“Nunc est bibendum!” Il vino nell’antica Roma
Introduzione
Il vino è una bevanda antica quasi come la storia dell’uomo stesso. L’importanza del vino ha spesso travalicato il comune utilizzo gastronomico, andando a toccare aspetti sociali e culturali di grande rilevanza. I motivi che hanno spinto numerose popolazioni dell’antichità a tale processo di nobilitazione sono molteplici. La difficoltà oggettiva della coltivazione dell’uva, la grande differenziazione dei vitigni e dei risultati ottenibili, il valore religioso acquisito in numerosi credi, nonché il valore meramente commerciale dato dai primi scambi tra le popolazioni del Mediterraneo sono alcuni degli elementi che ne hanno sancito l’importanza.
La bevanda è insomma presente da sempre nello specchio mediterraneo, ma il suo consumo e la sua produzione divengono rilevanti di pari passo all’evoluzione economica e sociale della zona considerata. Non è un caso che il vino (così come l’olio) pur se già conosciuti e prodotti dai primi Romani, divengono oggetto di un consumo più massiccio solo con l’apertura al mondo greco ed etrusco. Nonostante le influenze elleniche però, la bevanda rimane per molto tempo un lusso, se non addirittura un eccesso, per i Romani, la cui cultura della frugalità e dell’essenzialità si stempera significativamente solo con le prime grandi conquiste militari. In tal senso bisogna sempre ricordare quanto sia scorretto parlare di Roma come di un unico immutabile blocco storico: ogni periodo della società romana porta con sé centinaia di sfumature e differenze, sovente senza seguire un percorso uniforme. Ed ecco che se il vino passa nel secondo secolo avanti Cristo a vero e proprio alimentum delle tavole romane, già con Augusto si ritorna a una concezione più morigerata e retta (complici le politiche di austerità e ripristino degli antichi mores fortemente volute dal primo princeps). Ancora, il periodo aureo del principato e in parte del dominato corrispondono a una grossa apertura della nobiltà e dei ceti ricchi verso il lusso e lo sfarzo, facendo poi numerosi passi indietro con l’avvento del cristianesimo. Ovviamente non bisogna mai generalizzare nella concettualizzazione di quello che “i Romani facevano, pensavano o bevevano”. Come ogni consesso sociale anche quello dell’impero romano era soggetto a influenze culturali e religiose, pur non vivendo mai nell’assolutismo di chi interpreta male le fonti. San Girolamo, dottore della Chiesa e personaggio di spicco per il rigore morale anche tra la nobilitas romana, così descriveva il vino:
Il vino è l’arma migliore del diavolo contro i giovani. Né l’avarizia, né il gonfiore dell’orgoglio, né il fascino dell’ambizione sconvolgono così a fondo gli animi.
Importante è capire come la lettura delle fonti sia perniciosa se fatta con la generalizzazione di chi non contestualizza. La morale di Girolamo è intrisa di un rigore considerato esagerato anche da alcuni contemporanei, tanto che alcune delle sue battaglie concettuali furono più politiche che teologiche. Eppure a tener conto solo della sua XXII epistola sembrerebbe che i Romani nel 384 d.C. non toccassero alcol. Chiaramente non è così.
Cenni storici
Sebbene, come si vedrà nel paragrafo dedicato, i Romani raggiunsero un livello avanzatissimo nella tecnica viticola — tanto da imporre uno standard di coltivazione usato praticamente fino al 1700 — non è a loro che si deve la diffusione del vino e della vite. Evitando di partire dal paleolitico e dalle diverse ipotesi degli storici riguardanti la nascita della coltivazione viticola, si può ben affermare che Roma subì l’influenza di ben due popoli già dediti alla produzione di questa bevanda: gli Etruschi e i Greci. Gli Etruschi coltivavano la vite già prima dell’arrivo dei Greci nel sud della penisola: nel VIII sec. a.C. era già apprezzata la V. vinifera sylvestris, una particolarità di pianta autoctona successivamente domesticata. I Greci importarono invece la V. vinifera sativa, tipologia poi conosciuta e diffusa in tutta l’Italia anche dai Romani. Questi due popoli contribuirono a creare una diversificazione delle piante e dei vitigni con ripercussioni che sussistono ancora fino ad oggi.
