Università e competitività del Paese

Pubblicato su Astrid Rassegna il 23/12/2019, n. 311 (19/2019).

Alfonso Fuggetta
La bella terra
15 min readDec 27, 2019

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Cosa serve per promuovere e rilanciare il rapporto tra università e mondo dell’imprese a servizio dello sviluppo e della competitività del Paese? Per discuterne in modo utile è necessario proporre riflessioni che da un lato smontino troppi miti e distorsioni presenti nel dibattito del Paese e, dall’altro, propongano un’agenda concreta e di medio periodo sulla quale lavorare.

1. Importanza dello studio

Troppo spesso leggiamo affermazioni sull’inutilità dello studio e soprattutto della laurea. C’è chi è arrivato ad affermare che tutto sommato “si guadagna di più aprendo una pizzeria”. Altri raccontano di esperienze di persone che hanno avuto successo senza aver completato particolari studi: il caso più citato è quello di Steve Jobs che, peraltro, ovviamente costituisce un profilo alquanto anomalo rispetto alla media delle persone presenti nella nostra società.

Piccola nota a margine: Steve Jobs fu molto influenzato da un corso di Calligrafia seguito al Reed College di Portland.

In realtà studiare è essenziale.

L’Italia ha il triste primato della nazione con uno dei più bassi quozienti di laureati tra la popolazione. La percentuale di laureati STEM (Science, Technology, Engineering & Mathematics) è meno della metà di quella di paesi quali la Germania e il Regno Unito. In generale, abbiamo un livello medio di formazione (universitaria e non) tra i più bassi. È quindi importante ricordare tre elementi chiave:

  1. Anche se è vero che in Italia esiste un problema salariale (come discusso nel seguito), è indubbio che il possedere una laurea o comunque un titolo di studio di valore offra un vantaggio indiscutibile sia sulla possibilità di trovare lavoro, sia per accedere a livelli retributivi più elevati, quanto meno nel medio periodo.
  2. Un titolo di studio è comunque spendibile sia in Italia che all’estero e costituisce un elemento di qualificazione di una persona in tutta la sua carriera professionale.
  3. Se è vero che non di rado in Italia mancano sbocchi professionali adeguati per i nostri laureati, è altrettanto vero che questi sbocchi di alto livello non saranno di certo creati da un tessuto industriale ed economico debole e con un basso livello di scolarizzazione. Chi costruirà le imprese e i posti di lavoro del futuro?

È quindi necessario creare e potenziare i meccanismi che riducano la dispersione scolastica e sostengano i nostri giovani nell’accesso ai livelli più avanzati della formazione e dell’educazione.

2. Risorse

Un tema molto delicato che suscita continuamente polemiche a volte sterili e strumentali è quello del finanziamento del sistema educativo e in particolare delle università. È un fatto che l’investimento pubblico e privato del nostro paese su ricerca e educazione sia tra i più bassi dei paesi con i quali ci confrontiamo abitualmente (e non solo …).

Fonte OECD (2016).

Certamente, non basta e non serve spendere soldi in modo clientelare per accontare questo o quel gruppo sociale (insegnanti e amministratori pubblici per esempio), ed è quindi sbagliata una richiesta di maggiori risorse “a prescindere”. Tuttavia, è indubbio che senza risorse qualunque discorso anche meritocratico e “competitivo” non ha le gambe per camminare e concretizzarsi.

A questo proposito, un confronto emblematico è tra Politecnico di Milano e MIT, università di riferimento e molto simile a quello che nel sistema universitario italiano è un politecnico.

  • Studenti: Politecnico quasi 45.000, MIT poco più di 10.000: un rapporto 4/1.
  • Numero di docenti: anche tenendo conto dei diversi profili di carriera, il numero è confrontabile. È quindi evidente l’impatto su un altro rapporto cruciale e cioè quello tra studenti e docenti (uno dei più “pesanti” tra quelli utilizzati nella stesura delle graduatorie internazionali).
  • Costi: un anno di studi al Politecnico costa qualche migliaio di Euro; al MIT svariate decine di migliaia di dollari.
  • Budget: Politecnico circa mezzo miliardo di Euro, MIT oltre 3 miliardi di Euro.

