e se avesse ragione Baricco?
La lettura di The Game getta una luce abbagliante sul nostro presente.
Quando ho iniziato a sfogliare per la prima volta The Game di Alessandro Baricco sul risvolto di copertina ho trovato un refuso. Lì, in bella vista, sull’ultimo libro dell’autore che Einaudi ha appena strappato a Feltrinelli, tanto per capirci*. Lì tra le pagine nate dalla mente di uno scrittore che ho sempre ritenuto viaggiasse a qualche metro da terra, ben al di sopra di noi comuni mortali, e questo perché “il mio Baricco” è quello di Oceano mare (1993), Novecento (1994) e Seta (1996), è quello dell’articolo Essere Roger Federer, uscito su Robinson il 9 luglio del 2017 e poi su The Catcher, o della lettura televisiva di Furore di John Steinbeck, andata in onda su Rai3 il 2 ottobre dello stesso anno. Insomma, “il mio Baricco” è uno scrittore a cui riconosco una capacità espressiva nell’arte del racconto che ha davvero pochi eguali, alla faccia dei suoi detrattori.
Istintivamente ho quindi vissuto quel refuso come una specie di sfregio, qualcosa che nemmeno il David di Michelangelo nel 1991. Certo, dalle mie parti in Piemonte diremmo esageruma nen. Non esageriamo. E forse ho drammatizzato così tanto quel refuso perché in fondo, oltre allo sgarbo perpetrato all’opera di un grande autore, stavo immaginando anche il mal di pancia che sarà venuto all’editor/redattore/correttore di bozze che se lo è lasciato sfuggire. Solidarietà corporativa, ma non fateci caso.
Ora, perché racconto questo dettaglio insignificante? Perché credo possa aiutare a capire le aspettative che avevo prima della lettura di The Game, che hanno subito dovuto fare i conti (ma a questo mi ero preparato) con il fatto che mi sarei trovato tra le mani un saggio, mentre la mia infatuazione baricchiana la devo ai romanzi degli anni Novanta, agli articoli di giornale, alle sceneggiature. Un saggio sulla rivoluzione digitale, oltretutto. Sulla Silicon Valley, su algoritmi e intelligenza artificiale. Nessun Danny Boodman T. D. Lemon Novecento, quindi. Nessun pittore Plasson. Nessun Hervé Joncour. Al loro posto Steve Jobs, Bill Gates e Marc Zuckerberg, per intenderci.
Ma veniamo al dunque.
Al netto di una prima parte un po’ piatta, per quanto necessaria nell’economia della narrazione della rivoluzione digitale, con il procedere delle pagine il disegno di The Game prende forma in modo via via più penetrante. È un disegno che fornisce un’interpretazione di un’efficacia disarmante di quanto ci è successo e ci sta succedendo, non tanto perché Baricco propone una chiave di lettura inedita dei fatti: credo di poter sostenere che molte delle cose che ci dice con queste sue pagine siano figlie di una letteratura scientifica sul tema che nerd e filosofi dell’era digitale probabilmente conoscono già, almeno in parte. È di un’efficacia disarmante, semmai, perché da un lato arriva potenzialmente a tutti, grazie a un afflato divulgativo esplicito e riuscito (come ha scritto Guia Soncini sul numero autunnale di Rivista Studio, «i prodotti culturali non sono “alti” o “bassi”: sono “larghi” o “stretti”, sono intrattenimenti per le masse o per pochi selezionati che hanno gli strumenti per decrittarli»), e dall’altro evidenzia in modo lampante le interconnessioni esistenti tra la nascita e la diffusione di questi nuovi strumenti, e i fenomeni culturali, sociali, economici e politici che segnano la contemporaneità.
