PD, la giornata più lunga: chi va e chi resta
Ufficiale la rottura di alcune minoranze con il segretario del partito Matteo Renzi, ma non la scissione. Dettagli e analisi politica di una giornata convulsa e carica di nervosismo
Nonostante le accuse da ambo la parti, l’esito non era scritto. L’Assemblea nazionale del Partito Democratico si era riunita ieri mattina a Roma con l’obiettivo di determinare il percorso che porterà ad individuare la nuova segreteria, oltre che le linee programmatiche per affrontare le prossime sfide elettorali: dalle amministrative alle politiche.
— Molto rumore per (poco o) nulla?
Agli atti restano “solo” le dimissioni di Matteo Renzi da segretario, ma ben poco altro. Poiché nessuna candidatura è pervenuta entro il tempo stabilito (le 13.30, ad essere precisi), il verdetto è stato chiaro, in accordo con le regole espresse dallo statuto del partito: Congresso anticipato, da concludersi entro quattro mesi.
Esattamente come era nelle volontà del segretario uscente, ma con la legittimazione della scelta che passa attraverso una regola incontestabile. Martedì si riunirà la Direzione nazionale del PD per nominare la Commissione congressuale, ultimo atto formale prima di passare alle grandi manovre per l’organizzazione del momento collettivo più importante nella vita di un partito. Il Presidente Matteo Orfini sarà il reggente durante questa delicata fase politica.
— La disputa per il Congresso
Negli ultimi giorni era stata accolta la richiesta, venuta dalla minoranza, di sviluppare un congresso vero, piuttosto che semplici primarie interne per la leadership alle future elezioni, ma uno dei punti chiave della discordia Renzi-minoranze (riduttivo parlare solo di Emiliano-Rossi-Speranza) erano le tempistiche. La posizione comune delle varie anime era quella di svolgere una conferenza programmatica prima del Congresso, dedicata squisitamente a ricucire le divergenze di vedute tra le varie anime del partito. Obiettivo? Mettere insieme una base di argomenti comune su cui i candidati alla sfida congressuale avrebbero dovuto impostare il proprio percorso, dopo le elezioni amministrative di giugno; in questo scenario la nomina del segretario sarebbe avvenuta attorno a novembre, come da tempistiche standard.
Non sarà così. Tra tutte le ipotesi e le posizioni in campo, le dimissioni di Renzi mettono un punto chiaro e fermo: sarà un congresso non convenzionale, più corto rispetto alla tradizione della sinistra. Un Congresso che vedrà Renzi ultrafavorito per un secondo mandato da segretario.
— Il punto di rottura
Essendo l’opposto di ciò che chiedeva la minoranza, i più decisi a prendere le distanze sono stati i politici facenti riferimento all’ex-segretario Pier Luigi Bersani. Non nominiamo in questa sede Massimo D’Alema: non era presente all’Assemblea di ieri e sembra muoversi su un ulteriore binario autonomo con il suo movimento ConSenso.
A nulla è valso l’appello di molti dei grandi “vecchi” del partito, come Piero Fassino: addirittura si è presentato sul palco Walter Veltroni, candidato di punta del PD alle elezioni del 2008 e fondatore del partito stesso; il suo punto principale è stato “abbiamo bisogno delle idee di tutti: fermate questa follia”. Non è bastato, come testimoniano i fischi e il brusio durante l’intervento di Guglielmo Epifani. L’ex segretario della CGIL era chiamato ancora una volta ad riassumere le sensazioni della minoranza in un discorso unico, ma il suddetto disturbo — sanzionato anche dal Presidente Orfini — fa capire che la scissione non è solo un fatto politico.
«Anche oggi nei nostri interventi c’è stato un ennesimo generoso tentativo unitario. Purtroppo caduto nel nulla. È ormai chiaro che è Renzi ad aver scelto la strada della scissione assumendosi così una responsabilità gravissima»
Comunicato a firma Emiliano-Rossi-Speranza al termine dell’Assemblea
Il trio Michele Emiliano, Enrico Rossi e Roberto Speranza ha rilasciato alla fine dell’assemblea una nota stampa piuttosto dura, che stride con l’intervento conciliante — e imprevisto, poiché aveva già parlato Epifani — dello stesso Emiliano (con tanto di stretta di mano con Renzi) avvenuto durante la plenaria. Tutti d’accordo, Renzi compreso, sulle elezioni nel 2018? Sembrava di sì. Ma gli sviluppi seguenti nella sera e l’eventuale scissione possono rimettere in gioco anche questo punto. C’è comunque un margine di indecisione relativo alla reale volontà. Tutti e tre vedrebbero l’abbandono come una sconfitta personale, oltre che politica. E hanno manifestato a denti stretti la volontà di rimanere aggrappati al PD — fino al momento in cui lo riterranno possibile.
Per concludere il racconto dei fatti, proprio stamattina si è tenuta la riunione delle minoranze. Una riunione che conferma la posizione dei bersaniani, sempre più lontani dal Partito Democratico, e conferma la distanza di Enrico Rossi, che a sua volta dichiara “Non ci sono più le condizioni per rimanere”. Emiliano e Speranza rimangono più cauti, in attesa di ulteriori segnali da parte della direzione del partito.
