche riga su un libro gastronomico da leggere, poco importa se recente o vecchio, se italiano o straniero.

Finiti questi quattro numeri “all’epoca del Coronavirus” (aaargh!) capiremo cosa succederà. Diventerà una newsletter? Troverà una nuova casa? Cambierà ancora formula? Rimarrà così com’è da queste parti? Vedremo, in questo momento non lo so nemmeno io. Comunque vada, grazie a chi mi legge e a chi ha speso qualche parola carina in memoriam.

A Frantic Few Days for Restaurants Is Only the Beginning

Pete Wells, come molti di voi sanno, è il critico gastronomico di punta del New York Times. Posizioncina non da poco, mi viene da aggiungere. Dopo aver espresso in questo modo la mia invidia, devo ammettere che si merita tutto e ancora un po’, anche perché trovo i suoi articoli quasi sempre impeccabili, per ciò che racconta, per come lo fa, e per gli spazi di riflessione che spalanca. Qui c’è lo sguardo lucido di uno dei più influenti critici gastronomici del mondo sull’effetto che il maledetto Coronavirus sta avendo e avrà sulla ristorazione. Insomma, in questi giorni si è fatto un gran parlare delle difficoltà che hanno investito il settore, con le chiusure a data da destinarsi e l’incertezza che incombe sul futuro. Ma in pochi sono riusciti a proporre uno sguardo in grado di andare al di là della mera constatazione della crisi imminente. Wells è ovviamente uno di questi, e ci invita a guardare ai ristoranti come a dei luoghi da salvare, a delle specie di istituzioni culturali:

Restaurants are for-profit operations, at least in theory, but, for those of us who can’t imagine life without them, they act more like cultural institutions. If you’d give money to keep the opera going, why not pay a little to keep the restaurant workers afloat?

I ristoranti sono imprese a scopo di lucro, almeno in teoria, ma per quelli di noi che non possono immaginarsi una vita senza di loro, sono più come delle istituzioni culturali. Se dareste dei soldi per tenere in vita l’Opera, perché non pagare qualcosa per mantenere a galla i lavoratori dei ristoranti?

In chiusura Wells fa riferimento alla crisi economica iniziata nel 2008, quando si diceva da più parti che le banche andavano salvate perché il mondo ne aveva bisogno. Oggi forse è il turno dei ristoranti, e come ha scritto David Chang in un tweet indirizzato al sindaco Bill De Blasio, al governatore dello stato di New York Andrew Cuomo e alla deputata locale Alexandria-Ocasio Cortez, “i ristoranti sono troppo piccoli per fallire. Per favore agite in fretta. Grazie”.

The New York Times — 16 marzo 2020

Sempre in ottica Coronavirus e futuro ci sarebbe anche questa intervista di Antonella De Santis a Dario Laurenzi, uno dei più noti consulenti per la ristorazione di Roma: Coronavirus. Pensando al futuro. Cosa succederà dopo la fine dell’emergenza nel settore della ristorazione?

Gambero Rosso — 19 marzo 2020

Capitalis’m Favourite Drug

Sul numero di aprile del The Atlantic nientepopodimeno che Michael Pollan recensisce il libro Coffeeland: One Man’s Dark Empire and the Making of Our Favorite Drug, della storica Augustine Sedgewick. Più che una recensione è un excursus sulla storia e sul ruolo di questa bevanda, e sui suoi legami con il sistema (materiale e concettuale) del capitalismo. Il caffè si è diffuso come una droga psicoattiva molto più efficace dell’alcol e del tabacco, perché i suoi effetti stimolanti ben si conciliavano con i modelli di lavoro (al chiuso) che la rivoluzione industriale sette-ottocentesca richiedeva. E l’industria del caffè stessa, in questo libro raccontata attraverso le imprese di James Hill, si è sviluppata intorno a uno sfruttamento spesso crudele, in certi casi pure subdolo, di Paesi come El Salvador, dove per avere manodopera a basso costo i magnati del caffè a fine Ottocento cospirarono con le autorità statali per privatizzare le terre e affamare le popolazioni indigene. Non solo: hanno imposto la monocoltura perché laddove c’era biodiversità agricola c’era una disponibilità di cibo che cozzava con la necessità di lavoro salariato sottopagato. Poi ci sarebbero la storia della nascita della pausa caffè negli Stati Uniti, e la minaccia del cambiamento climatico sulle coltivazioni, ma questi passaggi ve li lascio scoprire da soli.

