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Sulla scienza, l’educazione, la scuola e il sapere

Alfonso Fuggetta
La bella terra
Published in
24 min readMay 10, 2015

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Dopo molti anni ho riletto “Il Giuoco delle Perle di Vetro” di Hermann Hesse. È un libro complesso, summa e conclusione del lavoro dello scrittore, pubblicato molti anni dopo il precedente romanzo “Narciso e Boccadoro”. È un libro profondissimo che rappresenta, con pochi altri quali la “Montagna Incantata” di Thomas Mann, una delle massime espressioni del romanzo di formazione tedesco.

Molto sinteticamente, è la storia di Josef Knecht, Magister Ludi del Giuoco delle Perle di Vetro, un incrocio tra scienza, arte, musica e filosofia. Hesse, tramite Knecht lo definisce così: “Il nostro Giuoco delle perle di vetro assomma in sé i tre princìpi: scienza, venerazione del bello e meditazione”. Si tratta di un racconto fantastico ambientato in una società di un tempo indefinito dopo la Prima Grande Guerra mondiale, società nella quale dopo un periodo di grave decadenza (“l’era della terza pagina” che ho citato tempo fa su questo blog), si costituì Castalia, uno “stato nello stato”, autonomo e perfetto, nel quale si studiavano scienze, arti, filosofia e, soprattutto, il Giuoco delle Perle di Vetro. Come riassume Wikipedia, “Castalia viene rappresentata come un comunità eterea, utopistica, dedicata alla pura ricerca della conoscenza intellettuale”.

In questa società ideale di studiosi e ricercatori, Knecht raggiunge il massimo rango, il Magister Ludi (“Maestro del giuoco”), e ne interpreta al meglio tutta l’essenza. Ma nella sua vita ha modo anche di vivere e capire il mondo, la storia, le vicende degli uomini comuni. E così si rende conto che quella entità perfetta, Castalia, è fragile e destinata essa stessa a scomparire. Decide pertanto di lasciare Castalia, rinunciare al suo rango e tornare nel mondo per fare “il maestro di scuola” (“ludi” ha un doppio significato, per l’appunto), morendo tragicamente proprio quando sta per iniziare a fare da istitutore al figlio di un vecchio amico di gioventù.

Prima di lasciare Castalia, Knecht invia un lungo memoriale al consiglio pedagogico dell’Ordine del Giuoco delle Perle di Vetro per spiegare il significato e i motivi della sua scelta. È uno scritto che sintetizza il senso complessivo del romanzo. Lo riporto integralmente qui di seguito. È una lettura un po’ lunga, ma credo sia un testo di una straordinaria modernità, che invita alla riflessione sul significato della scienza, dell’educazione, dell’essere maestri e docenti. È una sfida a chi vede e vive il mondo accademico come una elite aristocratica e chiusa su se stessa. È un invito profondissimo a riscoprire il senso e la natura del processo educativo e del ruolo di maestro. È la sintesi dell’analisi di Hesse sul rapporto “tra Spirito e Vita, tra teoria e pratica, tra riflessione ed emozione”.

In sintesi, è un libro che mi sfida e ci sfida, proponendoci riflessioni profonde e laceranti. Penso che la lettura anche solo di questo passaggio sia un arricchimento unico, e un invito profondo a ripensare quello che siamo e ciò che facciamo.

Nota: ho messo in grassetto alcuni passaggi che ritengo particolarmente importanti.

Dallo scritto del Magister Ludi all’Autorità Pedagogica

La Castalia, come istituzione, il nostro Ordine, il nostro lavoro scientifico e scolastico, compreso il Giuoco delle perle e tutto il resto, sembrano alla maggior parte di noi confratelli cose ovvie e naturali come agli uomini tutti l’aria che respirano e il terreno sul quale camminano. Forse nessuno pensa che quell’aria e quel terreno potrebbero anche non esserci, che un giorno l’aria potrebbe mancare, il terreno sparire di sotto ai piedi. Abbiamo la fortuna di vivere tranquilli in un mondo piccolo, pulito e sereno e la maggior parte di noi, per strano che possa sembrare, vive nella finzione che tale mondo esista ab aeterno e noi siamo nati in esso.

Anch’io ho vissuto i miei giovani anni in questa piacevolissima illusione, mentre la realtà mi doveva pure esser nota, che cioè non ero nato in Castalia, ma vi ero stato mandato dalle Autorità e che la Castalia, l’Ordine, le scuole, gli archivi e il Giuoco delle perle di vetro non sono sempre esistiti né sono opera della natura, bensì una tarda e nobile creazione dell’umana volontà, transitoria come tutte le cose create. Tutte queste cose le sapevo ma per me non erano reali, non ci pensavo, evitavo di guardarle e mi consta che più di tre quarti di noi vivono e moriranno in questa curiosa e gioconda illusione.

