L’insostenibile iattura del procurement al massimo ribasso
Storie di ordinaria “follia” quotidianamente vissute da chi lavora nel mondo dell’ICT:
Criterio di aggiudicazione dell’appalto: prezzo più basso.
Oppure:
Aggiudicazione effettuata considerando per il 50% il prezzo e per il 50% la qualità della fornitura.
O anche:
Tariffe a base d’asta inferiori agli stipendi medi degli addetti del settore e persino comparabili, se non inferiori, ai minimi contrattuali.
Sono fatti che accadono sistematicamente nel corso delle procedure di acquisto delle amministrazioni pubbliche e anche di tante aziende private: si acquisiscono servizi ICT (sviluppo, consulenza, …) basando la scelta sostanzialmente sul costo, o perché lo si richiede esplicitamente (primo e terzo caso) oppure perchè il peso attribuito al costo è così rilevante da condizionare in modo determinante la scelta (secondo caso).
C’è una sola espressione che possiamo utilizzare per qualificare questa situazione: insostenibile iattura.
Provo a spiegare perché credo sia così.
ICT non è commodity
I servizi ICT non sono prodotti indifferenziati o, come si suol dire, delle commodity: la qualità delle persone e dei processi nei quali esse operano determina in modo decisivo e sostanziale l’esito di un processo di sviluppo di prodotti e servizi ICT. Non è un caso che spesso — quasi sempre — progetti che vengono avviati sulla base di gare al massimo ribasso si risolvono in forniture di bassa qualità o progetti che rimangono bloccati a metà per mancanza di risorse e per sottostima dei costi reali.
Comprare al massimo ribasso è demenziale perché ci si illude di spendere meno al momento della stipula del contratto mentre, in realtà, o si finisce per spendere complessivamente di più oppure si sprecano soldi senza ottenere i risultati voluti.
In generale, questo approccio non permette di rispondere in modo adeguato ai requisiti che caratterizzano una moderna, lungimirante, non episodica né estemporanea strategia di sviluppo IT.
L’impatto sui giovani
Comprare servizi human-capital-intensive basandosi sostanzialmente o unicamente sul prezzo obbliga nei fatti chi offre tali servizi a comprimere i propri costi e, in particolare, i salari delle persone. Il primo effetto di queste policy lo si vive e vede sui giovani, spesso sottopagati o precarizzati. Non è quindi un caso che molti giovani nel nostro settore si spostino all’estero dove tariffe e salari non hanno le nostre dinamiche e tendenze: basta andare a Lugano e poco oltre il confine svizzero per accorgersene. Ancor prima, tanti giovani non sono attratti dagli studi ICT in quanto si è ormai assunto che non valga la pena studiare questi temi, visto lo scarso ritorno che si ottiene dal punto di vista economico.
È una spirale perversa che sta allontanando i giovani da questi temi. E tutto ciò accade proprio nel momento in cui avremmo bisogno di molti più professionisti che apportino solide competenze ICT nelle nostre imprese e amministrazioni pubbliche.
La svalutazione delle competenze
Assimilare i servizi ICT a commodity induce un effetto complessivo ancora più negativo: stiamo in generale svalutando queste competenze e estraniando le relative professionalità dai principali processi decisionali di imprese e amministrazioni. Ci si illude che quel che serve in termini di ICT “lo si possa comprare facilmente” e a basso costo, magari evocando gli stereotipi dell’offshoring (che grazie al cielo stanno progressivamente sgonfiandosi, anche se ancora troppo lentamente, ahimè). E l’effetto non è solo sui singoli in quanto si ribalta anche sulle imprese: se penalizziamo professionalità di qualità inevitabilmente depauperiamo e indeboliamo le imprese del settore.
È un danno senza fine: stiamo tragicamente e sciaguratamente dissipando competenze progettuali e manageriali vitali per lo sviluppo del nostro Paese.
Il malaffare
Il nostro paese è piagato dal malaffare e alcuni si illudono che ridurre i margini di discrezionalità nei processi di acquisto sia un modo per evitare gli “spazi di libertà” di chi compra e quindi la possibilità che venga “influenzato” nelle sue decisioni.
Nulla di più falso e illusorio!
In primo luogo, la deresponsabilizzazione di chi non sa comprare e gestire la complessità non può che condurre a risultati disastrosi. In secondo luogo, la pressione innaturale e distorsiva su tariffe e costi non può che generare meccanismi spesso fraudolenti o al limite del legale per comprimere o “taroccare” rendicontazioni e costi, a scapito della qualità dei risultati e spesso dei diritti sindacali delle persone.
Deresponsabilizzare le persone, ignorare la complessità, evitare le valutazioni qualitative non risolve in alcun modo il problema e, anzi, non fa che peggiorarlo in una spirale al ribasso senza fine.
Trovo sempre più insopportabili le lamentele di quelli che stigmatizzano le attese tradite dall’ICT e, allo stesso tempo, spremono i propri fornitori arrivando ad avere tariffe insostenibili e fuori mercato. Si tratta di un fenomeno sostanzialmente italiano che non trova riscontro, quanto meno in questa forma e misura, negli altri paesi occidentali (e non solo): è sufficiente provare ad acquisire commesse in USA o UK per rendersene conto.
È assolutamente vitale sviluppare una seria riflessione e avviare un deciso cambio di rotta da parte di amministrazioni pubbliche, degli uffici acquisti delle imprese private e, in generale, dei manager e politici che definiscono le politiche di acquisto e procurement (in primo luogo, il codice degli appalti).
Senza questo deciso cambio di direzione, continueremo ad avere un declino nella qualità dell’offerta di servizi ICT, penalizzeremo i nostro giovani e sperimenteremo risultati inferiori a quelle che sono le legittime aspettative e ineludibili esigenze del nostro Paese.
Pubblicato il 5 Ottobre 2015 su TechEconomy.it.