“Di cosa hai bisogno?”

Joshua Volpara
Kopernicana
Published in
9 min readJun 17, 2020

Le riunioni al tempo dell’autorità distribuita

“Made to Be” by Lawrence Weiner at Regen Projects in Los Angeles

In pieno lockdown ho avuto modo di assistere ad un webinar tenuto da Brian Robertson, fondatore di Holacracy, fra i più conosciuti sistemi di self management. Con la sua articolata ritualità Holacracy può all’inizio apparire ostico fino a dare l’impressione paradossale, per essere un framework che mira a liberare le persone sul lavoro, di imbrigliare le “normali” interazioni che si avrebbero fra colleghi in riunioni o altre occasioni di collaborazione. Robertson ripete spesso che qualsiasi gioco o sport, se ci si concentra solo sul regolamento, rischia di diventare impenetrabile. Mano a mano che si gioca invece le regole entrano sottopelle e vengono agite senza dover essere più pensate. Il processo può essere più o meno faticoso ma porta in premio il miracolo di un’organizzazione capace di veicolare istintivamente l’autorità dove serve senza ancorarla alla linea gerarchica, un’organizzazione in cui le persone sono libere di scegliere ciò di cui esser responsabili, in cui la motivazione si colloca in profondità nei ruoli di ciascuno.

Cose per chi fa o vuole fare self management. Cioè quasi nessuno a priori, quasi nessuno in modo radicale. Per questo ho trovato particolarmente interessante il taglio del webinar offerto da Brian che, dalla prospettiva “laica” di un qualsiasi business leader, non del profeta del self management, ha voluto prendere di petto uno degli atti sovente più surreali del teatro aziendale: la riunione.

L’occasione, in piena emergenza Covid, è stato il ricorso massivo al remote working di cui il pianeta stava improvvisamente facendo esperienza, tanto che il webinar si intitolava “Leading Virtual Teams & Meetings”. Quando la vostra organizzazione si trova ad agire in maniera distribuita — per un’emergenza, per un progetto, per una condizione ibrida sempre più diffusa o infine per scelta originaria come per Holacracy One, l’azienda fondata da Robertson, o per Kopernicana, il “luogo” da cui vi sto scrivendo ora — la complessità cresce e la partitura delle interazioni asincrone e sincrone che danno vita al concerto organizzativo va radicalmente ripensata. Tutto ciò può rappresentare una straordinaria opportunità non solo per rilanciare la produttività in azienda ma anche per rifondare ruoli, mandati, accountabilities con una chiarezza che forse prima era assente e insieme per trovare una nuova capacità di focalizzazione nelle preziose occasioni di incontro personale.

Ma torniamo alle nostre riunioni. Spesso grottesche, surreali, vessatorie, soprattutto inutili e inconcludenti. Ecco alcune statistiche tratte dal volume Corporate Rebels di Joost Minnaar e Pim de Morree (l’edizione italiana curata da Kopernicana uscirà in autunno per i tipi di Rubbettino Editore):

“Una ricerca dell’Università del Nebraska mostra che ogni giorno negli Stati Uniti si svolgono fino a 55 milioni di riunioni, e che il dipendente medio trascorre sei ore della settimana in una di esse. È ancora peggio per i manager che, in media, trascorrono in riunione circa 23 ore a settimana. E almeno la metà di quelle ore alla fine è considerata ‘improduttiva’, ovvero una perdita di tempo e denaro. La dolorosa conseguenza, secondo i ricercatori, è che le organizzazioni sprecano 213 miliardi di dollari (equivalenti alla spesa pubblica della California nel 2019) in cattive riunioni che, molto spesso, non fanno che peggiorare le cose”.

Ecco dunque l’analisi di Brian Robertson. I meeting tradizionali nascono con un ordine del giorno. Ovvio, no? Subito arriva un’osservazione controintuitiva: costruire l’agenda dei meeting in anticipo apre al rischio che la “teoria” possa prevaricare “l’esperienza”, cioè i veri problemi o le reali opportunità — in entrambi i casi “tensioni” che l’organizzazione dovrebbe saper processare — che le persone stanno incontrando concretamente.

I punti dell’ordine del giorno assumono istintivamente la fisionomia degli “argomenti da discutere” con alcune diffuse implicazioni:

  • si genera un effetto di “competizione per lo spazio” da cui emerge chi ha più potere o chi è più aggressivo;
  • si scatena il “drago della discussione” che imperversa in sala riunioni senza controllo;
  • è facile che gran parte del tempo finisca per essere speso sui primi punti dell’agenda;
  • le decisioni, sempre che ne vengano prese, sono articolate in formulazioni vaghe e spesso intestate al “noi”.

