Il senso perduto della comunità

Alfonso Fuggetta
La bella terra
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9 min readJun 2, 2015

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È il 2 Giugno, Festa della Repubblica, del nostro Paese, della nostra “casa” potremmo dire. Che festa è? Come la stiamo vivendo? La sensazione che provo io è un misto di incertezza, insoddisfazione, paura, aspettativa per il futuro, rabbia per le cose che non funzionano. Potrei andare avanti, ma credo che ciascuno di noi potrebbe aggiungere in positivo o in negativo un aggettivo in grado di cogliere al meglio il proprio stato d’animo.

Il tempo della contraddizione

Al di là di sfumature e visioni differenti del mondo, credo si possa dire senza essere smentiti che non stiamo vivendo un’epoca entusiasmante. Ci sono tante tensioni nella nostra società. A livello internazionale, siamo testimoni di profondi scontri etnici e religiosi. Viviamo una crescente concentrazione della ricchezza. In generale, il benessere non ha (ancora) raggiunto tutti e certamente non nello stessa misura. Venendo poi al nostro mondo occidentale e al nostro paese, troppe volte non siamo il luogo e la società delle opportunità, della giustizia, della solidarietà, ma ahimè delle rendite, dei monopoli e dei privilegi, delle discriminazioni, della conservazione dello status quo. Potrei andare avanti ricordando le notizie che ogni giorno leggiamo sui nostri giornali.

D’altro canto, a questi elementi negativi se ne sovrappongono altri positivi. Diverse statistiche ci dicono che mai nella storia dell’umanità (e del nostro paese) abbiamo vissuto un periodo così sostanzialmente pacifico e prosperoso. Nonostante la crisi che da anni ci affligge, gli stili di vita sono decisamente migliorati rispetto a solo pochi decenni fa. Nel mondo, non ci sono conflitti globali, quanto meno nel senso classico del termine. In generale, un passo alla volta, con fatica, anche i paesi in via di sviluppo stanno crescendo e stanno migliorando le loro condizioni di vita. Nella contraddizione di tanti segnali di segno opposto c’è un tentativo e un percorso di crescita che sembrano un po’ alla volta affermarsi.

Dovremmo celebrare quello che abbiamo ottenuto nel corso dell’ultimo secolo e invece stiamo cadendo in una spirale di precarietà e pessimismo.

Come spiegare tutto ciò? Come riconciliare il progresso che indubbiamente c’è stato con lo stato di incertezza, provvisorietà, tensione e insoddisfazione che sembra non lasciarci mai, nelle piccole come nelle grandi cose?

Non sono un sociologo né uno storico e nemmeno un politico. Però cerco di osservare, leggere, capire, ascoltare, farmi un’idea, discuterne. Ho una mia visione delle cose, giusta o sbagliata o parziale che sia e vorrei proporvela, sperando possa essere utile al ragionamento che dovremmo “tutti insieme” cercare di sviluppare. In realtà, è proprio in quel “tutti insieme” che si colloca lo snodo del mio ragionamento. È il “tutti insieme” che rimanda ad un concetto antico, profondo, bellissimo: comunità.

Credo che i problemi e le incertezze che viviamo siano spesso legate proprio all’indebolimento e in alcuni casi alla scomparsa del concetto di comunità, intesa nel senso più pieno e “laico” del termine.

Cos’è una comunità?

Da ragazzo frequentavo come tanti l’oratorio e più in generale la parrocchia. Dopo la famiglia, sono stati il principale luogo della mia educazione. La parrocchia era ed è una comunità, un luogo dove un insieme di persone condivide una storia e una esperienza di vita, sulla base di un comune sentire, di una profonda e sincera adesione ad alcuni ideali e convinzioni di fondo. In parrocchia, ciascuno sviluppa i propri talenti e le proprie inclinazioni, nel rispetto delle inclinazioni e dei talenti degli altri membri della comunità, sostenendosi e aiutandosi a vicenda.

L’anima dell’oratorio era il nostro Parroco che incarnava in sé questi ideali e principi. Lui era il primo testimone di tutto ciò che definiva il nostro stare insieme. Non l’avevamo scelto noi, ma lo rispettavamo non solo e non tanto perché ci era stato imposto: era una persona autorevole che per primo viveva e testimoniava i valori e il credo che ci animavano e tenevano insieme.

Gli snodi che “tengono insieme” una comunità sono molto semplici e li ho ritrovati, seppur in forme e declinazioni ovviamente diverse, anche in tante esperienze “laiche” o lavorative. Internet e GSM sono esempi di comunità che si basano su uno schema simile a quello dell’oratorio (non sorridete!):

  • Ci sono una serie di regole, principi, standard condivisi che definiscono il quadro d’assieme (gli standard della Internet Engineering Task Force, del W3C o della GSM Coalition).
  • All’interno di questo quadro, chiunque può sviluppare idee e soluzioni in autonomia e con creatività (i propri “talenti”, fuor di metafora, le proprie app).

