Perché Murakami non vincerà il Premio Nobel

Antonio Grizzuti
kairosblog
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4 min readOct 8, 2015

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I primi giorni di ottobre, com’è tradizione, l’Accademia di Svezia annuncerà il vincitore del premio Nobel per la letteratura. Da molti anni tra i favoriti c’è il sessantaseienne autore giapponese Haruki Murakami ma non ci vuole la sfera di cristallo per intuire che nemmeno quest’anno il prolifico scrittore originario di Kyoto verrà insignito del premio, nonostante i bookmakers quotino la sua vittoria 1/7, dietro solo alla bielorussa Svetlana Aleksijeviti. Quella di Murakami e del Nobel è una storia in cui i personaggi si rincorrono senza mai incontrarsi. Non si capisce bene se si amino o si odino, fatto sta che ogni anno — puntualmente — tutto il mondo si volta verso di loro per capire se sia giunta finalmente la volta buona.

Murakami dall’alto del suo successo e del desiderio di condurre una vita il più possibile riservata, pare non curarsi più di tanto dell’onorificenza. Intervistato da Ronald Kelts, autore del saggio “Japanamerica — Come la cultura pop giapponese ha invaso gli Stati Uniti” e columnist per New Yorker, Time e Japan Times, ebbe a dire diversi anni fa: “Non voglio vincere i premi. Quando li vinci significa che sei finito” — aggiungendo, quasi a chiarificare il pensiero precedente: “ogni libro che pubblico, ancora prima che venga pubblicizzato o recensito, vende trecentomila copie in Giappone. Questi sono i miei lettori. Se sei uno scrittore e hai lettori, hai tutto. Non hai bisogno di critici o recensioni”. Scaramanzia, presunzione, o altro? Murakami, esattamente come i suoi libri, non è un personaggio semplice, e forse proprio in questa complessità trova origine il suo incredibile carisma. “Quando scrivo devo addentrarmi in un luogo molto profondo, oscuro e solitario. Poi devo tornare indietro, risalire fino alla superficie. E’ un processo molto pericoloso. Devi essere forte, fisicamente e mentalmente, per fare questo ogni giorno della tua vita”, ha dichiarato nel 1999, sempre rispondendo a Kelts.

In patria sembrano tenere al premio Nobel davvero tanto. Sarà che il Giappone ha vinto solo due volte in questo campo, nonostante una produzione letteraria sconfinata. Senz’altro c’entra il mai sopito desiderio di affermare il proprio valore a tutto il mondo, di diffondere la propria cultura e — specialmente nel primo dopoguerra — di riabilitare la propria immagine agli occhi della comunità internazionale. Il primo Nobel per il Sol Levante arrivò nel 1968 e ad esserne insignito fu Yasanuri Kawabata, anziché l’eterno favorito Yukio Mishima, reo di frequentare ambienti comunisti. Mishima si congratulò con il rivale Kawabata e, in perfetto stile giapponese, dichiarò che non era tra le sue ambizioni vincere il premio. Un retroscena che pochi conoscono rivelato dal famoso critico Damian Flanagan: Kawabata costrinse Mishima a scrivere una lettera di raccomandazione in suo favore indirizzata ai giudici in cambio di supporto per una disputa legale. Entrambi i protagonisti di questa vicenda si tolsero la vita qualche anno dopo, a distanza di poco tempo l’uno dall’altro. “Non penso che Mishima appartenga alla cerchia dei grandi” ammette Flanagan, che non risparmia nemmeno Kawabata: “i grandi scrittori sono dei grandi architetti, e i loro lavori sono concepiti con genialità. Kawabata, da questo punto di vista, era semplicemente un miniaturista”.

Il secondo Nobel arrivò nel 1994 con Kenzaburo Oe, che vinse la concorrenza dei connazionali Shusaku Endo e Kobo Abe, quest’ultimo deceduto l’anno prima. In questo caso — a detta di Flanagan — fu determinante per i giudici l’ottima traduzione del suo romanzo Il grido silenzioso. Sembrerà incredibile ma, nonostante la vittoria, buona parte della produzione di Oe è rimasta non tradotta, precludendone la lettura al pubblico non di lingua giapponese. Circa Oe, Murakami ebbe a dire una volta: “è stato uno scrittore molto influente nella mia gioventù, ma la politica non mi interessa. Gliela lascio volentieri. A me interessano solo i miei lettori”. Come è possibile apprezzare in alcuni passaggi dei suoi scritti, la delusione per il fallimento degli ideali politici propagandati negli anni Settanta è cocente.

In effetti né Kawabata né tantomeno Oe hanno molto a che fare con Murakami. I primi completamente intrisi e immersi nella cultura giapponese, il secondo innestato con l’occidente, a partire dalla sua tesi di laurea sul concetto del viaggio nel cinema americano, passando per la passione per il jazz, fino ad arrivare alla cattedra a Princeton. “Non ho letto molte opere di scrittori giapponesi in gioventù. Volevo fuggire da quella cultura, che consideravo noiosa” ha dichiarato in un’intervista a Paris Review. Murakami si è invece lasciato ispirare, quasi plasmare, dai grandi della letteratura moderna e contemporanea — Franz Kafka e Fedor Dostoevskij tanto per citarne un paio. Le sue opere sono tradotte in moltissime lingue e perciò rintracciabili ad ogni angolo del mondo. La difficoltà a reperire edizioni tradotte, vero e proprio handicap che affligge la letteratura giapponese e che le impedisce di diventare fruibile su larga scala, per lui non rappresenta in alcun modo un problema. Ha aperto al mondo occidentale una finestra sul Giappone e allo stesso tempo contaminato i suoi lavori con elementi della nostra cultura, fino a fondere tutto in un inscindibile e indistinguibile continuum.

Forse proprio l’eccessiva componente pop e l’ambizione per il bestseller lo lasciano inviso all’Accademia, che preferisce valorizzare autori meno conosciuti e tutt’altro che affermati. I suoi fan, gli harukists, incrociano le dita sperando in un ribaltamento del pronostico ma in cuor loro sanno già come andrà a finire. “Se sei uno scrittore e hai lettori, hai tutto. Quando vinci i premi significa che sei finito” — Mishima e Kawabata hanno sperimentato sulla loro pelle la tragica pesantezza di queste affermazioni. Se così fosse, è facile concordare con Murakami, e sperare che a vincere il Nobel sia qualcun altro.

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