un’affollata solitudine

A proposito di “Città sola” di Olivia Laing.

Gabriele Rosso
John Doe
3 min readMar 20, 2019

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Nighthawks, di Edward Hopper

Trovo difficile parlare con la giusta distensione dei libri che mi sono piaciuti in modo totalizzante. Forse perché sono entrati nelle viscere, e se ne stanno lì da qualche parte a fermentare, a rimescolare e nutrire la famelica inquietudine interiore. Città sola (Il Saggiatore, 2018) di Olivia Laing è uno di quei libri. Per quanto mi riguarda è IL libro che racconta la solitudine, le sue radici, le sue implicazioni, le sue strade, le sue risultanze. E lo fa con levità dello sguardo e sicurezza stilistica.

Insomma, è uno di quei libri che lo apri e ci finisci dentro, per poi riemergere da una lunga apnea, a giorni di distanza dal momento in cui hai girato l’ultima pagina. Giusto il tempo di digerire tutti i suoi bavosi strascichi.

Credo che colpisca in modo più violento chi con la solitudine è abituato a fare i conti, chi sente addosso la graffiante freddezza di un vivere comune che a volte si fa disumanizzato e disumanizzante. Può sembrare paradossale parlare di solitudine in un’epoca sacrificata sull’altare dell’interconnessione a tutti i costi. Eppure mentre siamo costantemente esposti siamo anche costantemente separati.

Immaginate di stare alla finestra, di notte, al sesto o al settimo o al quarantatreesimo piano di un edificio. La città si rivela come un insieme di celle, centinaia di migliaia di finestre, alcune buie, altre inondate di luce verde o bianca o dorata. Al loro interno, estranei nuotano avanti e indietro, presi dalle faccende delle ore private. Li si può vedere ma non toccare, così che questo comune fenomeno urbano, che si rinnova ogni notte in tutte le città del mondo, infonde anche al più socievole degli uomini il tremore della solitudine, la sua inquieta mistura di separazione ed esposizione.
Si può essere soli ovunque, ma la solitudine che viene dal vivere in una città, circondati da milioni di persone, ha un sapore tutto suo. Una condizione che si potrebbe pensare antitetica alla vita urbana, all’assembramento di altri esseri umani, ma la mera vicinanza fisica non è sufficiente a dissipare quel senso di intimo isolamento. È possibile — persino facile — sentirsi come un guscio vuoto e disabitato pur vivendo a stretto contatto con gli altri. Le città possono essere luoghi solitari, portandoci a riconoscere che la solitudine non richiede necessariamente un isolamento fisico, ma piuttosto un’assenza o scarsità di contatto, vicinanza, famigliarità: un’incapacità, qualunque ne sia la causa, di raggiungere il grado di intimità desiderato.

Queste poche righe testimoniano la potenza del libro, che si nutre delle strade di New York, e della solitudine di alcuni grandi artisti (da Edward Hopper a Andy Warhol e David Wojnarowicz), che l’hanno vissuta e portata in scena, rappresentata. E in fondo insegna che la solitudine è un sentimento universale, qualcosa che non riguarda solo i solitari, gli emarginati, i folli.

La consapevolezza della solitudine è inevitabile per chi vive la propria esistenza consapevolmente. Ed è proprio questo il motivo per cui essere consapevoli vuol dire vivere aggrappato a una qualche forma di inquietudine, più o meno estrema, più o meno in grado di trasformarci in solitari, emarginati, folli. Una condizione descritta con efficacia anche da Andrea Pomella, autore di un altro libro totalizzante come L’uomo che trema (Einaudi, 2018):

Per un malato di depressione la visione è netta, senza nebbie. Una persona non affetta da depressione invece ha una visione sfocata, lavora di fantasia, interpreta, completa le forme come un bambino alle prese con i primi esercizi di geometria. L’opacità è dei sani. Lo è perché il non vedere l’esatta forma delle cose è il dispositivo di natura attraverso il quale ci salviamo da noi stessi.

Potremmo dire che l’opacità è di chi non comprende la sua solitudine. Chi la stringe tra le mani, chi la sente sulla propria pelle, chi la fissa lucidamente negli occhi vive invece in un contesto di totale nitidezza, che può aprire ferite profonde, ma anche schiudere le porte a un’esistenza più completa. Con quel retrogusto amaro sempre in bocca, che bisogna essere in grado di sopportare.

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Gabriele Rosso
John Doe

Editor & copyeditor, mi interesso e scrivo di gastronomia, libri, politica e cultura. Ph.D. in Studi Politici.