È il concetto di coopetition che sta alla base di tanti progetti nati oggi sulla rete: perché si possa creare valore in autonomia e anche in competizione, bisogna necessariamente condividere alcuni principi di fondo. Come potrebbe esistere Internet se tutti noi non riconoscessimo e adottassimo standard come IP, SMTP, HTTP?

Il concetto di comunità permea tanti diversi aspetti della nostra vita. Per esempio, un’università è essa stessa per l’appunto una “comunità scientifica e educativa”, caratterizzata da questa stessa coppia di termini:

  • le regole e i principi che definiscono missione e funzionamento della comunità;
  • l’autonomia che contraddistingue l’operato del singolo ricercatore all’interno del quadro di regole condivise.

Lo stesso paradigma si applica in modo ancora più alto e nobile alla politica e alla nostra festa del 2 Giugno. Cos’altro è la nostra Costituzione se non un insieme di regole condivise all’interno delle quali ciascuno si può realizzare in modo libero e creativo? Lo spirito costituente non è forse quel modo di essere che guarda al di là della propria “parte” (cioè del proprio partito) per costruire un ambito “comune” di convivenza civile?

Comunque lo si voglia chiamare, abbiamo bisogno di riscoprire e rivalutare lo spirito della comunità, dell’equilibrio alto e lungimirante tra condivisione di principi comuni e autonomia creativa dei singoli.

È proprio l’indebolimento dello spirito di comunità, nei diversi ambiti nei quali viviamo e operiamo, che ci sta minando e indebolendo, rendendoci soli, in conflitto latente e continuo con chi ci circonda, in una continua “ansia da prestazione” che ci sfianca e che rende tanti nostri sforzi vani e fin patetici. È la mancanza di comunità che rende difficile andare oltre il nostro singolo vissuto, ostacola la costruzione di un significato più ampio e condiviso, rende impossibile cogliere il senso della prospettiva e dello sviluppo complessivo della nostra società.

Troppo spesso siamo solo delle monadi che sgomitano in cerca di un attimo di gloria e visibilità.

Come muore una comunità?

Molti potrebbero obiettare che quel che affermo essere la base di una comunità è in realtà già presente nei diversi contesti che citavo. Prendiamo il mondo dell’università per esempio: non esistono forse regole e principi condivisi che definiscono lo spazio di autonomia e di movimento dei singoli? Perché quindi si perde il senso della comunità o, quanto meno, lo si sente troppe volte affievolito e svilito? Perché viviamo continue tensioni e contrapposizioni, e un senso di incertezza e insoddisfazione per quel che facciamo o non facciamo? Nello specifico, è solo un problema di taglio di risorse o di incertezza nelle progressioni di carriera? O questi sono solo problemi che si sommano ad un malessere più profondo e nascosto?

In realtà, il senso della comunità (nel mondo universitario come in tanti altri ambiti sociali) è sempre più indebolito non solo e non tanto perché si negano “formalmente” certi principi e ideali, ma perché li si svilisce e contraddice nella prassi e nella vita quotidiana.

Spesso, superficialmente, si pensa che “il senso di comunità” sia violato quando si ingenerano contrapposizioni o dibattiti accesi, quando si deroga dall’etichetta e dalle “buone maniere”, quando emergono tensioni e differenze di opinioni nella caratterizzazione di ciò che dovrebbe essere il “comune sentire”. Io credo sia una analisi sbagliata o quanto meno insufficiente. Certamente, una comunità deve fondarsi sulla capacità di comunicare e interagire in modo aperto e rispettoso delle persone. Ma una comunità è anche il luogo delle passioni e talvolta delle contrapposizioni.

Il senso di comunità emerge o si spegne in funzione di come queste tensioni e passioni vengono vissute.