Ma come vi sono stati secoli e millenni senza l’Ordine e senza la Castalia, così sarà di nuovo in avvenire. E se oggi ricordo ai miei colleghi questa verità evidente, se li invito a volgere lo sguardo ai pericoli che ci minacciano, se dunque assumo per un momento la parte piuttosto invisa e grottesca del profeta e del predicatore, sono pronto a sostenere le eventuali beffe ma confido che la maggioranza di voi leggerà questo scritto sino in fondo e che parecchi mi daranno persino ragione in taluni punti. Sarebbe già un buon risultato.

Un’istituzione come la nostra Castalia, staterello dello spirito, è esposta a pericoli interni ed esterni. I pericoli interni, o almeno alcuni di essi, ci sono ben noti, li osserviamo e li combattiamo. Con frequenza si rimandano singoli allievi dalle scuole scelte perché si scoprono in loro istinti e qualità inestirpabili che li rendono inadatti e pericolosi per la nostra comunità. La maggior parte non sono tuttavia, speriamo, uomini di minor valore, ma soltanto inetti alla vita castalia e, ritornati nel mondo, possono trovare condizioni di vita più conformi a loro e diventare brave persone. In questo punto la nostra prassi ha dato buona prova e in complesso possiamo dire che la comunità tiene alla sua dignitosa disciplina e assolve il compito di rappresentare e allevare un ceto superiore, una nobiltà dello spirito. Presumibilmente non abbiamo tra noi persone indegne e tiepide più di quanto sia naturale e tollerabile. Un po’ meno scusabili sono la presunzione e la boria degli appartenenti all’Ordine, fuorviati da quella nobiltà e dalla situazione privilegiata, presunzione che del resto, a ragione o a torto, si suol rinfacciare a qualunque nobiltà. Nella storia di ogni aggruppamento sociale si punta sempre sulla formazione di una nobiltà che ne è il culmine e il coronamento e, a quanto pare, lo scopo vero e proprio, anche se non sempre confessato; l’ideale di ogni tentativo di formare una società è una qualche forma di aristocrazia, di dominio dei migliori. Il potere, sia esso monarchico o anonimo, è sempre stato pronto a concedere protezioni e privilegi a una nobiltà nascente, fosse politica o di altro genere, della nascita o della selezione e dell’educazione. La nobiltà favorita si è sempre rinforzata sotto il sole, ma il posto al sole e la condizione di privilegio la portarono sempre, dopo un certo livello, alla tentazione e alla corruzione.

Se ora consideriamo il nostro Ordine come nobiltà e cerchiamo di stabilire fino a qual punto il nostro contegno verso il resto del popolo e del mondo giustifichi la nostra posizione particolare, fino a qual punto il morbo caratteristico della nobilta, la hybris, l’albagia, la boria, la saccenteria, il parassitismo ingrato ci abbiano già colpiti e ci governino, tutto ciò ci farà riflettere. Può darsi che l’odierno castalio manchi di obbedienza alle leggi dell’Ordine, di laboriosità, di spiritualità coltivata: ma non gli manca spesso anche la comprensione del suo posto nel popolo, nel mondo, nella storia universale? Possiede forse la coscienza dei fondamenti della sua vita, sa di essere foglia, fiore, ramo o radice di un organismo vivente? Ha idea dei sacrifici che il popolo fa per lui nutrendolo, vestendolo, offrendogli la possibilità di istruirsi e di dedicarsi ai suoi vari studi? E si preoccupa forse di capire il significato di questa nostra esistenza eccezionale? Possiede un vero concetto dei fini dell’Ordine e della nostra vita? Pur ammettendo le eccezioni, molte e lodevoli eccezioni, per parte mia a tutte queste domande risponderei di no. Il castalio medio considera l’uomo di mondo, il non erudito, magari senza disprezzo, senza invidia, senza astio, ma non lo considera come fratello, non vede in lui chi lo mantiene né si sente minimamente corresponsabile di ciò che accade fuori della Provincia. Scopo della vita gli sembra il culto delle scienze per sé stesso, o magari il piacere di passeggiare nel giardino d’una cultura che volentieri si atteggia a universale senza esserlo del tutto. Insomma questa cultura castalia, cultura alta e nobile certamente, alla quale sono profondamente grato, non è, nella maggior parte di coloro che la possiedono e rappresentano, un organo, uno strumento, non è attiva e rivolta coscientemente a mete più grandi, ma tende piuttosto al godimento di sé, all’incensamento, alla formazione di specialità spirituali.