Sta tutto nel comprendere fino in fondo la questione dell’iceberg (attenzione: spoiler). Siamo intorno a pagina 150, là dove The Game ci riporta al 9 gennaio del 2007, il giorno in cui Steve Jobs presentò al mondo intero l’iPhone. Uno strumento fatto gioco. Un oggetto facile e intuitivo, che sotto la superficie dello schermo nasconde una mostruosa complessità, un lavoro smisurato fatto di operazioni imperscrutabili che vengono a galla nella forma rassicurante dell’icona. Eccolo, l’iceberg: la complessità sotto il livello dell’acqua, la vita semplificata sopra, tra simbolini colorati che beffardamente richiamano proprio quello stesso mondo di oggetti che stanno rottamando (telefono, calendario, calcolatrice, rubrica, termometro). Il punto, e qui l’analisi di Baricco coglie davvero nel segno spalancando le porte alla comprensione del nostro presente, è che quell’iceberg è l’esatto capovolgimento di tutto ciò che lo ha preceduto, di quella cultura novecentesca fondata sulla necessità della mediazione delle élites, degli intellettuali, dei tecnici. In un mondo in cui le operazioni complesse possono essere svolte da uno strumento semplicissimo, che bisogno c’è di faticare e di rivolgersi ai mediatori che hanno sempre tenuto in mano le leve della conoscenza e quindi il potere? La risposta è ovvia: nessuno. Quello che è successo dopo lo sappiamo fin troppo bene:
«… abbiamo iniziato a pensare alla rovescia un po’ tutti, e ad adottare, come utile, la regola che qualsiasi partita si poteva giocare a patto di poter disporre i pezzi su quella scacchiera illuminata che è la superficie del mondo: finché rimanevano nascosti in profondità, controllati a vista da caste sacerdotali, tutto era immensamente più incasinato: e in fondo ingiusto, falso e pericoloso.»
Se poi ci mettiamo insieme l’innegabile sensazione di inesorabilità del futuro digitale, un futuro che investe tutto, dalla cultura alla politica, dalle abitudini quotidiane ai tic, ne viene fuori che con questa cosa dell’iceberg dobbiamo farci i conti sul serio, volenti o nolenti. Dobbiamo prendere atto, ed è ciò che emerge con forza dalle pagine del libro, che chi non si vuole condannare all’irrilevanza deve comprendere e in qualche modo rispettare le regole di questa nuova vita in superficie. Per poi magari provare a cambiarle, un giorno. Ma nel frattempo chi sceglie di restare sott’acqua potrà solo annegare.
E qui arriviamo al nodo più problematico della narrazione di The Game, che riguarda quella che definirei la spoliazione del discorso pubblico. Se sulla punta dell’iceberg non c’è spazio per l’articolazione dei ragionamenti e per le sfumature di senso, se a vincere nell’agorà contemporanea sono perlopiù le banalizzazioni, le mezze verità, le frasi a effetto, ne deriva che solo imparando il linguaggio della spoliazione, della semplificazione, della traduzione in “gamese” (leggi: lingua del Game) il sapere novecentesco può pensare di conservare uno straccio di autorevolezza. La cruda e languida constatazione di Baricco è che
«… vale di più una verità inesatta ma con un design adatto ad attraversare il Game, che una verità esatta ma lenta nel muoversi e incapace di schiodarsi dal punto in cui è nata.»
Possiamo stracciarci le vesti quanto vogliamo, possiamo rotolarci nella polvere, possiamo urlare di sdegno fino a farci seccare le corde vocali, possiamo rimpiangere il caro vecchio Novecento (davvero?) fino alla fine dei tempi, possiamo puntare continuamente il dito contro i più idioti giocatori del Game, ma resta il fatto che oggi riuscire a rovesciare di nuovo l’iceberg sembra solo un fuori programma per nulla plausibile. Forse, e qui Baricco centra il bersaglio con precisione chirurgica, sarebbe più utile spendere il nostro tempo per oliare con un po’ di umanesimo gli ingranaggi della rivoluzione digitale. Sudando per rifinire un design che lo renda (questo nuovo umanesimo) di nuovo comprensibile ai più.
*il refuso ovviamente è stato sistemato, e nelle copie che hanno seguito la prima ondata di arrivi in libreria non c’era più.