Non è questa la sede per approfondire un discorso che merita indubbiamente più precisione, basti accennare al fatto che ai giorni nostri rimangono notevoli differenze nella tecnica di coltivazione della vite tra la zona toscana/padana e quella campana, differenze risalenti fino ai tempi sopra ricordati. Ancora, la differenza di produzione e tecnica atteneva a una più complessa (e disomogenea) associazione del vino ai culti religiosi. Un contrasto questo che contribuiva a separare in maniera netta e chiara i due differenti “mondi vinicoli”. Tornando alla Grecia, questa si può ben considerare la più importante zona di produzione del vino dell’antichità, almeno fino al momento della piena affermazione romana. Le città elleniche, nonché quelle della Magna Grecia, hanno contribuito in modo determinante alla diffusione della bevanda, alla varietà di specie coltivate e alla creazione di un culto religioso e simbolico duraturo. Un elemento quest’ultimo di grande spessore: da Dioniso fino a Bacco (la versione romanizzata del primo) la vite è rimasta al centro di un processo di “nobilitazione” della pianta e del suo prodotto. Non è un caso che il vino abbia mantenuto il suo ruolo simbolico, essendo un elemento di rilevanza anche per la religione cristiana ed ebraica.
Bevetene tutti, perché questo è il mio sangue dell’alleanza, che è versato per molti per il perdono dei peccati. Io vi dico che d’ora in poi non berrò di questo frutto della vite fino al giorno in cui lo berrò nuovo con voi, nel regno del Padre mio.
Ai Greci si deve quindi il merito di aver diffuso una grande varietà di vini, alcuni considerati tra i più pregiati dell’epoca. La commercializzazione del prodotto, veicolata dal vivace mercato del bacino del Mediterraneo, lo impose come bene di lusso imprescindibile per le classi sociali più elevate.
Il termine di questo piccolo excursus storico è proprio il periodo romano, caratterizzato da un fortissimo impulso commerciale e produttivo, tale da rendere il vino un bene di consumo quasi popolare.
Le tecniche vinicole
Come quasi tutte le attività produttive portate avanti dai Romani, anche la produzione vinicola toccò punte di eccellenza che non possono non farci pensare a incredibili e anacronistici confronti con i nostri giorni. A dimostrazione di queste affermazioni ci vengono incontro numerose fonti e prove archeologiche. Relativamente recente è la scoperta di una villa coloniale del III secolo a.C. nei pressi di Mondragone, corredata con ambienti e strutture specificamente dedicati alla viticoltura. Una scoperta utile principalmente per lo studio delle strutture delle ville schiavistiche romane (che si affermeranno massicciamente in un periodo leggermente successivo, ovvero dopo le guerre puniche), ma che fornisce la percezione della serietà con la quale veniva curato il frutto della vite.
Ancora più incredibile è il De re rustica di Columella, un trattato di agronomia del primo principato (Columella morì nel 70 d.C.) arrivato a noi completo. Si tratta del più importante libro dell’antichità riguardo le scienze agrarie, avendo un approccio che ben può definirsi scientifico, soprattutto se confrontato a qualsiasi altra opera affine dell’epoca. Leggendo il De re rustica non si può non capire quanto fosse importante la vite e la produzione del vino nell’economia delle aziende agricole romane. Ed è proprio attraverso questa lettura che ci si può fare un’idea concreta della grande produzione vinicola romana a partire proprio dalla fine della repubblica e l’inizio del principato. Sia Plinio il Vecchio che Columella offrono un quadro preciso (pur con qualche discrepanza numerica) dei vitigni sviluppati nel corso del tempo dai Romani. La grande varietà di tipologie di arbusto — Plinio ne conteggia un totale superiore ai 160 — si divideva principalmente in vitigni nobili et ignobili, ovverosia in vitigni di grande qualità e vitigni dalla produzione massiccia ma di basso pregio. Le tecniche di coltivazione — che hanno subito una certa evoluzione proprio nel periodo del principato, fino al massiccio incremento produttivo imperiale — erano principalmente due: quella a sostegno vivente, tipica del nord della penisola e quella a sostegno morto, caratteristica della zona campana. Quest’ultima è stata indubbiamente, una volta imposta la vinificazione italica sulle altre nobili concorrenti mediterranee, la regione d’elite nella coltura dei vitigni più importanti e nobili. Tale strapotere qualitativo era già giustificato dagli stessi autori contemporanei (ancora Plinio) che ricordavano come i campani conoscessero da tempo le migliori tecniche di potatura (retaggio della colonizzazione greca), e di conseguenza avessero una maggiore esperienza in materia. Si parlerà più specificatamente dei vini campani nel successivo paragrafo, giova però ricordare, a conclusione di questa piccola disamina, che la zona geografica del sud Italia, grazie alle particolari condizioni climatiche e di converso ai fisiologici limiti tecnici dell’epoca, era oggettivamente predisposta ad una produzione qualitativamente superiore.
