Russia, un attentato che manda in crisi la sicurezza

L’evento, la ricerca del colpevole, l’impossibilità di prevedere i fatti. Cosa ci raccontano gli ultimi attentati?

La Bilancia
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5 min readApr 4, 2017

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Un’immagine della metropolitana di San Pietroburgo subito dopo l’esplosione.

A quasi due settimane dall’attentato che ha gettato nel panico la città di Londra, torna a farsi vivo l’allarme terrorismo. Questa volta ad essere colpita è stata la città russa di San Pietroburgo. Nella giornata del 3 aprile, verso l’ora di pranzo, un kamikaze si è fatto esplodere in un vagone della metropolitana causando 14 morti e una cinquantina di feriti, quasi tutti ricoverati. Inoltre una bomba inesplosa è stata successivamente ritrovata in un’altra stazione della metro, segno probabilmente di un attacco terroristico organizzato e non dell’azione solitaria da parte di un folle. Inizialmente si pensava che l’esplosione fosse stata causata da un ordigno artigianale nascosto abilmente sul convoglio alla partenza del treno, mentre successivamente le indagini hanno reso noto che i resti di un uomo “sono stati rinvenuti nel terzo vagone del treno della linea blu” e che “l’identità dell’attentatore è stata individuata ma al momento non verrà diffusa per ragione investigative”.

Chi e perché.

Nonostante le precauzioni nella divulgazione del nome del terrorista, quest’ultimo è stato individuato in Akbarzhon Jalilov, un 22enne russo originario del Kirghizistan, nato ad Osh nel 1995. Il suo DNA è stato infatti ritrovato sulla borsa contenente il secondo ordigno inesploso. Jalilov viveva ormai da sei anni a San Pietroburgo e aveva cambiato diversi passaporti, ottenendone anche uno valido per l’espatrio. Il suo nome è balzato agli onori della cronaca, prima come persona ricercata responsabile dell’attentato e successivamente come kamikaze, ipotesi considerata più probabile data la forza dell’esplosione.

Akbarzhon Jalilov, l’attentatore.

In precedenza altre tre persone erano state sospettate di avere connessioni con quanto successo alla stazione “Sennaya Poloshad”, la fermata della linea blu coinvolta nell’attacco. Si tratta di Anwar Zhainakov, un giovane originario della Baschiria, repubblica russa del distretto del Volga; di uno studente del Kazakistan, Maksim Arishev, il cui coinvolgimento è stato però escluso dalle autorità di Astana, secondo le quali il ragazzo non è tra le persone decedute nell’attentato e di un uomo la cui immagine era stata diffusa dai media russi come quella di un presunto responsabile dell’esplosione. La persona in questione si è però presentata immediatamente alle autorità dichiarando la propria estraneità ai fatti. L’uomo compariva in alcuni fermi immagine, che i media descrivevano come provenienti dalle telecamere di sorveglianza, e appariva di mezza età, con la barba scura, vestito di nero e con un cappello dello stesso colore. Scartate queste possibilità si è giunti poi al nome di Akbarzhov Jalilov. Il giovane è stato individuato attraverso la visione di immagini registrate dalle telecamere di sorveglianza, le quali hanno documentato la sua presenza nella metropolitana russa il giorno dell’attentato. Secondo la Tass — l’agenzia di stampa ufficiale russa — il ragazzo avrebbe avuto diversi contatti con dei connazionali combattenti in Siria. Una tesi, stando sempre all’agenzia, avvalorata dal fatto che il Kirghizistan è una delle ex repubbliche sovietiche di provenienza di molti “foreign fighters” andati a combattere in Siria sul fronte dell’Isis. Persone che abbracciano l’ideologia forte che trovano nell’Isis e che terminato l’addestramento tornano nel Paese di provenienza per colpire.

Quando l’incertezza fa da padrone.

L’ennesimo attentato, benché non ancora rivendicato dall’Isis, pone come sempre un forte accento sul problema sicurezza. Problema che gli Stati si portano dietro da tempo. Gli attentati più recenti hanno infatti delle caratteristiche comuni che mandano in crisi gli attuali sistemi di sicurezza. In primis l’impossibilità di prevenire e prevedere questi atti di violenza e in secondo luogo la loro rapidità d’esecuzione.

Una foto dell’attentato di Westminster, Londra.

Il tutto unito al fatto che spesso gli attentatori sono spinti da motivazioni anche personali, unendo dunque il proprio obiettivo a quello di un’organizzazione più grossa, senza però un piano definito e determinato. Subito si innescano dei meccanismi che coinvolgono da un lato i media, alla ricerca di un responsabile da dare in pasto al pubblico in cerca di risposte, dall’altro gli investigatori, i quali non avendo punti di riferimento spesso individuano più di un possibile colpevole per arrivare solo successivamente alla risposta corretta. Esattamente quanto si è verificato in questo caso e in quello relativo all’attacco a Westminster.

Sicurezza, un problema primario.

Urge quindi trovare una soluzione, anche se ovviamente non sarà semplice. Proprio in ambito anti-terrorismo, di recente gli Stati Uniti d’America, subito seguiti dal Regno Unito, hanno adottato nuove misure entrate immediatamente in vigore.

Al bando sugli aerei i dispositivi elettronici che non siano smartphones

Si tratta del cosiddetto “Electronics ban”, voluto da Donald Trump, ovvero il bando di dispositivi elettrici più grandi di uno smartphone, che non potranno più essere portati con sé in cabina sui voli diretti negli Stati Uniti da diversi Paesi del Medio Oriente e dell’Africa settentrionale. Alti funzionari dell’amministrazione USA hanno riferito che il provvedimento è stato suggerito da valutazioni dell’intelligence, secondo cui gruppi terroristici come Al Qaeda e Al-Shabab stanno tentando di inserire esplosivi nei dispositivi elettronici portatili. Sulla base di queste informazioni il segretario per la Sicurezza Nazionale, e l’amministratore della “Transportation Security Administration” hanno stabilito la necessità di implementare le procedure di sicurezza per i passeggeri in arrivo. Le disposizioni adottate dalla Gran Bretagna sono simili a quelle adottate dagli statunitensi. Le restrizioni in questo caso riguarderanno i voli da e per Turchia, Libano, Giordania, Egitto, Tunisia e Arabia Saudita.

Se tutte queste misure possano bastare non è dato sapersi, anche se probabilmente non sarà così. La continua imposizione di divieti è sempre un passo indietro rispetto a chi attacca. Prevenire è difficile, se non impossibile, soprattutto quando si tratta di azioni solitarie, che vengono da persone che conoscono e abitano il territorio

Marco Sacchi

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