  • Una comunità si spegne quando le regole sono interpretate e vissute in modo ipocrita e intellettualmente disonesto, cioè quando esse vengono applicate in certi casi e interpretate in altri, tipicamente in funzione della persona coinvolta; oppure quando vengono cambiate e adattate in funzione del risultato che una parte vuole ottenere.
  • Una comunità si spegne quando si preferisce la mistificazione e la finta cordialità dei rapporti ad una sincera e ricca dialettica che affronti i nodi critici senza timore, sapendosi mettere in gioco e con il coraggio di cambiare ciò che va cambiato, nel pieno rispetto delle persone, ma senza alcuna paura di denunciare i problemi che la comunità vive e sperimenta.
  • Una comunità si spegne quando si preferisce una “bella vita” senza contrasti ad una “vita bella” che persegua con determinazione e anche sacrificio gli ideali e gli obiettivi che sono alla base di quella comunità. In altri termini, la comunità muore quando manca la “ricerca del bene comune” di cui, nei fatti, troppo spesso ci dimentichiamo.
  • Una comunità si spegne quanto l’ansia di affermazione di sé prevarica e compenetra ogni momento nella vita della comunità stessa, quando ogni episodio viene interpretato e vissuto come un irrinunciabile passaggio nello sviluppo della reputazione e visibilità del singolo.
  • Una comunità si spegne quando è vittima di perbenismo e conformismo che uccidono la voglia di crescere, di confrontarsi e di migliorarsi.
  • Una comunità si spegne quando prevalgono l’illusione della correttezza e l’eleganza della forma rispetto alla verità e asprezza della sostanza.
  • Una comunità muore quando i singoli usano la propria posizione come trampolino di lancio per il passaggio di carriera successivo, ignorando o mettendo in secondo piano le responsabilità e i doveri associati al ruolo che ricoprono al momento.
  • Una comunità si spegne nella contrapposizione sorda e sterile, nella volgarizzazione del confronto o, all’altro estremo, nel silenzio e nella mancanza di dibattito e interlocuzione che svilisce e mortifica chi la pensa diversamente, o nella mancanza di rispetto e attenzione sostanziale, e non solo formale, per chi si ha di fronte.
  • Una comunità muore quando si gioca sempre al ribasso, cercando di accontentare tutti senza disturbare nessuno, incapaci di trovare sintesi condivise alte, difficili, ambiziose, ma realmente utili alla comunità nel suo complesso.
  • Una comunità si spegne quando diviene vittima di una retorica vuota e fine a stessa che ignora e non coglie i problemi, le difficoltà, le ansie e le paure che la attraversano.
  • Una comunità muore quando i singoli non riconoscono i talenti, le competenze, la professionalità delle altre persone.
  • Una comunità muore quando si spacciano legittimi interessi personali come interessi collettivi, senza saper distinguere e gestire con trasparenza gli uni e gli altri.
  • Una comunità muore quando si scambia solidarietà con assistenzialismo e negazione del merito, oppure, all’opposto, quando si chiudono gli occhi di fronte a chi soffre e ha bisogno di aiuto.
  • Una comunità muore quando si chiude su se stessa, incapace di confrontarsi con il mondo, la Storia, ciò che la circonda.
  • Una comunità muore quando le persone non sanno dire “ho sbagliato” e muore nella sicumera che ignora o nasconde sotto il tappeto i problemi. Solo i forti sanno dire “ho sbagliato”, i deboli non sbagliano e non si scusano mai. E solo i forti rendono a loro volta forte una comunità.

Come recuperare il senso della comunità?

Non ho certo la presunzione di dare lezioni su come ricostruire un senso di comunità che mi pare sempre più indebolito. Posso provare a esprimere qualche pensiero e convinzione che ho maturato nel corso del tempo.

  • Serve una sincerità appassionata, rispettosa delle persone, ma intellettualmente intransigente.
  • Serve un impegno trasparente e convinto per il “bene comune” che dia credibilità e autorevolezza a chi ricopre responsabilità all’interno di una comunità.
  • Serve onestà intellettuale in ogni ambito della nostra attività, sempre, incessantemente, continuamente.
  • Serve una reale senso del servizio che ridia significato e credibilità a espressioni come “servitore dello stato” o “civil servant”.
  • Serve saper ascoltare, sul serio e non come finzione o uso strumentale delle persone.
  • Serve avere il senso del limite.
  • Serve avere la consapevolezza e il rispetto dei propri doveri e non solo la rivendicazione dei propri diritti.
  • Serve vivere una responsabilità con autorevolezza, passione e decisione, ma mai con distacco o senso di rivalsa e giammai come strumento per l’affermazione di sé.

Non basta aspettare Godot

Una comunità non nasce solo perché c’è una guida illuminata che la crea e la anima. Forse ciò è stato possibile per grandi figure del passato come Gesù o Gandhi o Franklin Delano Roosevelt. Ma in generale, non basta un presidente del consiglio (o un rettore, per tornare al caso dell’università) per creare una comunità. Il parroco del mio oratorio era un esempio e un pastore straordinario, ma da solo non sarebbe andato da nessuna parte se la comunità non si fosse riconosciuta e riflessa in lui. In generale, i leader di una comunità li scegliamo o riconosciamo noi, sono la nostra immagine, la sintesi del nostro sentire. Non esiste un governante o rappresentate migliore del suo popolo.

Non basta auspicare l’arrivo del salvatore o di un Godot redentore. I leader che abbiamo bene o male riflettono ciò che siamo. È da noi per primi che deve partire il cambiamento, dai nostri singoli comportamenti, dalle nostre scelte individuali, dai nostri atteggiamenti, da ciò che facciamo e da ciò che non facciamo. Altrimenti è un’altra finzione o illusione.

Diceva un “piccolo” uomo morto per mano di un’estremista indù 70 anni fa:

Sono le azioni che contano. I nostri pensieri, per quanto buoni possano essere, sono perle false fintanto che non vengono trasformati in azioni. Sii il cambiamento che vuoi vedere nel mondo.

O come dice Paulo Coelho:

Originally published at www.alfonsofuggetta.org on June 2, 2015.

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Alfonso Fuggetta
La bella terra

Insegno Informatica al Politecnico di Milano. Condivido su queste pagine idee e opinioni personali.