Gli anni di “Quartaparete”.

L'asino vola
The Critic as Artist
8 min readMar 3, 2015

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Ricordo di Ruggero Bianchi

La rivista “Quartaparete” uscì tra il 1975 e il 1983 diretta da Ruggero Bianchi e da me. Ora che Ruggero è morto mi preme ricordarlo rievocando quell’esperienza.

di Gigi Livio

Nel 1975 dar vita a una rivista non era come farlo oggi. Da questo punto di vista è cambiato proprio tutto o quasi tutto. Ora chiunque abbia dimestichezza con i segreti del web può scrivere ciò che vuole, impostarlo come vuole e diffonderlo: se poi ciò che ha scritto venga letto è un’altra questione. Non è questa l’occasione perché io dica la mia su un argomento tanto discusso dal punto di vista politico (nel senso lato), morale (in senso ancora più espanso) e sociale; mi basta qui affermare che per me non è certo un fenomeno negativo sebbene contenga degli aspetti negativi.

Torniamo al 1975 e cioè a quarant’anni fa. Allora se qualcuno intendeva fondare una rivista per cercare di diffondere le proprie opinioni senza dover ricorrere a altre riviste che riteneva, come impianto generale, non del tutto in linea con le proprie convinzioni su un determinato argomento, doveva, come primo passo, cercarsi un editore. Questa ricerca non era cosa facile perché, sempre allora quando i libri venivano composti e poi stampati con caratteri in piombo, tutta l’operazione risultava costosa e l’editore doveva avere una certa fiducia nel direttore o nei direttori della rivista perché questa venisse poi venduta, dal momento che gli editori impiegano capitali per poi averne un beneficio economico, ovviamente.

Ruggero Bianchi e io avevamo ormai da tempo le idee molto chiare. Interessati al grande fermento teatrale della prima metà degli anni settanta, intendevamo appunto avere una rivista tutta nostra per cercare di interpretare quel tipo di teatro dal nostro punto di vista che era poi quello di un’adesione entusiastica a quella che veniva definita o “sperimentazione” o “avanguardia” o, ancora, “neoavanguardia” (variante: “teatro di ricerca” come se tutta l’arte non fosse anche ricerca), dove però l’entusiasmo era temperato dalla critica e cioè da una visione dell’arte teatrale che sapesse distinguere, nel mare magno delle molteplici e numerosissime iniziative, ciò che a noi e, appunto, alla nostra visione critica sembrasse opera di valore, o che valore possibile annunciasse, contro ‘prodotti’ legati soltanto alla moda poiché in quel tempo l’avanguardia e lo sperimentalismo erano diventati, o stavano per diventare, una moda.

Si trattava allora di trovare l’editore; ci pensò Ruggero e questo è certo non l’ultimo dei suoi meriti nei confronti della rivista. L’editore fu Ippolito Simonis e la casa editrice la torinese Tirrenia Stampatori. Simonis era un raffinato mercante d’arte, nostro compagno di studi, che aveva fondato questa piccola casa editrice perlopiù legata ai corsi universitari ma che non rifuggiva da tentativi coraggiosi. E audace fu il caso di “Quartaparete” che partiva svantaggiata nei confronti di altre iniziative simili che l’avevano preceduta.

Ma l’editore non fu scontento anche del risultato commerciale dell’operazione visto che dopo i primi tre numeri li ripubblicò in un curioso e bel cofanetto la cui grafica, pure se non firmata, si deve a Paolini. Ripensandoci ora ritengo che quel piccolo successo editoriale — non lo posso sapere con certezza perché noi non avevamo alcuna percentuale sulle vendite e quindi non vedevamo i rendiconti — fosse dovuto alla scelta degli argomenti monografici di ciascun numero e a un colloquio particolare di cui dirò dopo.

Il primo numero era dedicato all’animazione teatrale, allora molto in voga, e su cui sentivamo il bisogno di iniziare a fare chiarezza, sempre dal punto di vista critico naturalmente.