So che esiste un gran numero di castalii integri e preziosissimi che in verità non vogliono altro che servire: sono gli insegnanti allevati da noi, specie quelli che fuori, in campagna, lontano dal clima ameno e dalle raffinatezze spirituali della nostra Provincia, svolgono nelle scuole un servizio pieno di abnegazione, d’importanza inestimabile. A rigore quei bravi insegnanti sono gli unici di noi che adempiano realmente il fine della Castalia e col cui lavoro noi contraccambiamo al paese e al popolo i loro grandi benefici. Il nostro compito più alto e più sacro consiste nel conservare al paese e al mondo il fondamento spirituale che ha dato buona prova anche come elemento morale di estrema efficacia: il senso della verità, sul quale si fonda tra l’altro anche il diritto; queste cose le sa benissimo ognuno di noi confratelli, ma a un esame di coscienza dovremmo per la maggior parte confessare che il bene del mondo, la conservazione dell’onestà e purità spirituale anche fuori della nostra Provincia così bella e pulita, non è per noi la cosa più importante, anzi non conta affatto, e che ben volentieri lasciamo a quei valorosi insegnanti là fuori il compito di espiare con la loro opera appassionata la nostra colpa verso il mondo e di giustificare in qualche maniera a noi, giocatori di perle, astronomi, musicisti e matematici, il godimento dei nostri privilegi. Col già citato superbioso spirito di casta va unito il fatto che non ci importa proprio molto di meritarci mediante prestazioni i privilegi dei quali godiamo, che anzi non pochi di noi si vantano della prescritta astinenza materiale come fosse una virtù e venisse osservata puramente per sé stessa, mentre è il minimo che si possa fare per compensare il paese che rende possibile la nostra esistenza castalia.

Mi limito ad accennare a questi guai e pericoli interni che non vanno trascurati, sebbene in tempi tranquilli sarebbero ben lungi dal compromettere la nostra esistenza. Sennonché noi castalii non siamo dipendenti soltanto dalla nostra morale e dalla nostra ragione ma anche essenzialmente dalle condizioni del paese e dalla volontà popolare. Noi mangiamo il nostro pane, ci serviamo delle nostre biblioteche, ampliamo scuole e archivi, ma se il popolo non avrà più voglia di offrirci queste possibilità, o se, in seguito a carestie, guerre, eccetera, ne sarà incapace, in quello stesso momento la nostra vita e i nostri studi saranno giunti al termine. Un giorno il nostro paese non potrà più mantenere la Castalia e la sua cultura, vedrà in noi un lusso che non potrà più permettersi, anzi, invece di essere orgoglioso di noi come finora, ci considererà parassiti nocivi e addirittura nemici e falsi profeti: ecco i pericoli che ci minacciano dal difuori.

Se volessi tentare di esporre questi pericoli a un castalio di media levatura, dovrei farlo anzitutto con esempi presi dalla storia, e incontrerei una certa resistenza passiva, un’ignoranza e freddezza che si potrebbero definire quasi puerili. Tra noi castalii l’interessamento alla storia universale, voi lo sapete, è estremamente fiacco, anzi ai più manca non solo l’interessamento, ma quasi direi la giustizia verso la storia, il rispetto per essa. Questa avversione mista di superbia e di indifferenza a occuparci della storia universale mi ha spinto più volte a fare indagini per scoprirne le cause. Credo di averle individuate: in primo luogo il contenuto della storia — non parlo beninteso di quella spirituale e culturale che tra noi è molto coltivata — ci sembra, dirò così, di scarso valore: la storia universale consta fin dove ne abbiamo un’idea di lotte brutali per il potere, per il possesso di terre e materie prime, per il denaro, insomma per cose materiali e valori quantitativi che noi consideriamo contrari allo spirito e piuttosto spregevoli. Per noi il secolo XVII è l’epoca di Descartes, di Pascal, Froberger, Schutz, non quella di Cromwell o di Luigi XIV. La seconda causa della nostra contrarietà alla storia consiste nella diffidenza ereditaria e in gran parte, direi, giustificata verso un certo modo di considerarla e di scriverla che era molto in auge nel periodo di decadenza antecedente alla fondazione del nostro Ordine e nel quale a priori non avevamo alcuna fiducia: la così detta filosofia della storia. Essa ci diede in Hegel il fiore più intelligente e a un tempo più pericoloso, ma nel secolo successivo portò alla più odiosa falsificazione della storia e allo svilimento del senso della verità. Il culto di tale pseudodisciplina è per noi uno dei principali caratteri di quell’epoca di declino spirituale e di asperrime lotte per la conquista del potere che talvolta chiamiamo “secolo guerresco”, o più spesso “era della terza pagina”. Sulle rovine di quell’epoca, dalla lotta contro di essa e dal superamento del suo spirito (o mancanza di spirito) ebbe origine la nostra cultura odierna, nacquero l’Ordine e la Castalia. E se ora ci poniamo di fronte alla storia universale, soprattutto alla moderna, quasi come gli eremiti e gli asceti del primo cristianesimo stavano di fronte al teatro del mondo, lo dobbiamo alla nostra superbia spirituale. La storia ci sembra un’arena degli istinti e delle mode, delle brame e dell’avarizia, dell’avidità di potere e della smania di uccidere, della potenza, delle distruzioni e delle guerre, dei ministri ambiziosi, dei generali mercenari, delle città bombardate, e dimentichiamo troppo facilmente che questo è soltanto uno dei suoi numerosi aspetti. Soprattutto dimentichiamo che noi stessi siamo un brano di storia, siamo divenuti e condannati a estinguerci quando perdessimo la facoltà di divenire e di trasformarci. Noi stessi siamo storia e abbiamo la nostra parte di responsabilità nella storia universale e nel posto che vi occupiamo. Troppo ci manca la coscienza di questa responsabilità.