È possibile una reale competizione (o anche solo un raffronto) in queste condizioni? Peraltro, non è vero che i finanziamenti al MIT siano sostanzialmente privati. Per esempio, per quanto riguarda la ricerca, questo il dato preso dal sito del MIT:

Research sponsored directly by industry totaled $159 million in fiscal year 2018, or 22% of total MIT research expenditures.

Inoltre, è indubbio che finanziare la ricerca sia più facile per aziende medio-grandi come quelle che si trovano in USA; al contrario non si può dimenticare il fatto che il nostro paese è caratterizzato da poche grandi imprese e moltissime medio-piccole e piccolissime imprese per le quali gli investimenti in ricerca ed innovazione risultano molto più complicati da attivare.

Serve competizione e responsabilizzazione: è indubbio. Ma senza risorse è difficile fare molto di più di quello che almeno alcune università stanno cercando di fare.

3. Orientamento

L’orientamento dei nostri giovani nella scelta del proprio percorso di studi è uno degli snodi più difficili e importanti che come società dobbiamo affrontare. Dobbiamo saper evidenziar loro criticità e opportunità di ciascun percorso di studi, in generale e in relazione al proprio territorio. In altre parole, dobbiamo saper rappresentare il gap esistente sia per ciò che concerne gli skill richiesti che la distribuzione geografica dei posti di lavoro. Questo gap deve essere conosciuto e valutato dai nostri giovani per poter effettuare una scelta matura e consapevole.

È utile e necessario avere laureati in materie umanistiche e “non STEM”, ma ciò che crea un problema di difficile soluzione è lo squilibrio tra il mix di laureati che stiamo producendo e le richieste del mondo del lavoro. Inutile piangere se il mercato del lavoro non assorbe tutti i laureati in materie umanistiche e invece chiede più laureati STEM. Chi deve creare quei posti di lavoro non richiesti dalle imprese? Il pubblico? E cosa dovrebbero fare le imprese? Assumere laureati in legge per fare il lavoro di un ingegnere? Inoltre, perché nel nostro paese non stiamo investendo in modo intenso e diffuso sugli ITS che garantiscono un tasso di occupazione elevatissimo e che preparano giovani con profili fortemente richiesti dalle imprese? Non è forse la nostra carenza in questo settore uno dei principali elementi di ritardo rispetto, per esempio e in particolare, alla Germania?

Dal punto di vista geografico, è ovvio che territori diversi possano avere bisogni e quindi possibilità di assorbire le diverse tipologie di laureati molto differenti tra loro. Un laureato in Ingegneria Fisica troverà facilmente lavoro in una zona rurale del paese? Potrà magari crearlo lui, ma è fuor di dubbio che certi squilibri territoriali siano oggettivi e debbano essere tenuti in considerazione.

Il tema dell’orientamento è quindi centrale e deve essere affrontato in modo serio e non propagandistico per aiutare i nostri giovani a scegliere il proprio percorso di studi in modo maturo ed informato.

4. Focalizzazione

Spesso università e scuole superiori sono criticate perché i giovani non hanno la formazione richiesta per essere immediatamente produttivi nel mondo del lavoro. In parte ciò è dovuto allo skill gap discusso al punto precedente. In generale, tuttavia, si tratta di un problema mal posto e affrontato in maniera superficiale.

Oggi un giovane che entra nel mondo del lavoro avrà un percorso professionale di 40 anni (almeno). È più importante, sia per lui che per l’azienda che lo assume, che sia in grado di essere da subito operativo — chiavi in mano” o, come si usa dire, “plug & play” — oppure che sia in grado di continuamente imparare ed adattarsi alle esigenze mutevoli del mondo del lavoro? Per esempio, cosa devo insegnare come docente di informatica, visto che queste tecnologie evolvono in modo velocissimo? Serve fornire conoscenza e informazioni immediatamente utilizzabili, ma che si “consumano” velocemente, oppure è più utile offrire fondamenti solidi che permettano alla persona di “imparare ad imparare” in modo continuo e sistematico?

