A proposito di dottorandi e precari

Alfonso Fuggetta
La bella terra
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4 min readAug 21, 2022

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Vorrei provare a affrontare un tema discusso nei giorni scorsi su Twitter e che, come spesso accade, è sfociato in discussioni interminabili, contrapposizioni spesso strumentali, perdita di tempo. Invito gli interessati a leggere fino in fondo, incluso un commento che mi ha mandato un collega che vive in USA e che ha letto questo post in anteprima.

Il casus belli è stato la qualifica che ha dato di sé un candidato per le elezioni (non lo cito perché per il resto del discorso chi sia è irrilevante). La persona si è qualificata come “dottorando precario”.

Leggendo il tweet mi è venuto spontaneo chiedere “ma che vuol dire dottorando precario?” e l’ho twittato. Da questa mia domanda, che credevo dovesse avere una risposta ovvia (“non vuol dire niente”), è partito il confronto di cui dicevo.

Per alcuni, i dottorandi sono lavoratori con poche tutele e che non sanno quale sarà il loro futuro è quindi devono essere qualificati come precari. È una descrizione della situazione che ha le sue motivazioni, ma che secondo me è fallace.

Un dottorando di ricerca è innanzi tutto e strutturalmente una persona che si iscrive ad un corso per ottenere un titolo di studio (dottore di ricerca). È prima di tutto e innanzi tutto uno studente.

Per svolgere questa attività di studio e formazione, al dottorando viene chiesto di studiare, seguire corsi, fare lavoro di ricerca e sperimentazione, produrre articoli e al termine del percorso scrivere una tesi che viene presentata all’esame finale. Spesso, in aggiunta a questi compiti, al dottorando vengono assegnati compiti didattici che sono o dovrebbero essere compensati a parte.

L’uso del termine “precario” ha in questo contesto due valenze:

  1. L’attività del dottorando è impegnativa, essenziale per il funzionamento dei centri di ricerca e delle università e non è tutelata e compensata come dovrebbe.
  2. L’attività del dottorando è a termine e non esiste alcuna certezza sul suo futuro, una volta finito il corso.

Dico subito che condivido in pieno il bisogno di agire sul primo punto (le tutele). Nulla quaestio. È giusto che persone di questo profilo siano tutelate e remunerate in modo coerente con le attività che svolgono. Ma è questo che definisce la “precarietà” della condizione? Se usiamo il termine in modo generico ed emotivo, ancora una volta posso capirlo. Ma qui, non nascondiamoci, il termine precario è associato al secondo punto che citavo in precedenza.

Per definizione, qualunque corso ha un termine. Può essere un esito positivo (conseguo il titolo) o negativo (abbandono). Ma è impossibile o demenziale immaginare che uno resti studente di un certo corso a vita. Chi si iscrive ad un corso sa che esistono questi due esiti possibili e si impegnerà per ottenere il primo, ovviamente. In ogni caso, non esiste lo studente di dottorato (e un qualunque studente in generale) che rimane studente a vita. Non esiste lo studente di un corso a tempo indeterminato.

Il termine precario usato in questo contesto è quindi misleading e senza senso.

In realtà, chi dice che è precario si riferisce al fatto che non ci sono certezze al termine del corso di studi su quel che succede dopo. Ma quale corso di studi offre certezze su quel che succederà dopo? Nessuno, in nessuna parte del mondo. Per definizione ogni studente da questo punto di vista è “precario”, ma è ovvio e non ha alcun senso che non lo sia. Quindi l’uso della parola è, per l’appunto, strumentale.

Dire che bisogna aumentare le tutele (giustissimo!) non rende il lavoro meno “precario”. L’unico modo per farlo sarebbe dare garanzie su quel che succede dopo. Alcuni in effetti ritengono che il dottorato sia il primo passaggio della carriera accademica e che il conseguimento del titolo di dottore debba automaticamente garantire l’ottenimento di una posizione stabile. A mio giudizio è una richiesta insensata che, per quel che ho visto in questi anni, nessun paese ha mai applicato.

Per cui, polemiche e argomentazioni strumentali a parte, è vitale investire in ricerca e formazione, è vitale aumentare le tutele e i compensi dei dottorandi, è vitale far sì che alla fine del percorso di dottorato ci siano tante possibilità nelle industrie e in università per valorizzare questi talenti. Chiamarli “precari” e evocare di conseguenza una qualche forma di stabilizzazione automatica non ha alcun senso ed è sbagliato.

Ho fatto leggere questo post ad un collega che lavora in USA e mi ha mandato un commento che credo sia utile. Lo riporto qui di seguito.

Sono molto d’accordo. Credo che in molti che ti hanno risposto si riferissero al punto #1, ma come scrivi è un uso improprio del termine. Che il dottorato in Italia (ma anche altrove, non siamo sempre e comunque la repubblica delle banane) sia poco finanziato, non prepari a un mercato internazionale e invece prepari soprattutto a un mercato del lavoro domestico che ha dinamiche spesso non trasparenti e concorrenziali sono tutte considerazioni valide e dovrebbero essere affrontate. Ma anche secondo me c’entrano poco con la precarietà del lavoro.

Quello che forse manca nel tuo discorso è un concetto di rischio/rendimento. Se intraprendi un dottorato è perché ambisci a una carriera che, in media, è migliore di altre, sia economicamente che come status. E ovviamente corri dei rischi. La probabilità di farcela è minore di quella di diventare impiegato in banca. Ma se ce la fai hai poi un sacco di tutele, altro che precariato. Ed è ovvio che ci siano “incertezze” e precarietà all’inizio. È così ovunque. La tenure c’è quasi ovunque. Si tratta secondo me di non cadere nella deriva US in cui la tenure (di nuovo, solo nel settore che conosco) è diventata un incubo che veramente distrugge tranquillità e vita di chi è nel fiore degli anni. Ma si può trovare un equilibrio con regole e aspettative.

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Alfonso Fuggetta
La bella terra

Insegno Informatica al Politecnico di Milano e lavoro al Cefriel. Condivido su queste pagine idee e opinioni personali.