— Le conseguenze sul Governo
All’Assemblea c’era uno spettatore molto interessato, dai noti capelli brizzolati: Paolo Gentiloni. Non ha parlato, nel rispetto della sua decisione di stare fuori dalla bagarre politica. Una scelta in linea con l’incarico super partes che ricopre. Ma riecheggiano ora le dichiarazioni di Bersani nelle ore seguenti al giuramento di Gentiloni come Presidente del Consiglio dei Ministri: il Governo dovrà conquistarsi il nostro appoggio punto per punto.
E ora questa prospettiva assume connotati più realistici, nonostante nelle settimane passate Bersani avesse sostenuto — va detto, in coerenza con la sua posizione di Congresso fino a novembre — che il sostegno del PD al Governo dovesse rimanere indiscusso fino al termine della legislatura. Non sembra realistica l’idea che i deputati facenti riferimento alle aree di minoranza (una cinquantina, da verificare) possano mettere a rischio il Governo in un eventuale voto di fiducia, ma le conseguenze della bomba scoppiata negli ultimi tempi potrebbero propagarsi fino a Palazzo Chigi. Lo mettiamo tra virgolette, sottovoce: resta un’opzione sul tavolo, confermata dal fatto che da un lato Gentiloni rivendica la continuità con il suo predecessore, dall’altro ha dimostrato di saper camminare con decisione sulle proprie gambe.
Diversi tra le anime del Governo Gentiloni si sono adoperati per una mediazione, in primis il Ministro della Giustizia Andrea Orlando, capace di mettere in minoranza il suo capocorrente Orfini (proprio lui, il presidente) nella riunione dei Giovani turchi dei giorni scorsi. Per non citare il famoso fuori onda del Ministro delle Infrastrutture e dei Trasporti Graziano Delrio che ha criticato le modalità di gestione della crisi da parte di Renzi in un noto fuorionda. E anche Dario Franceschini, Maurizio Martina, Teresa Bellanova.
Lo stesso Orlando ha dichiarato che, se fosse necessario, potrebbe valutare l’ipotesi di una propria candidatura alla segreteria, al fine di condensare gli spunti emersi dall’area più a sinistra del partito. Come si diceva, Speranza al momento mantiene la sua posizione di candidato alla segreteria escludendo, di fatto, il Ministro della Giustizia. La mossa di Orlando appare dunque più simbolica che altro — ad ora — ma è rappresentativa del pensiero di una larga area del partito: tutti i litiganti devono fare un “sacrificio” per riuscire a rimanere insieme.
Se n’è parlato poco nelle ultime 48 ore, ma questi movimenti fanno capire che la scissione — non tanto dei dalemiani, detentori di ben poche poltrone in Parlamento, ma delle altre minoranze PD — e il futuro del Governo sono legati a doppio filo. Enrico Rossi ha aggiunto stamattina che il nuovo gruppo parlamentare che si formerà — tra gli ex membri di Sinistra Italiana facenti capo ad Arturo Scotto e i primi fuoriusciti dal PD di questi giorni— sosterrà il Governo senza se e senza ma. Ma, dopo mesi di veleni, dare questo per scontato è un lusso che è meglio non concedersi.
Difficile commentare questa situazione. La risposta forse l’hanno già data i cittadini, con alcuni crolli di tesseramenti registrati nel meridione e molte lettere ai principali quotidiani nazionali. Le parole ricorrenti? “Confusione” “amarezza”, “disgusto”. Non è difficile comprendere queste persone: in un momento in cui i contenuti dovrebbero essere al primo posto di qualsiasi agenda politica, le battaglie sulle virgole e su concetti astratti sembrano quantomeno fuori luogo. Non è questo articolo la sede opportuna per giudicare chi siano i carnefici e chi le vittime, ma una cosa è certa: non ci sono vincitori, perché negli ultimi due anni è stata sconfitta l’idea fondativa del Partito Democratico. Un semplice principio che si basava su quel “tutti per uno, uno per tutti” che rende bene l’idea di unità di squadra che le variegate anime della sinistra italiana si erano impegnate a rispettare.
È innegabile la profondità ideologica che deve animare progetti di questa caratura. In un mondo che sembra poter fare a meno di solide fondamenta di questo tipo, i dibattiti sulle “virgole” e non sul contenuto delle frasi possono essere ancora compresi dagli elettori? La risposta è forse evidente, ma preferiamo lasciare la parola ai fatti.
Dare la colpa di tutto questo a Matteo Renzi è facile è scontato. Condivide larga parte delle responsabilità, ma è imperativo uno sguardo più attento che porta a una sola risposta: il mondo cambia, la sinistra cambia. E la sconfitta del tradizionale schieramento socialista in tutta Europa deve fare riflettere soprattutto su quel “la sinistra cambia”.
Sarà la storia a giudicare — perché i fatti di questi giorni non saranno ricordati in quanto tali, ma in quanto chiara prova della fine di un progetto — quale dei due schieramenti abbia avuto l’intuizione migliore, e quale abbia interpretato meglio l’attuale contesto politico, profondamente mutato dai tempi della fondazione del PD e della nascita del progetto ulivista che ne è alla base.