Un modo alternativo di concepire le riunioni si fonda invece sul concetto di tensione: uno scarto fra dove siamo e dove potremmo essere che può essere negativo, un problema da risolvere, uno spreco da eliminare, o positivo, un’opportunità, una nuova direzione.

I punti dell’ordine del giorno coincidono quindi con le tensioni e vengono portati dalle persone stesse in qualità di titolari dei propri ruoli. L’obiettivo è che in riunione accada solo ciò di cui l’organizzazione ha effettivamente bisogno in quel momento. L’emergere spontaneo di tensioni che le persone portano al team assicura l’immediatezza del problema, o dell’opportunità, per loro. Ma cosa garantisce che la prospettiva di ciascuno corrisponda puntualmente ad un bisogno organizzativo? La risposta risiede nella consapevole responsabilità delle persone sul proprio ruolo e insieme nel riconoscimento da parte dell’organizzazione, cioè degli altri colleghi, della loro piena ownership su quel ruolo. Qui si solleva un tema centrale per qualsiasi tipo di azienda, non solo per quelle self-managed: l’approccio alternativo alle riunioni descritto da Robertson ha bisogno di una grande chiarezza sull’autorità di ciascuno. Solo così le persone potranno “chiamare” le proprie tensioni e sottoporle al lavoro collettivo dell’organizzazione.

In questo schema di lavoro le tensioni vengono tracciate all’inizio della riunione e poi sono processate una alla volta. Un facilitatore, non il capo, aiuta e sostiene il processo. Di fronte alla tensione portata dal collega, il facilitatore gli chiede: “Di cosa hai bisogno?”. Cosa dovrebbe fare l’organizzazione per risolvere la tensione? La risposta possibile abbraccia situazioni fra loro molto diverse:

  • la persona può aver bisogno che qualcun altro faccia qualcosa;
  • può chiedere dati o informazioni;
  • può aver bisogno di condividere dati o informazioni;
  • può anche aver bisogno che una certa azione di qualcun altro avvenga su base regolare.

Noterete che quest’ultimo genere di tensioni è più impattante sulle dinamiche complessive dell’organizzazione. Se ci attendiamo qualcosa da qualcuno con regolarità stiamo in qualche modo chiedendo di modificare l’accountability del suo ruolo, stiamo dicendo che l’azienda ha bisogno di un nuovo compito. Per questo in sistemi come Holacracy si destinano questo genere di tensioni a riunioni specifiche, chiamate Governance Meeting: nel governance l’organizzazione si modella sulla base degli stimoli delle persone che svolgono realmente il lavoro, per così dire in presa diretta di fronte all’ambiente che la circonda. Tornando al processo, la discussione termina con il titolare della tensione che dice “Ho avuto quello che volevo”. La tensione è risolta nel senso che l’organizzazione ha messo la persona nelle condizioni di procedere nella direzione desiderata.

Anne Truitt at the Matthew Marks Gallery

Quanti minuti ci vogliono perché un gruppo di lavoro giunga ad una chiara azione o decisione? L’aumento della produttività delle riunioni così ripensate può essere spettacolare fino a miglioramenti, dice Robertson, del 90%. Misurare questi miglioramenti, al di là di una percezione qualche volta magica di un flusso decisionale che si crea, dovrebbe diventare un compito fisso nel lavoro di qualsiasi organizzazione che intenda lavorare sulla produttività delle proprie riunioni e in generale sulla capacità collaborativa del proprio personale.

Ma torniamo ai faticosi meeting tradizionali. Robertson passa al setaccio altre caratteristiche ricorrenti:

  • Le fasi in cui le informazioni vengono superficialmente condivise e quelle in cui vengono in qualche modo processate sono fuse insieme, quindi confuse senza chiarezza.
  • Altrettanto disorganicamente vengono dati aggiornamenti su metriche e dati relativi ai progetti.
  • Priorità e focus sono nelle mani di chi detiene il potere.

Ecco invece la visione alternativa da lui suggerita:

  • La ricognizione su dati e metriche non risolve le tensioni. Occorre quindi destinare loro uno spazio dedicato e distinto dalle tensioni.
  • In questo spazio occorre concentrarsi sui soli aggiornamenti rispetto alla precedente riunione, non lanciarsi in rapporti o visioni panoramiche.
  • Il facilitatore, come già detto, non è il capo. È lì per sostenere il processo, ne è il guardiano. Ciò aiuta a limitare che la “politica” inquini lo strutturarsi dell’agenda.
  • Le tensioni sono catturate in un diario scritto. L’organizzazione registra per iscritto, e con ciò oggettiva, l’azione richiesta dalla tensione.