Se gettiamo uno sguardo indietro, ai tempi in cui sorsero le odierne Province pedagogiche e nel nostro e in vari altri paesi, all’origine delle diverse gerarchie, dei vari Ordini dei quali il nostro fa parte, vedremo ben presto che la gerarchia, la patria, l’Ordine castalio non furono affatto fondati da uomini che stessero di fronte alla storia universale con la rassegnazione e l’alterigia che abbiamo noi. I nostri predecessori e fondatori iniziarono la loro opera alla fine dell’era guerresca in mezzo a un mondo distrutto. Siamo soliti spiegare le condizioni del mondo nell’epoca che ebbe inizio all’incirca dalla così detta prima guerra mondiale mediante la considerazione unilaterale che appunto allora lo spirito non contava niente ed era per la violenza dei potenti soltanto un mezzo di lotta secondario, usato occasionalmente, conseguenza, secondo noi, della corruzione “appendicistica”. Sì, è facile rilevare l’assenza di spirito e la brutalità con cui erano condotte quelle battaglie per il potere. Se le definisco mancanti di spirito, non lo faccio perché non veda le immense prestazioni di intelligenza e di metodo che richiesero, ma perché siamo avvezzi e teniamo a considerare lo spirito in primo luogo come volontà del vero e quanto di spirito fu consumato in quelle battaglie non sembra aver avuto alcunché in comune con la volontà di raggiungere il vero. La sventura di quel tempo fu di non possedere un solido ordinamento morale da contrapporre all’irrequietezza e al dinamismo derivanti dalla rapidissima moltiplicazione degli uomini. Ciò che ancora rimaneva di quell’ordinamento fu soppiantato dagli slogan di moda, e nel rievocare quelle battaglie ci accade di imbatterci in fatti strani e paurosi. In maniera molto simile allo scisma religioso provocato quattro secoli prima da Lutero, tutto il mondo fu a un tratto corso da una portentosa inquietudine, dappertutto si formarono fronti di guerra, dappertutto scoppiò ad un tratto un’aspra e mortale inimicizia fra giovani e vecchi, tra patria e umanità, tra rossi e bianchi, e noi oggi non riusciamo neanche a ricostruire la potenza e l’intimo dinamismo di quel “rosso” e di quel “bianco” né il contenuto o i significati di tutti quei motti e gridi di battaglia, e meno ancora siamo in grado di comprenderli e di sentirli; come ai tempi di Lutero vediamo in tutta Europa, anzi in metà del mondo, credenti ed eretici, giovani e vecchi, partigiani dell’ieri e partigiani del domani, picchiarsi di santa ragione, entusiasti o disperati; e talvolta i fronti attraversavano le carte geografiche, i popoli e le famiglie, e non possiamo dubitare che per la maggioranza dei combattenti, o almeno dei loro capi, tutto ciò era pienamente sensato, come non dobbiamo negare a molti condottieri e portavoce di quei conflitti una certa buona fede o, come si diceva allora, un certo idealismo. Dappertutto si combatteva, si ammazzava, si distruggeva e sempre, da una parte e dall’altra, nella convinzione di combattere in favore di Dio e contro il demonio.

Quell’epoca convulsa di grandi entusiasmi, di odio feroce e di ineffabili dolori, è caduta fra noi in un oblio quasi incomprensibile, poiché senza dubbio è strettamente connessa con l’origine di tutte le nostre istituzioni, ne è la premessa e la causa. Un satirico potrebbe paragonare tale oblio a quello che gli avventurieri, arrivati e nobilitati, hanno della loro nascita e dei genitori. Soffermiamoci ancora un poco a considerare l’era guerresca. Io ho letto parecchi documenti relativi e mi sono interessato non tanto ai popoli vinti e alle città distrutte quanto al contegno degli intellettuali di quel tempo. Costoro non ebbero la vita facile, per la maggior parte non seppero tener duro. Ci furono martiri tanto fra gli eruditi quanto fra i religiosi e il loro martirio e l’esempio non rimasero senza efficacia in quel periodo avvezzo agli orrori. Certo è che i rappresentanti dello spirito non resistettero per lo più alla pressione di quell’epoca violenta. Gli uni si arresero e misero il loro talento e i loro metodi a disposizione dei potenti; è noto ciò che disse allora un professore universitario nella repubblica dei Massageti: «Non tocca alla Facoltà stabilire quanto faccia due per due, ma al nostro generale». Altri invece fecero opposizione fin tanto che fu possibile in una zona relativamente protetta e diramarono proteste. Un autore di fama mondiale avrebbe firmato allora — ce lo narra Ziegenhalss — in un solo anno più di duecento di tali proteste e moniti e appelli alla ragione eccetera, forse più di quanti ne abbia letti. La maggior parte di loro però imparò a tacere, imparò a soffrire la fame e il freddo, persino a chiedere l’elemosina e a nascondersi agli occhi della polizia, molti morirono prima del tempo e chi moriva era invidiato dai sopravviventi. Innumerevoli posero fine ai loro giorni. No, non era un piacere né un onore essere scienziati o letterati: chi si metteva al servizio dei potenti e delle frasi fatte aveva bensì pane e lavoro, ma anche il disprezzo dei migliori fra i suoi colleghi e probabilmente anche molti rimorsi. Chi invece rifiutava di servire era costretto a patir la fame, a vivere al bando e a morire in miseria o in esilio. Allora ebbe luogo una selezione crudele e severissima. Non solo l’indagine scientifica, in quanto non era asservita a fini di guerra o di potenza, decadde rapidamente, ma anche l’insegnamento scolastico. Soprattutto fu semplificata e rimpastata la storia universale che ognuna delle nazioni, di volta in volta egemoni, circoscriveva a sé stessa. Filosofia della storia e terza pagina dominavano persino le scuole.