Vinearum provincialium plura genera esse comperi. (Columella, De Re Rustica, liber V)
La produzione vinicola della penisola quindi ha conosciuto due macro-fasi: un primo sviluppo, geograficamente variegato e legato a tecniche e volumi di uvaggio familiari; un secondo sviluppo, a partire dalla espansione “internazionale” dell’Urbe, caratterizzata da prodotti di elevata qualità e quantità. Soprattutto dal punto di vista della quantità si nota già a partire dal periodo augusteo un’espansione delle villae rusticae, strutture che in origine si distinguevano solo per la diversa ubicazione (urbana o rurale, con le dovute conseguenze) e che poi — con l’arrivo della massiccia schiavizzazione concomitante alla rapida espansione imperiale — si differenziarono enormemente. La villa rustica imperiale, con un territorio coltivabile di 200 ettari in media, un numero elevato di schiavi organizzati in maniera quasi militare e una precisa sequenza produttiva, è stata da molti studiosi indicata come il punto più alto dell’efficienza agricola e manufatturiera romana, non troppo dissimile, con le dovute differenze, ad un sistema di tipo capitalistico. Non deve stupire perciò che la produzione vinicola italica si impose in maniera così rapida e dirompente in tutto il bacino del mediterraneo, incentivando lo studio e la cultura della viticoltura.
La ricerca dell’eccellenza
Le tecniche di vinificazione moderne, nonché la relativamente recente espansione della cultura del vino in quasi tutti i substrati sociali, potrebbero rendere difficile oggi capire che tipo di bevanda bevessero gli antichi Romani. Da un lato infatti, le limitate capacità conservative, unite ad un prodotto che nella sua versione pura era oggettivamente molto forte, comportavano la dolcificazione dello stesso attraverso la diluizione e la miscelazione con resine, pece e acqua di mare. In particolare, l’aggiunta di acqua nel cratere dove veniva versato il vino era prima di tutto un retaggio culturale risalente al mondo ellenistico, pur se giustificata dal sapore eccessivamente tannico. Con il tempo però tale abitudine divenne anche socialmente richiesta, tanto che il bevitore di vino “puro” era comunemente considerato un ubriacone. A questa prassi lontana dal contemporaneo modo di degustare il “nettare d’uva” si contrappone una cultura enologica complessa e variegata. A Roma si distingueva il vino in dulce, soave, firmum, leno, fugens e via discorrendo. Pur utilizzando grandi anfore in terracotta (al contrario delle botti di legno), alcuni uvaggi venivano scelti e predisposti per l’invecchiamento ed esistevano figure praticamente affini all’odierno sommelier. Tra i grandi esperti era inoltre diffusa una catalogazione della bevanda molto simile al sistema dei crus francesi, ovverosia — con una necessaria semplificazione — la categorizzazione qualitativa di vitigni provenienti da precisi territori geografici (la cui differenza sostanziale con la nostra DOC e IGT risiede nella precipua individuazione del tale vitigno al particolare microterritorio).
In merito è doveroso aprire una piccola parentesi inerente al grand cru più famoso del mondo latino: il celebre Falerno. Si tratta in assoluto del vino maggiormente citato e decantato da gran parte delle fonti romane, assumendo una fama assimilabile a quella di alcune delle grandi etichette di oggi (di talché il prodotto assunse quasi i contorni degli odierni status symbol). Il Falerno, all’epoca come oggi, si produceva lungo le pendici del Massico, in Campania. Il vitigno dell’epoca, almeno per la versione bianca, è stato sostituito nei nostri giorni da un uvaggio 100% falanghina. Rimane il fatto che le particolari condizioni climatiche, la grande cultura viticola della zona campana e la massiccia espansione delle villae rusticae nel Massico portarono allo sviluppo di un vino di eccellenza, a partire dalla coltura dell’uva fino alla sua lavorazione e conservazione.