Una simile visione di come dovrebbero svolgersi le riunioni riflette una più ampia concezione del lavoro e, in particolare, una chiarezza sul significato dei ruoli che spesso manca nel mondo imprenditoriale. Inevitabilmente la riflessione di Robertson ci porta fuori dai confini della sala riunioni. Il modello che condivide si basa infatti su un reale empowerment dei lavoratori — ma la stessa espressione non rende ragione della profondità della motivazione necessaria perché le persone si sentano effettivamente “proprietarie” di un ruolo — e questo implica un costante lavoro di chiarificazione sulle aspettative reciproche fra le persone.

“I confini rafforzano la libertà” dice Robertson. Dev’esserci chiarezza sullo spazio in cui si esercita la leadership di ciascuno: se le persone non conoscono i limiti del proprio potere, non sono effettivamente titolari di ciò che fanno, non conoscono realmente il loro potere e la loro libertà. La ownership genera leadership.

Il ruolo dunque si compone di questi elementi:

  • Un purpose. Siamo ormai abituati a ragionarne a proposito di imprese e altro genere di organizzazioni. Ma ci sfugge spesso che lo stesso esercizio andrebbe fatto per i ruoli in azienda: qual’è la loro ragion d’essere? Quale il loro contributo all’organizzazione?
  • Un dominio. Un territorio esclusivo, una proprietà.
  • Delle accountabilities. Ciò che l’organizzazione e le altre persone si aspettano dal ruolo, ciò di cui hanno bisogno per mandare avanti le cose. Le accountabilities possono intrecciarsi con quelle di altri ruoli.

Per spiegare l’efficacia di un approccio al lavoro centrato sull’autonomia dei ruoli e insieme per enfatizzare il cambiamento di mentalità che comporta, Robertson richiama la metafora — già amata dagli esperti di Lean Management — del traffico regolato dalle rotonde invece che dai semafori. Le rotonde hanno dimostrato di garantire contemporaneamente un miglior flusso e una maggiore sicurezza rispetto agli incroci governati dai semafori. Nello stesso tempo richiedono una maggiore attenzione e responsabilità ai conducenti.

Metafora semplice ma molto efficace. Organizzativamente siamo ancora dominati dal paradigma del semaforo: il flusso del lavoro, Taylor docet, è regolato da un meccanismo esterno che consente a chi lavora di pensare il meno possibile, che riduce al minimo indispensabile la sua discrezionalità. Il paradigma della rotonda implica un modo tutto nuovo di condurre le attività, più attento all’ambiente circostante, più responsivo rispetto alle azioni degli altri. Sembrerebbe, da un’ottica manageriale, più aleatorio e più rischioso. La metafora ci suggerisce invece che è più efficiente e più sicuro!

Anne Appleby, Peace Valley, www.albrightknox.org

“Fate riunioni più efficienti, potrete farne di meno”. Il suggerimento di Robertson è di non attendere le riunioni per risolvere le tensioni. Occorre usare i meeting se e quando sono utili alle esigenze dei ruoli che ricopriamo. La riunione rappresenta un momento di servizio dell’organizzazione verso persone che vestono il proprio ruolo in maniera responsabile e motivata. Si arriva al paradosso di incentivare un “disimpegno costruttivo”: non tutto ciò che accade in riunione deve necessariamente interessare chi vi partecipa e solo le persone sono in grado di valutare responsabilmente se essere partecipi o, appunto, attivamente disimpegnate (nessun problema se buttate giù la lista della spesa nel frattempo o mettete un like al post di un amico).

Un altro insight che arriva da Robertson riguarda i conflitti. Spesso la vera motivazione per cui si criticano il colleghi, o si viene da loro criticati, è radicata in un’opacità delle accountabilities. La chiarezza organizzativa, prima ancora che il viatico per l’efficienza e la produttività, è il prerequisito fondamentale per le buone relazioni fra colleghi.

Tutto, ancora una volta, ruota attorno alla “ownership” che le persone esercitano sul proprio lavoro. Il termine inglese own deriva dal participio passato della radice indoeuropea *aik- “be master of, possess,” ovvero esser competenti, padroneggiare. L’organizzazione che fonda il potere decisionale sulla ownership dei lavoratori è una realtà solida e insieme capace della resilienza richiesta dal secolo in cui stiamo vivendo.

“La cosa di cui il mondo ha più bisogno è di responsabilizzare le persone; le imprese possono diventare il luogo in cui ciò avviene”.

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