Se questo è il quadro nel quale ci muoviamo, è necessario che mondo della scuola e dell’università da un lato e mondo delle imprese (e delle amministrazioni pubbliche) ne prendano atto e si adeguino. Università e scuola devono tornare a valorizzare le materie di base, la capacità di ragionare e elaborare pensieri autonomi e creativi, l’abilità nel problem solving. Il mondo delle imprese deve considerare il tema della formazione un investimento continuo e permanente per valorizzare i propri collaboratori e rafforzare il know-how e, come si usa dire oggi, la salute e la resilienza dell’azienda.

5. Multidisciplinarietà e soft skill

Oggi assistiamo alla corsa nella creazione di figure camaleontiche che ibridano tante diverse competenze e conoscenze, spesso sull’onda di richieste delle imprese. È questa la multidisciplinarietà di cui abbiamo bisogno? Prendiamo per esempio un caso emblematico: Internet delle Cose (IoT). Oggi è un tema particolarmente importante ed indubbiamente richiede l’incontro di tante diverse discipline: elettronica, telecomunicazioni, informatica, industrial design. Ma quindi abbiamo bisogno di un “ingegnere in internet delle cose”? No. Nei progetti vogliamo avere un bravo elettronico che interagisca in modo proficuo con un bravo informatico e con un bravo industrial designer. Per ciascuna disciplina vogliamo il meglio, non uno che sappia poco di tutto.

La multidisciplinarietà vera si vede e vive a livello di team, non di singolo.

Da tempo si parla anche molto di soft skills. È indubbio che i soft skills siano indispensabili, come la buona educazione e la capacità di scrivere in buon italiano. Ma non possiamo dimenticare che avere soft skill in assenza di competenze e conoscenze di dominio/specialistiche sia sostanzialmente inutile. Alla fine bisognerà anche conoscere la propria materia e disciplina oppure pensiamo che i problemi, magari complessi, si risolvano solo perché abbiamo degli (utili) soft skills?

Ogni persona deve avere una sua fisionomia e professionalità; i soft skills la rendono capace di interagire con altri professionisti di valore, portatori di competenze e conoscenze complementari. È quello che molti chiamano “modello a T”: la gamba verticale definisce il profilo professionale e “sostiene” quella orizzontale, dell’apertura, del dialogo, dei soft skills per l’appunto. Ma la gamba orizzontale “non regge” in assenza di quella verticale. Tutto ciò ha profonde implicazioni sui criteri e sui principi che utilizziamo nel pensare e nel rivedere percorsi di studio, contenuti e modelli didattici.

6. Competizione

Recentemente ho sentito il manager di una grande impresa affermare che le università sbagliano perché competono tra di loro nel “catturare” le matricole. È una critica non nuova e alquanto paradossale visto che le università italiane sono al tempo stesso accusate di essere chiuse, corporative e incapaci di competere con il resto del mondo. Anzi, sono quotidianamente confrontate con atenei internazionali che fanno della competizione un loro elemento costituivo ed ineludibile. Peraltro, le università hanno talmente tanti vincoli che non si capisce bene in cosa poi si manifesterebbe questo eccesso di competizione. Gli atenei ricevono fondi sulla base del FFO che è poco se non per nulla competitivo. L’autonomia universitaria è sempre più limitata. Il valore legale del titolo di studio (quel che oggi è in vigore) appiattisce e rende difficile differenziare. Mettere un numero chiuso o programmato è difficile se non impossibile.

In realtà, abbiamo bisogno di maggiore competizione. La competizione premia chi si impegna e propone contenuti e modelli formativi stimolanti. La competizione ci fa uscire dalle zone di comfort e ci spinge a provare strade nuove. La competizione fa nascere nuove idee e nuovi modelli che mettono in discussione lo status quo.

