contro l’industria della carne, contro la liberazione animale

Una terza via è possibile, ed è l’unica che tiene davvero in conto la dignità degli animali: parola di Jocelyn Porcher.

Gabriele Rosso
John Doe
4 min readSep 21, 2017

--

Foto di www.modernfarmer.com

Qualche giorno fa sull’edizione online di Wired è uscito un articolo dal titolo eloquente: Con la produzione di carne in laboratorio si ridurrà l’impatto ambientale degli allevamenti. Come spesso succede in questi casi il titolo e poi l’intero l’articolo affermano qualcosa di vero (almeno in parte), senza però sforzarsi di inserire la notizia in un quadro più ampio: è un po’ quello che fanno i difensori del cibo a bassissimo prezzo, quando non prendono in considerazione i costi collaterali dell’acquisto di alimenti di pessima qualità, perlopiù realizzati con conseguenze disastrose per salute e ambiente.

Ora, quella della carne in provetta è l’ennesima aberrazione che sta investendo il mondo del cibo in generale, e quello dei carnivori in particolare. Da un lato abbiamo già un’industria della produzione animale che considera la carne come un oggetto, un semplice bene da trasformare e commerciare senza riguardo alcuno per gusto, etica, e (ancora) salute e ambiente; dall’altro ci sono i teorici della liberazione animale che vorrebbero cancellare, con un colpo di spugna, secoli di storia dell’allevamento e dell’addomesticazione senza curarsi, a loro volta, del reale destino dei “liberati”. Adesso in mezzo, da qualche parte, si sono inseriti anche i guru della carne frankensteinizzata, che pretendono di salvare il sistema-cibo ma anche l’ambiente, e che prefigurano un futuro idilliaco costruito in laboratorio.

Quest’ultimo non è nient’altro che il naturale punto d’arrivo dell’industria della produzione animale. Come scrive Jocelyn Porcher nel suo Vivere con gli animali,

«l’evoluzione finale delle produzioni animali è infatti, logicamente, la produzione industriale di carne senza gli animali[…]. Per fabbricare salsicce, nugget di pollo o hamburger, in effetti poco importa agli industriali che il minerale carne, che serve per la fabbricazione, provenga da fabbriche con o da fabbriche senza animali. Ecco perché la produzione di carne in vitro, alla quale stanno lavorando da una decina di anni i biologi, è sostenuta dagli industriali dell’agroalimentare».

Ho scelto di scrivere del tema della carne in vitro perché a modo suo dimostra due cose fondamentali per capire il libro della Porcher, uscito nel 2011 in Francia e tradotto (con grande ritardo, questo bisogna dirlo) solo ora in Italia, grazie a Slow Food Editore.

La prima è che si tratta di un volume di estrema attualità, che non cede un solo millimetro rispetto allo sviluppo del dibattito odierno sul consumo di carne e che proprio per questo dimostra il suo enorme valore in termini di contributo culturale e filosofico; la seconda è la constatazione che in tutti i discorsi pubblici sulla questione, sia di uno schieramento che dell’altro, manca proprio l’attore che invece dovrebbe essere centrale, così come manca nella carne prodotta in vitro: l’animale.

Sì perché uno dei pregi principali del libro risiede proprio nell’affermazione secondo cui sia l’industria della produzione di carne che i teorici della liberazione starebbero disegnando un futuro in cui non hanno previsto un ruolo per l’animale:

«Il trattamento industriale degli animali attuato dalle produzioni animali è una mostruosità, ma la soluzione non è il ritorno al selvaggio costituito dalla liberazione degli animali […]. Questa pseudoliberazione non è, al contrario, che una porta aperta all’alienazione, alla presa di potere dell’industria del vivente sulle nostre vite, alla chiusura dell’essere umano su se stesso, alla rottura del legame con gli animali senza che noi sappiamo ancora nulla di quanto essi potrebbero fare assieme a noi se lasciassimo loro uno spazio autentico. La pseudoliberazione è un ritorno alla giungla e alla guerra contro le bestie».

Insomma, immaginare che basti aprire le gabbie per promuovere il benessere animale è quanto di più miope possa esserci: decine di razze d’allevamento hanno bisogno dell’interazione con l’uomo per sopravvivere, e il punto è che potrebbero farlo con dignità e soddisfazione, con metodi di allevamento più etici, pur rimanendo intatta l’esigenza della loro morte per i nostri fini alimentari.

Lontana anni luce dalla critica battagliera e iper-ideologica di certe organizzazioni animaliste, altrettanto distante dalle giustificazioni dell’odierno sistema massificato di produzione di carne, la terza via della Porcher brilla per pragmatismo, solidità argomentativa e chiarezza espositiva. E poi ci fornisce una prima, semplice soluzione:

«Ciò che mi sembra importante non è il mangiare meno carne, in generale, ma smettere di mangiare la carne che proviene dall’industria delle produzioni animali».

Iniziamo da qui, intanto. E facciamo di questo libro il nostro nuovo manifesto sull’allevamento e sul consumo di carne.

--

--

Gabriele Rosso
John Doe

Editor & copyeditor, mi interesso e scrivo di gastronomia, libri, politica e cultura. Ph.D. in Studi Politici.