The Atlantic — sul numero cartaceo di aprile, in anteprima online

Questo vino racconta di quando 2 milioni di persone vennero cacciate di casa per la loro religione

Qui Diletta Sereni scrive di un vino greco. Anzi no, di storia greco-turca novecentesca. Anzi, nemmeno di questo. Parla di migrazioni. Macché. Discute della fuga di massa verso sud dei milanesi del sud. Naaaaa. Riflette sul rapporto tra un vignaiolo e il suo territorio. Mah. Il punto è che mette insieme tutte queste cose, e lo fa con la naturalezza che è propria dei bravi narratori, senza far sembrare il tutto un collage posticcio, anzi. Io questo articolo lo condivido molto volentieri perché è esemplare di ciò che può essere la bella scrittura gastronomica, e come ci si può arrivare a cotanta bellezza. E poi perché mi piace molto la chiusa finale (spoiler), in cui si legge:

Il vignaiolo, cioè chi coltiva la vigna e dipende dal vino per il proprio sostentamento, vive una specie di simbiosi coi luoghi (a cominciare dal clima, che può fare la sua fortuna o rovina a prescindere dal merito). E finisce presto a pensare i luoghi, e la propria storia in quei luoghi, su una prospettiva temporale dilatata, dove non contano le settimane ma gli anni e i decenni.

Munchies — 18 marzo 2020

Ti ricordi quando uscivamo al ristorante?

Volevo parlare estesamente del libro di Tommaso Melilli I conti con l’oste, ma ancora non l’ho letto, non tutto. Lui lo sa, gliel’ho confessato, e credo mi abbia perdonato, o perlomeno è quello che mi ha lasciato intendere. Motivo per cui per ora mi taccio (recupererò), e lascio la parola a Raffaele Alberto Ventura e a Tommaso stesso attraverso questa bella intervista, in cui si parla sì del libro ma anche di socialità e di questi tempi grami:

Gli unici luoghi dove ci si incontra ancora sono le osterie e le trattorie, insomma i cosiddetti ristoranti di territorio: perché lì, in quei luoghi, conosciamo ancora i codici che ci permettono di sfuggire per qualche ora alla solitudine strutturale alla nostra epoca. È quello che in queste settimane ci manca e ci mancherà, credo: un dispositivo sociale relativamente intuitivo, un luogo in cui entri e ci sono subito quattro o cinque forze in azione che ti ricordano come si dovrebbero comportare le persone normali.

I libri che non traduciamo

Non scrivo del libro di Tommaso, ma dedico due parole a un’autrice bravissima che per qualche motivo qui in Italia ha conosciuto fortune alterne. Sto parlando di Bee Wilson, quarantaseienne food writer e giornalista inglese che ha scritto sei libri di grande valore, dall’opera sulla storia del sandwich a Consider the Fork, un volume sulla storia degli utensili che usiamo abitualmente in cucina che è stato tradotto da Rizzoli nel 2013 col titolo In punta di forchetta. Da allora mi sarei aspettato di vedere tradotti anche i suoi due lavori successivi, First Bite, How We Learn To Eat del 2016, e The Way We Eat Now: Strategies for Eating in a World of Change del 2019. Eppure per qualche motivo ce li siamo persi, anche se siamo ancora in tempo a recuperare. In caso non recuperassimo, consiglio comunque la lettura in lingua originale.

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Gabriele Rosso
John Doe

Editor & copyeditor, mi interesso e scrivo di gastronomia, libri, politica e cultura. Ph.D. in Studi Politici.