Certamente, definire una struttura di governance che implementi nel concreto modelli competitivi nel mondo dell’educazione non è semplice in quanto è vitale evitare eccessi e distorsioni. Per esempio, la scuola e l’università devono mantenere la loro autonomia culturale e la capacità di mettere in discussione mode e tendenze del momento e come tali transitorie e poco lungimiranti. Ma è indubbio che la promozione di una maggiore competizione nel mondo dell’educazione e della formazione sia un primo grande filone di lavoro sul quale il Paese deve impegnarsi.

7. Autonomia

Il mondo dell’università vive più di altri una delle più grosse contraddizioni che caratterizza il nostro paese: l’irrisolto contrasto tra flessibilità e controllo. Da un lato vogliamo istituzioni (e università) moderne, capaci di competere con le realtà internazionali e di acquisire e gestire in modo efficiente e agile risorse private che finanzino ricerca, innovazione e formazione. Dall’altro, vogliamo combattere malaffare e errori degli accademici imponendo controlli sempre più rigidi e stringenti su ogni attività e processo amministrativo e, in particolare, concorsi e reclutamento, spese, investimenti, selezione degli studenti. Sono spinte di carattere opposto difficilmente conciliabili tra loro e che producono di fatto lo stallo e le lentezze che sempre più appesantiscono l’azione degli atenei.

È necessario garantire all’università autonomia finanziaria, didattica e gestionale. In particolare, non ha senso continuare a riformare e cambiare il meccanismo dei concorsi, introducendo ogni volta procedure sempre più cervellotiche, avulse dalle pratiche in uso a livello internazionale e del tutto incapaci di evitare i mali per i quali vengono concepiti. È necessario lasciare che ogni università possa scegliere il personale che ritiene più adatto al proprio funzionamento. Se un ateneo abusasse di questa funzione, devono essere i meccanismi della competizione e del mercato a punirlo.

Si dirà che questa è una visione ingenua che non tiene conto dei tanti mali endemici del paese: corruzione, nepotismo, familismo. Ma la domanda dovrebbe essere rovesciata: cosa abbiamo ottenuto fino ad oggi con sempre maggiori controlli? Nulla. Anzi, il mondo dell’università è sempre più ingessato e bloccato, pur continuando ad esistere corruzione, nepotismo e familismo. Per questo non è più differibile un coraggioso e radicale cambio di direzione: una vera valutazione che renda possibile una ampia autonomia e responsabilizzazione degli atenei.

8. Dimensionamento (capacity planning)

Un tema che spesso è sollevato nel dibattito pubblico è l’eccessivo numero di università che sarebbero presenti nel nostro paese. In realtà, se è certamente ragionevole parlare di squilibri, non è per nulla detto che ci siano “troppe università”. Prendiamo ancora il caso del Politecnico e delle facoltà di Ingegneria. Il paese avrebbe bisogno di più ingegneri. Il Politecnico ne prepara circa un sesto e ha circa 45.000 studenti (incluse le facoltà di Industrial Design e Architettura). Non esistono università serie a livello internazionale con questo numero di studenti e quindi appare difficile pensare di incrementarlo. Come visto, MIT ne ha circa un quarto; Stanford circa la metà, come molte altre università di punta europee (ETH e Imperial College, per esempio). Dovremmo “clonare qualche Politecnico” per avere la capacità formativa che serve, specialmente se vogliamo, come detto, innalzare il livello di formazione dei nostri giovani e quindi aumentare il numero di laureati in percentuale sulla popolazione.

È necessario effettuare un serio “capacity planning” dei bisogni del paese e quindi delle strutture formative necessarie nei diversi settori, valorizzando in modo sostanziale il ruolo degli ITS, non solo per quel che sono i numeri oggi, ma tenendo conto delle prospettive future di crescita e sviluppo. È un capitolo essenziale di una politica che voglia affrontare seriamente il tema dell’educazione e della formazione dei nostri giovani (e non).