Il secondo aveva un titolo che oggi riterrei — e Ruggero penso sarebbe d’accordo con me — piuttosto reboante: Teatro politico. Ma reboante o no quella rubrica enucleava un problema che a noi stava molto a cuore e che i due nostri editoriali intendevano mettere in evidenza. Quello di Ruggero, Teatro politico e uso politico del teatro: pubblico e spazi, riletto oggi, si rivela come uno strumento utilissimo per comprendere la situazione teatrale di quegli anni al di fuori dell’ufficialità rappresentata allora come oggi dai Teatri stabili e dalle compagnie “private”.

E inoltre, o forse soprattutto, in quel numero, insieme a altre “interviste” tutte importanti e interessanti, spiccava il resoconto di un Incontro con Carmelo Bene, assai ampio, che costituiva non tanto la ciliegina sulla torta quanto la torta stessa. Il colloquio si svolse a Torino, in un albergo cittadino, il 17, 26 e 28 dicembre del 1975, periodo in cui CB aveva iniziato le prove del Faust: Marlowe-Burlesque con la regia di Aldo Trionfo.

Carmelo Bene, a destra, insieme con Franco Branciaroli in una fotografia di scena del Faust: Marlowe-Burlesque (1975) con la regia di Aldo Trionfo.

Il primo giorno ci presentammo a Bene, che non conoscevamo ancora di persona, con un registratorino a nastro. CB ci accolse con insperata cordialità — aveva fama di essere piuttosto scostante — , ci mise a nostro agio instaurando immediatamente un rapporto amichevole e mostrò la sua disponibilità a rispondere a tutte le nostre domande, quali che fossero. Tutto avrebbe dovuto svolgersi il primo giorno non fosse che Ruggero, che aveva portato il registratore, si era dimenticato di inserire il nastro. Ritelefonammo a Carmelo che non si turbò per nulla e ci invitò nuovamente per il 26. Ma un giorno non bastò perché, nel frattempo, e sulla base della conquistata confidenza reciproca, le divagazioni furono molte e svariate.

Ruggero, che tra le sue doti aveva quella di essere un grande lavoratore, s’incaricò di sbobinare la lunga chiacchierata e insieme decidemmo di non differenziare le domande, quelle sue e quelle mie, ma di scrivere soltanto “D.” e “R.”, cioè domanda e risposta, in modo che il colloquio con il “mostro” comparisse come un risultato ottenuto dalla rivista e cioè da noi due insieme. Ricordo questo per dire quale fosse il nostro modo di lavorare e come insieme ci prefiggessimo di raggiungere certi scopi. Quel numero conobbe certamente un successo editoriale non indifferente.

[Mi soffermo a ricordare un fatto che non è certo di costume ma che è anche di costume. Poco tempo dopo una rivista teatrale francese, Travail théâtral, pubblicò parte del colloquio riducendolo a dichiarazioni beniane di poetica col montare soltanto alcune risposte e eliminando le domande. Ruggero intendeva denunciare il direttore e i redattori truffaldini per violazione della proprietà intellettuale; io, più disincantato nei confronti del costume predatizio tipico delle società capitalistiche, non avevo voglia di impegnarmi in una lunga azione legale. Lasciammo perdere. A vedere come poi sono andate le cose — e tenuto conto che CB fino a quella data aveva sempre rifiutato di rilasciare interviste lunghe e articolate come era ed è la nostra — e cioè a come si è ridotta oggi la proprietà intellettuale e a come certi editori, non tutti come sempre, trattano gli autori — neanche fossero loro, gli editori, a scrivere le opere su cui lucrano — , posso ora affermare con tranquillità che aveva ragione Ruggero. Sia ben chiaro: non rimpiango nulla e il disincanto nei confronti della società capitalistica si è semmai rafforzato. Ma questo non vuol dire che si debba subire tutto e combattere solo su un piano intellettuale, con le lezioni, le conferenze, i libri e gli articoli mentre invece, ecco perché oggi penso che avesse ragione Ruggero, questa società va combattuta con tutti i mezzi, anche con quelli, ineluttabilmente ideologici, che essa stessa mette a disposizione: in questo caso una legge che difende, orribile a dirsi, la “proprietà privata”. “Chi ruba è un ladro” aveva sentenziato non molto tempo prima un saggio orientale quando alcuni suoi seguaci, spinti non certo solo da entusiasmo ideale, si misero a saccheggiare le case di coloro che ritenevano boicottassero la loro azione.]