Limitiamoci a questi particolari. Erano tempi feroci e violenti, tempi caotici e babilonici nei quali popoli e partiti, vecchi e giovani, rossi e bianchi non s’intendevano più. Andò a finire che, dopo sufficienti salassi e un grande immiserimento, sempre più forte si fece sentire il desiderio di rinsavire, di ritrovare un linguaggio comune, un desiderio di ordine, di costumatezza, di misure valide, di un alfabeto e di un abbaco che non fossero più dettati dagli interessi dei grandi né venissero modificati ad ogni piè sospinto. Sorse un bisogno immenso di verità e giustizia, di ragionevolezza, di superamento del caos. A quel vuoto sul finire di un’epoca violenta e tutta rivolta all’esteriorità, a quell’urgente e implorante desiderio di un nuovo inizio e di un nuovo ordine dobbiamo la nostra Castalia e la nostra esistenza. La minuscola coraggiosa schiera, mezzo morta di fame ma ancora inflessibile, dei veri intellettuali incominciò a rendersi conto delle sue possibilità, intraprese con disciplina ascetica ed eroica a darsi un ordine e una costituzione, ricominciò dappertutto a lavorare in gruppi esigui e minimi, a sgomberare le frasi fatte e a ricostruire dalle fondamenta una nuova spiritualità, un insegnamento, uno studio, una cultura. L’edificio fu attuato da princìpi poveri ed eroici, divenne a poco a poco sontuoso, creò in una serie di generazioni l’Ordine, l’Autorità pedagogica, le scuole dell’élite, gli archivi e le collezioni, le scuole specializzate e i seminari, il Giuoco delle perle; e in questo edificio quasi troppo lussuoso stiamo noi, gli odierni eredi e usufruttuari. E ci stiamo, ripeto, come ospiti piuttosto ignari e alquanto agiati, e non vogliamo saperne delle innumerevoli vittime umane sopra le quali furono eretti i nostri muri maestri, non vogliamo ricordare le dolorose esperienze delle quali siamo gli eredi, né la storia universale che ha eretto o sopportato il nostro edificio, che ci asseconda e ci tollera come farà forse con parecchi altri castalii e Magistri dopo di noi, ma che un giorno abbatterà e ingoierà la Castalia come abbatte e ingoia tutto ciò che ha fatto crescere.

Ora lascio la storia e affermo che il risultato, l’applicazione a noi e ai nostri giorni è la seguente: il nostro sistema ha già sorpassato il culmine di sviluppo e di fortuna che il giuoco misterioso degli eventi concede talvolta alle cose belle e desiderabili. Siamo in un periodo di decadenza che può forse trascinarsi ancora a lungo, ma in nessun caso ci potrà toccare alcunché di più alto, di più bello e desiderabile di quanto abbiamo già avuto. Siamo in declino, siamo, credo, storicamente maturi per scomparire dalla scena e così avverrà senza alcun dubbio, se non oggi o domani, certo posdomani. Non lo deduco soltanto da un giudizio troppo morale delle nostre prestazioni e capacità, ma ancor più dai moti che vedo prepararsi nel mondo esterno. Tempi critici si avvicinano, dappertutto si avvertono i prodromi, il mondo vuole spostare un’altra volta il centro di gravità. Trapassi di potere si stanno preparando e non avverranno senza guerre e violenze, dall’Oriente lontano si approssima una minaccia non solo alla pace, ma anche alla vita e alla libertà. Se anche il nostro paese e la sua politica si manterranno neutrali, se tutto il nostro popolo avrà la costanza unanime di attenersi (come non fa) al passato e di conservarsi fedele agli ideali castalii, lo farà invano. Già ora alcuni dei nostri parlamentari dicono molto chiaramente che la Castalia è per la nazione un lusso piuttosto caro. Non appena si sarà costretti a predisporre un riarmo considerevole, benché soltanto a scopo di difesa, e ciò può avvenire molto presto, si introdurranno misure di stretta economia, una gran parte delle quali colpirà anche noi per quanto il governo ci veda con benevolenza. Noi siamo orgogliosi che l’Ordine e la continuità della cultura spirituale da esso garantita richiedano dal paese sacrifici relativamente modesti. In confronto con altre epoche, specie coi primi tempi dell’era appendicistica dalle università riccamente dotate, dagli innumerevoli commendatori e dai lussuosi istituti, questi sacrifici non sono certo grandi. Diventano poi insignificanti se li paragoniamo a quelli che la guerra e gli armamenti inghiottirono nel secolo guerresco. Sennonché proprio questi armamenti ridiventeranno forse tra poco una suprema necessità, nel parlamento torneranno a dominare i generali e quando il popolo fosse invitato a scegliere, a decidere se sacrificare la Castalia o esporsi al pericolo della guerra e della rovina, sappiamo fin da ora quale sarà il suo voto. Senza alcun dubbio verrà subito in auge un’ideologia bellica che conquisterà specialmente la gioventù, una concezione universale fatta di luoghi comuni, secondo la quale gli scienziati e l’erudizione, il latino e la matematica, la cultura e l’esercizio dello spirito hanno diritto di vivere solo in quanto possono servire a scopi bellici.