Edone fa sapere: qui si beve per 1 asse; se ne paghi 2, berrai un vino migliore; con 4, avrai vino Falerno (iscrizione murale, Pompei)
Il vino nella società
Concludendo questa disamina, è necessario fornire un rapido resoconto, più trasversale possibile, del rapporto della società romana con il vino. Si è già accennato al fatto che la Roma monarchica e di inizio Repubblica mal digeriva i costumi oziosi e viziosi — o almeno così definiti — di altre società quali quella greca (anche i Romani peccavano di una certa qual approssimazione nell’additare determinate condotte a nuclei culturali eterogenei come quelli ellenici). Ancora meno tollerato era poi l’uso della bevanda da parte delle donne, la cui sottomissione alle regole ferree del patriarcato era destinata a cambiare solo con la successiva evoluzione cosmopolita del principato e dell’impero. Famoso in tal senso era il cosiddetto ius osculi. Secondo tale istituto — la cui origine per Dionigi di Alicarnasso proviene dal regio divieto di bere vino promulgato da Romolo nei confronti delle donne romane — l’uomo aveva la facoltà di baciare una propria congiunta per acclarare se avesse bevuto o meno. Una risposta affermativa in tal senso permetteva al pater familias di uccidere la donna colpevole, punizione che potrebbe apparire severa ma che è perfettamente in linea con il rigido sistema familiare (quasi una società nella società) dei primi secoli di storia romana. Come sempre, ogni dato va confrontato e contestualizzato: lo ius osculi scompare completamente già a fine Repubblica; di pari passo con l’evoluzione dei costumi si evolve anche il grado di tolleranza dei ceti medio-alti, nei quali la matrona gode di numerose libertà (tra cui va inserito anche l’uso del vino). Se si pensa a come la società odierna ancora reagisca in maniera differente a seconda del sesso di chi abusa di alcolici, non dovrebbe stupire neanche questa discrepanza di atteggiamento in una cultura di duemila anni fa.
Con l’espansione dei confini del principato, si espandono anche gli usi e i costumi (nonché le risorse). Una società ricca è, tendenzialmente, una società dedita anche ai vizi e agli intrattenimenti, e Roma non fece eccezione. La cultura enologica subì notevoli evoluzioni, a partire dalla fine della Repubblica, tanto che le fonti dell’epoca sono piene di consigli riguardanti i prodotti migliori, le più diffuse tecniche di mescita e conservazione, nonché le diverse usanze conviviali. Un indice questo della capillare diffusione della bevanda nelle tavole dei cittadini più abbienti e della sostanziale familiarità che la stessa aveva acquisito all’interno della società. Anche in questo caso, bisogna evitare ricostruzioni storiche drastiche. Quando si legge degli eccessi di Eliogabalo riferiti da Cassio Dione o Erodiano non si deve necessariamente concludere che intorno al III secolo d.C. a Roma non si facesse altro che partecipare ad orgie e bere fiumi di vino. Certo, il periodo aureo imperiale corrisponde al momento di massimo rilassamento dei costumi romani, ma questo non basta a travisare o generalizzare. Inoltre la gran parte dei resoconti inerenti a stravaganze e stravizi sono attribuiti a imperatori, ricchissimi patrizi ed affini: personaggi con grandi disponibilità, abituati al lusso, agli eccessi e certo statisticamente poco rilevanti. A questo si aggiunge anche il pericolo della deformazione storica: Cassio Dione scriveva delle pratiche sessuali di Eliogabalo, ponendolo sotto una luce chiaramente negativa, stando bene attento a non inimicarsi la corte di Alessandro Severo, mal disposta nei confronti del defunto e apparentemente lascivo predecessore. Quel che rileva in questa sede è che, fintanto che il sistema schiavistico resse le grandi richieste produttive, il vino si impose come la bevanda più importante sulle tavole di ogni cittadino romano, in ogni momento conviviale. Da prima del pasto, mescolato puro con il miele, fino alla fine dello stesso: per ogni occasione esistevano differenti versioni e tipologie di mescita.
In concomitanza alle forti pressioni militari subite lungo i confini germanici (in pieno Dominato, a partire dal III sec. d.C.), segnale prodromico della fine dell’espansione territoriale e del conseguente rattrappimento delle masse di schiavi a disposizione, cambia anche la produzione vinicola, che ritorna a forme meno ottimizzate. La villa rustica inizia a ricalcare il modello del latifondo, le richieste di beni di lusso scendono e i commerci si fanno più difficili e meno frequenti. A questo si aggiungono le forti spinte moralizzatrici della tradizione cristiana, che trovava terreno fertile in un periodo di grande insicurezza sociale e politica. Chiaramente la produzione vinicola non si ferma di colpo, così come non si interrompono le oramai consolidate abitudini alimentari, ma certamente si va ad affermare una visione più morigerata della vita e dei costumi. Alla caduta dell’Impero d’Occidente, il lascito di Roma alle generazioni future è comunque enorme: le tecniche di viticoltura rimarranno pressoché inalterate fino al XVIII secolo, assieme a una varietà di vitigni che hanno contribuito a conformare le produzioni di uva fino ai nostri giorni.