Dalla fine degli anni sessanta a tutti i settanta Leo De Berardinis e Perla Peragallo si ritirarono programmaticamente a Marigliano, un comune non lontano da Napoli, per studiare e poi portare in palcoscenico il “teatro popolare”.

Il terzo numero, il 3/4, dal titolo Teatro sperimentale, è quasi tutto a cura di Ruggero e contiene diverse importanti interviste; e, infine, un altro colloquio, mi si permetta di non celare l’orgoglio, “epocale”, anche se meno proficuo sul piano commerciale, e cioè quello con Leo De Berardinis e Perla Peragallo. Su questo scambio di opinioni dirò soltanto che Ruggero e io siamo riusciti a stimolare Leo, Perla non parla, a mostrare con grande apertura artistico-intellettuale e fino in fondo la poetica teatrale sua e di Perla, per cui il colloquio risulta un testo fondamentale per comprendere il teatro di quegli anni. È dopo il terzo numero che l’editore decise di ristampare tutto ciò che era uscito fino a quel momento e di presentarlo in cofanetto.

Dopo questo numero le cose tra Ruggero e me tendevano a complicarsi. Non l’avevamo mai pensata allo stesso modo sul teatro e sull’arte in genere poiché il nostro sodalizio si basava sulla stima reciproca e sul rispetto di poetiche critiche diverse ma non, fino a allora, contrapposte. In quegli anni, i primi ottanta, venne fuori e rapidamente si affermò, come era ampiamente previsto dalla ormai trionfante “società dello spettacolo”, il teatro postmoderno, trasposizione sul palcoscenico del mondo e della filosofia postmoderni. E qui la diversità delle nostre poetiche critiche, come per altro delle ideologie politiche, venne a conflitto: Ruggero fu decisamente a favore di questo tipo di nuova sperimentazione, io contro. Non cambieremo idea, pur mantenendo la stima reciproca di cui ho detto — che era basata sulla profondità di pensiero con cui, lui certamente e forse anch’io, frequentavamo le ormai opposte ideologie teatrali (e artistiche in genere) — e ci troveremo sempre a militare in campi opposti.

La storia di “Quartaparete” continuò ancora per tre numeri ma decidemmo di separare le nostre responsabilità “direttoriali”. Il numero 5, dedicato all’attore e al suo rapporto con la scrittura drammatica, lo curai io e il 6 che aveva per argomento un tema simile e cioè ancora il rapporto tra script e performance nel nuovo teatro americano — argomento che Ruggero conosceva benissimo perché non solo era nato come americanista ma anche perché andava quasi tutti gli anni a studiare il fenomeno “sul campo” — uscì invece a cura di Ruggero.

La rivista si concluse con il numero 7/8 intitolato proprio al Teatro postmoderno la cui prima parte, che riportava gli atti di un convegno del 1982, promosso da me e da Bartolucci, era dedicata a una riflessione sul postmoderno in generale, mentre nella seconda parte Ruggero raccoglieva documenti fondamentali per la storia di quel momento teatrale.

Ruggero Bianchi.

Il 27 gennaio, Ruggero Bianchi è morto. Posso affermare senza retorica, anche se l’uso di certe parole porta ineluttabilmente con sé questo sospetto, che il teatro “di sperimentazione” ha veramente perso un importante interprete e promotore. Perché Ruggero è stato anche questo e cioè un promotore del teatro in cui credeva e ancora oggi lo si trovava sempre negli incontri, nei dibattiti in cui potesse cercare di “promuovere”, appunto, la sua idea del teatro. Questo aspetto, quello di lottatore sul campo, mi è sempre appartenuto soltanto in parte e oggi, passati gli anni verdi e divenuta anche fisicamente insopportabile la noia di fronte a spettacoli che non hanno più nulla di interessante, meno che mai. Ruggero, invece, era sempre alla ricerca di qualcosa di diverso e di nuovo che, e qui aveva ancora una volta ragione lui, può sempre brillare anche nella tenebra più fitta.

© L’asino vola / marzo 2015

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