L’onda è già in arrivo e un giorno ci spazzerà via tutti. Forse sarà un bene e una necessità. Per ora, colleghi reverendissimi, secondo la nostra comprensione degli avvenimenti, secondo la misura del nostro risveglio e del nostro coraggio, ci spetta quella limitata libertà di decidere e agire che è concessa agli uomini e fa della storia universale la storia dell’umanità. Se vogliamo, possiamo anche chiudere gli occhi perché il pericolo è ancora lontano; probabilmente noi, Magistri di oggi, potremo ancora condurre tranquillamente a termine il nostro compito e apprestarci a morire in pace, prima che il pericolo ci sovrasti e divenga a tutti evidente. Per me però, e forse non solo per me, questa tranquillità non sarebbe la pace della coscienza. Non vorrei rimanere in carica tranquillo a elaborare Giuochi di perle accontentandomi del pensiero che l’avvenire non dovrebbe trovarmi più in vita. Mi sembra invece necessario ricordare che anche noi, gente lontana dalla politica, apparteniamo alla storia e contribuiamo a farla. Perciò all’inizio del memoriale ho detto che la mia capacità di Magister è ridotta o almeno turbata perché non posso impedire che una gran parte dei miei pensieri sia assorbita dal pericolo futuro. Io rifiuto, è vero, alla mia fantasia di giocare con le forme che la sventura potrebbe assumere per noi e per me. Ma non posso ignorare il quesito: che cosa dobbiamo, che cosa debbo fare per affrontare il pericolo? A questo proposito mi sia concessa ancora una parola.

Non vorrei associarmi alla pretesa di Platone che nello stato debba regnare il sapiente. A quel tempo il mondo era più giovane e Platone, benché fosse il fondatore di una specie di Castalia, non era affatto un castalio bensì un aristocratico di nascita, un uomo di stirpe regale. Sì, anche noi siamo aristocratici e formiamo una nobiltà, ma è una nobiltà dello spirito non del sangue. Non credo che gli uomini riusciranno mai a coltivare una nobiltà del sangue insieme con quella dello spirito: sarebbe un’aristocrazia ideale, ma non è altro che un sogno. Noi castalii, benché morigerati e intelligenti, non siamo idonei a regnare; se dovessimo farlo non useremmo l’energia e l’ingenuità che occorrono al vero regnante e assai presto trascureremmo il nostro campo e il nostro vero compito che è quello di favorire la perfetta vita spirituale. Per regnare non occorre affatto essere stupidi e brutali, come talvolta hanno creduto gli intellettuali vanitosi ma ci vuole la gioia di agire verso l’esterno, la passione di identificarsi con mete e fini, e indubbiamente anche una certa destrezza e mancanza di scrupoli nella scelta delle vie che conducono al trionfo: dunque, tutte qualità che l’erudito (non vogliamo definirci sapienti) non deve avere e non ha, poiché la contemplazione è per noi più importante dell’azione, e nella scelta dei mezzi e dei metodi per raggiungere i nostri fini abbiamo imparato a essere il più possibile scrupolosi e diffidenti.

Dunque a noi non spetta regnare e far politica. Noi siamo specialisti nell’indagine, nella misura, nell’analisi, siamo chiamati a custodire e vagliare costantemente tutti gli alfabeti, gli abbachi e i metodi, siamo i verificatori dei pesi e delle misure spirituali. Certo siamo anche molte altre cose, all’occasione possiamo essere innovatori, scopritori, avventurieri, conquistatori e interpreti, ma la nostra prima e più alta funzione, per la quale il popolo ha bisogno di noi e ci mantiene, è la pulizia di tutte le fonti del sapere. Nel commercio, nella politica, o che so io, il vendere lucciole per lanterne può essere talvolta un merito geniale, tra noi invece non lo è mai.