9. Mercato del lavoro

Il mercato del lavoro in Italia è immaturo. Le retribuzioni sono inferiori a quelle di altri paesi a parità di qualificazione e ciò costituisce il primo (non unico!) motivo alla base del continuo flusso di giovani che si trasferiscono all’estero. Il problema è complesso e non può certo essere affrontato nella sua generalità in poche righe.

Considerando il mondo del digitale e delle tecnologie del software (che conosco più da vicino), è indubbio che due tra i principali problemi alla base dei bassi livelli salariali siano la compressione delle tariffe e i modelli di procurement che privilegiano sostanzialmente il prezzo rispetto alla qualità. Ciò incide su tutta la catena di fornitura riversandosi sui salari specialmente dei più giovani. In generale, il problema è un modello di procurement che appare distorto e alquanto antiquato. Esso privilegia, soprattutto nel pubblico, il massimo ribasso rispetto ai contenuti tecnici e alla qualità del personale impiegato dal fornitore. Peraltro, è ovvio che, in un sistema caratterizzato da norme complesse e da una demonizzazione di qualunque decisione che possa anche soltanto apparire come arbitraria, i responsabili dei processi amministrativi di procurement siano portati a rifugiarsi in semplici e inoppugnabili meccanismi che li tutelino di fronte a procedimenti della Corte dei Conti o di altri organi dello Stato.

Parimenti, nel privato le direttive di molti amministratori delegati ai propri uffici acquisti sono molto semplici: tagliare i costi, anche a scapito della qualità. A questo tipo di obiettivo si allineano promozioni e incentivi: come meravigliarsi quindi se le tariffe sono bassissime? In queste condizioni, è ovvio che i salari dei professionisti dell’informatica facciano fatica a salire e rimangano a livelli molto inferiori rispetto a quelli offerti in altri paesi.

Il pubblico deve premiare la qualità e non semplicemente il basso costo. Per farlo è necessario un profondo ripensamento dei processi di procurement e un patto tra amministrazioni, giustizia amministrativa e giustizia civile: il responsabile di un procedimento deve essere incoraggiato a premiare la qualità e non spinto unicamente a tutelarsi. Analogamente deve accadere, con strumenti e processi diversi, nel privato.

Considerazioni di questo tipo dovrebbero essere fatte per tanti aspetti della nostra società e del nostro mercato del lavoro. Solo così potremo incidere in modo efficace su un problema che sta depauperando il patrimonio di intelligenze e talenti presenti nel nostro paese.

10. Ricerca e innovazione

Le imprese hanno bisogno di università capaci di sostenerle nei propri processi di ricerca e innovazione. Per farlo, è necessario comprendere le principali caratteristiche e dinamiche di questi processi al fine di identificare i modelli e gli strumenti più adatti a promuoverli e sostenerli.