In precedenti agitati periodi, nelle così dette “grandi” epoche, durante guerre e rivoluzioni, si pretendeva che gli intellettuali s’inserissero nella politica. Così avvenne specialmente nella tarda era della terza pagina. Tra l’altro vi si chiedeva che lo spirito fosse politicizzato o militarizzato. Come le campane delle chiese venivano requisite per fondere cannoni, come l’immatura gioventù scolastica doveva colmare i vuoti delle truppe decimate, così si voleva sequestrare e adoperare lo spirito quale mezzo di guerra. Va da sé che una simile pretesa è inammissibile. Inutile dire che in caso di emergenza uno scienziato può essere distolto dalla cattedra o dalla scrivania e richiamato sotto le armi, che eventualmente può presentarsi volontario, che in un paese dissanguato dalla guerra deve ridurre tutti i bisogni materiali fino all’ultimo e fino alla fame. Quanto maggiore è la cultura di un uomo, quanto più ampi i suoi privilegi, tanto più grandi devono essere, nel momento del bisogno, i suoi sacrifici: noi speriamo che un giorno queste cose saranno ovvie per tutti i castalii. Ma se anche siamo disposti a sacrificare il nostro benessere, la comodità e la vita al popolo in pericolo, non vuol dire che si sia pronti a sacrificare lo spirito stesso, la tradizione e la morale della nostra spiritualità agli interessi del giorno, del popolo e dei generali.

Vigliacco chi si sottrae alle fatiche, ai sacrifici e ai pericoli che il suo popolo deve affrontare, ma non meno vigliacco e traditore chi vien meno ai princìpi della vita spirituale per amore di interessi materiali, chi, per esempio, è disposto a lasciare ai potenti la decisione su quanto faccia due per due. Sacrificare il senso della verità, l’onestà intellettuale, l’osservanza delle leggi e dei metodi dello spirito a qualunque altro credo, anche a quello patriottico, è tradimento. Quando, nel conflitto di interessi e frasi fatte, la verità corre il rischio di essere svalutata, svisata e violentata come l’individuo, come il linguaggio, come le arti e ogni cosa organica e genialmente coltivata, il nostro unico dovere è quello di reagire e di salvare la verità, cioè l’aspirazione alla verità che è il nostro credo supremo. L’erudito che oratore, scrittore o insegnante, dice scientemente il falso e favorisce scientemente menzogne e mistificazioni non solo agisce contro leggi organiche fondamentali ma, ad onta di qualsiasi apparenza momentanea, non rende alcun servizio al suo popolo, gli reca invece grave danno, gli guasta l’aria e la terra, il cibo e la bevanda, gli avvelena il pensiero e il senso di giustizia aiuta i malvagi e i nemici che vorrebbero distruggerlo.

Dunque il castalio non deve darsi alla politica. In caso di necessità sacrificherà la propria persona, ma non mai la fedeltà allo spirito. Questo è benefico e nobile soltanto nell’ossequio alla verità, non appena il castalio la tradisce, non appena rinuncia al rispetto di essa e si fa venale e duttile, diventa il demonio in potenza, è molto peggiore della bestialità animale e istintiva che pur conserva ancora un po’ della sua nativa innocenza.

Lascio a ciascuno di voi, stimati colleghi, di riflettere in che cosa consistano i doveri dell’Ordine quando questo e il paese sono in pericolo. Le opinioni saranno diverse. Anch’io ho la mia e nel considerare tutti i problemi che ho sollevati sono giunto, per quanto riguarda me, a una chiara visione del mio dovere e delle mie aspirazioni. E così vengo a una richiesta personale che rivolgo alla spettabile Autorità e con la quale conchiudo questo memoriale.

Fra tutti i Magistri che compongono la nostra Autorità, io, in quanto Magister Ludi, per la carica che ho, sono il più lontano dal mondo esterno. Il matematico, il filologo, il fisico, il pedagogo e tutti gli altri Magistri lavorano in campi comuni col mondo profano, anche nelle scuole normali, non castalie, del nostro e di qualunque paese, matematica e filologia costituiscono le basi dell’istruzione, anche nelle università laiche si coltivano l’astronomia e la fisica, anche persone del tutto prive di erudizione fanno musica; tutte queste discipline sono antichissime, molto più vecchie del nostro Ordine, esistevano molto prima di esso e gli sopravviveranno. Soltanto il Giuoco delle perle di vetro è un’invenzione nostra, una nostra specialità, il nostro beniamino, il nostro trastullo, è l’ultima e più caratteristica espressione della nostra particolare specie di spiritualità. A un tempo è, nel nostro tesoro, il gioiello più prezioso e più inutile, più amato e più fragile. E la prima cosa che perirà quando la continuazione della Castalia diventerà problematica: non solo perché è quanto di più fragile possediamo, ma non fosse altro perché è senza dubbio, per i profani, la parte meno indispensabile della nostra Provincia. Quando si tratterà di risparmiare al paese ogni spesa non necessaria, si limiteranno le scuole dell’élite, si ridurranno e infine si aboliranno i fondi per la conservazione e l’accrescimento di biblioteche e collezioni, ci taglieranno i viveri, non rinnoveranno le forniture di stoffe per vestirci, ma si manterranno tutte le discipline principali della nostra Universitas Litterarum, tranne il Giuoco delle perle. La matematica serve anche per inventare nuove armi da fuoco, ma nessuno, men che meno i militari, crederà che dalla chiusura del Vicus Lusorum e dall’abolizione del nostro Giuoco possa derivare il minimo danno al popolo e al paese. Il Giuoco delle perle di vetro è la parte più remota e più insidiata del nostro edificio. Ciò dipende forse dal fatto che proprio il Magister Ludi, il quale presiede alla disciplina meno conosciuta, è colui che presagisce per primo i terremoti imminenti o almeno comunica per primo questi presagi all’Autorità.