  1. La ricerca è diversa dall’innovazione. La prima punta a creare nuova conoscenza, anche in assenza di un utilizzazione immediata dei risultati; la seconda ad avere un impatto sulla società. Servono politiche e strumenti coerenti con queste diverse missioni e dinamiche.
  2. Non ci può essere innovazione senza ricerca e, soprattutto, ricerca di base. È la ricerca che alimenta l’innovazione con conoscenze e capitale umano. È quindi innanzi tutto vitale investire in ricerca, anche quando non ci siano prospettive concrete di applicazione. Per questo, è cruciale il ruolo del pubblico e dell’Unione Europea.
  3. Vi sono aziende che fanno esse stesse ricerca e che quindi possono direttamente collaborare su queste tematiche con i laboratori universitari. Ma in molti casi ciò di cui hanno bisogno le imprese è un supporto ai processi di innovazione, cioè quelli più applicativi e di breve-medio periodo.
  4. Le strutture universitarie sono caratterizzate da processi, personale e motivazioni che le rendono poco adatte a sostenere processi strutturati di innovazione (se non per prove di laboratorio e consulenza specialistica su temi molto specialistici). Non per niente si citano spesso esempi come i Fraunhofer tedeschi, strutture autonome ed esterne all’università che hanno missione, processi e professionalità adatte a sostenere i processi di innovazione delle imprese.
  5. Le startup sono uno strumento importante attraverso il quale quanto sviluppato all’interno degli atenei viene portato sul mercato (processo «push»). Esse sono complementari ai processi di «consulenza di innovazione» tipicamente svolti da centri come i Fraunhofer e che partono dai bisogni e dalle sfide delle imprese (processo «pull»). Le une, quindi, non sostituiscono gli altri (e viceversa).
  6. I processi di innovazione offerti alle imprese devono essere orientati allo sviluppo delle competenze interne alle imprese. Non si tratta semplicemente di offrire servizi o soluzioni, quando di potenziare i processi e il capitale umano delle aziende. Vitale in questo senso accompagnare progetti di innovazione con coaching e formazione del personale delle imprese.

È essenziale che qualunque politica di intervento o iniziativa a sostegno di questi processi sia basata su una analisi condivisa e organica che esplori e declini in modo dettagliato questi aspetti.

11. La qualità del sistema universitario

Periodicamente le università italiane sono messe sotto accusa in quanto non sono presenti nelle prime posizioni delle graduatorie internazionali. È un problema, indubbiamente, o quanto meno un indizio forte che le università italiane devono affrontare in modo deciso i problemi che le attraversano.

Ciò non di meno, è altrettanto vero che le statistiche e le graduatorie sono meno negative di quel che si pensi. Qualche anno fa fu pubblicato un articolo sul World Economic Forum che mostrava la percentuale di atenei dei vari paesi presenti nei primi 200, 500 e 1.000 posizioni della classifica della Shanghai Jiao Tong University (uno dei più citati). Ripresi l’articolo in un mio post su lavoce.info, in quanto l’analisi proposta indicava che se mancano al paese punte di eccellenza assoluta, mediamente gli atenei italiani sono piazzati meglio di quanto si possa immaginare (qui di seguito l’articolo con i dati relativi).

Notavo nell’articolo:

Se consideriamo poi le università Top 1000 (che costituiscono pur sempre il top 5 per cento degli atenei al mondo, figura 3), gli Stati Uniti scendono ancor più giù nella classifica relativa alla percentuale degli atenei presenti, mentre l’Italia sale al quinto posto. Letto in altro modo, in Italia il 20 per cento circa delle università del paese offre una formazione da Top 1000. In Usa sono solo l’8,4 per cento e in Francia la percentuale scende al 7,5 per cento.

Nota: il numero di atenei a livello mondiale varia a seconda delle classificazioni tra 20.000 e 40.000.

Questi dati dovrebbero quanto meno indurre ad una maggiore prudenza e ad una più attenta analisi dei vari indicatori di qualità delle università italiane rispetto agli atenei degli altri paesi.

In conclusione

La formazione, la ricerca e l’innovazione sono temi essenziali per la sviluppo del nostro Paese. Anzi, sono “il” problema più importante in quanto definiscono chi siamo e saremo. Le università giocano in tutto questo un ruolo essenziale. È vitale che esse raccolgano la sfida e si impegnino in una profonda trasformazione e in un ripensamento del proprio modo di essere ed operare per tenere conto delle sfide che si trovano ad affrontare. Ma le università devono intraprendere questo cammino insieme alle istituzioni e al mondo delle imprese, avendo tutti insieme ben chiarito problemi, sfide e obiettivi. Non servono ricette assolutorie, alibi o semplificazioni sterili. È su questi temi che si gioca il futuro dei nostri giovani e del Paese nel suo complesso.

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Alfonso Fuggetta
La bella terra

Insegno Informatica al Politecnico di Milano e lavoro al Cefriel. Condivido su queste pagine idee e opinioni personali.