Secondo me, dunque, nel caso di sconvolgimenti politici e soprattutto bellici, il Giuoco delle perle può considerarsi perduto. Decadrà rapidamente, anche se numerosi individui gli resteranno affezionati, e non sarà più rimesso in onore. Non lo consentirà l’atmosfera susseguente a una nuova epoca di guerra. Scomparirà come certe raffinatissime consuetudini nella storia della musica, per esempio i cori di cantanti di professione intorno al 1600 o i canti figurati domenicali eseguiti nelle chiese intorno al 1700. A quel tempo le orecchie umane udirono suoni che nessuna scienza e nessuna magia possono risuscitare nella loro purezza angelica e radiosa. Così il Giuoco delle perle non sarà dimenticato, ma sarà irrevocabile, e coloro che ne studieranno la storia dall’origine al massimo sviluppo e alla fine, sospireranno e ci invidieranno per aver potuto vivere in un mondo spirituale, così pacifico, così coltivato e armonioso.

Ora, benché io sia Magister Ludi, non credo affatto compito mio (o nostro) quello di impedire o procrastinare la fine del nostro Giuoco. Anche le cose belle e bellissime sono caduche, non appena diventano storia e fenomeno sopra la terra. Noi lo sappiamo e possiamo esserne rattristati, ma non possiamo tentare seriamente di mutare la situazione che è ineluttabile. Se il Giuoco delle perle crollerà, la Castalia e il mondo subiranno una perdita, ma non la sentiranno sul momento, tanto saranno affaccendati, nella grande crisi, a salvare il salvabile. Si può pensare una Castalia senza Giuoco delle perle, ma non una Castalia senza rispetto della verità, senza fedeltà allo spirito. Un’Autorità pedagogica può fare a meno del Magister Ludi, ma questo “Magister Ludi” non significa, e noi l’abbiamo quasi dimenticato, in origine e nell’essenza, la specialità che indichiamo con queste parole. In origine magister ludi significa semplicemente maestro di scuola. E di maestri di scuola, di buoni e valorosi maestri il nostro paese ha tanto maggior bisogno quanto più la Castalia è in pericolo e quanto più le sue parti preziose invecchiano e si vanno sgretolando. Più che mai abbiamo bisogno di maestri, di uomini che insegnino ai giovani il modo di misurare e di giudicare e siano loro di esempio nel rispetto della verità, nell’obbedienza allo spirito, nel servizio del verbo. E ciò non vale soltanto o in primo luogo per le nostre scuole scelte, ché anch’esse dovranno tramontare, ma per le scuole del mondo dove cittadini e agricoltori, operai e soldati, uomini politici, ufficiali e regnanti, vengono formati e educati finché sono ancora fanciulli e plasmabili. Là sta il fondamento della vita spirituale del paese, non già nei seminari o nel Giuoco delle perle. Abbiamo sempre fornito al paese, come ho già detto, educatori e insegnanti: sono i migliori di noi. Ma dobbiamo fare molto più di quanto si è fatto finora. Non dobbiamo più contare che dalle scuole di fuori ci continui ad affluire l’élite degli intelligenti e ci aiuti a conservare la nostra Castalia. Dobbiamo sempre più riconoscere e sviluppare, come parte più importante e onorevole del nostro compito, il servizio umile e grave di responsabilità che rendiamo alle scuole del mondo. Così sono arrivato alla richiesta personale che vorrei rivolgere alla spettabile Autorità. Chiedo che essa mi esoneri dalla carica di Magister Ludi e mi affidi fuori, nel paese, una scuola comune, grande o piccola, e mi permetta di aggregare via via a questa scuola uno stato maggiore di giovani confratelli come insegnanti di mia fiducia, disposti ad aiutarmi fedelmente e far sì che i nostri princìpi vengano assorbiti dai giovani uomini di mondo.

Voglia la spettabile Autorità esaminare con benevolenza la mia motivata supplica e impartirmi gli ordini del caso.

Il Maestro del Giuoco delle perle di vetro

Originally published at www.alfonsofuggetta.org on August 20, 2014.

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Alfonso Fuggetta
La bella terra

Insegno Informatica al Politecnico di Milano e lavoro al Cefriel. Condivido su queste pagine idee e opinioni personali.