Ante vigiliam

Elena Selmi
La Bohème
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4 min readJan 30, 2021

Lunedì si torna a scuola. Dopo mesi, proteste, frustrazione, siedo con trepidazione alla mia scrivania, pensando a Via Respighi. Sono cambiate molte cose dal mio ultimo editoriale, l’ho riletto di recente e non mi ci sono più ritrovata; se c’è una cosa che gli ultimi dodici mesi mi hanno insegnato, è di non ritenere mai troppo rigide le posizioni di nessuno.
Perfino il Leonardo (nonostante la segretezza misterica con cui è stata mantenuta negli ultimi anni la notizia dell’esistenza di un collettivo) ha organizzato un presidio; i licei di mezza Milano hanno occupato. Un sondaggio è stato fatto girare tra gli studenti della nostra scuola per conoscere il grado di approvazione per l’azione intrapresa e il 60% circa di coloro che hanno risposto si sono dichiarati contrari. Nonostante quello che (mi) ripeto da anni, il risultato mi ha molto sorpreso, perché pensavo che almeno in questo caso fossimo tutti d’accordo nel prendere in mano torce e forconi. Chiedendo un po’ in giro, ho riscontrato la reticenza dei ragazzi più giovani: la maggior parte non riteneva utile protestare, perché un rientro a scuola nelle condizioni attuali non sembrava loro diverso da quello di settembre. Che senso aveva, quindi?

Il senso di tutte le manifestazioni: catturare l’attenzione. Nessuno chiedeva il rientro a scuola e basta, nessuno si aspettava né voleva una riapertura che non garantisse condizioni di massima sicurezza; ma testardamente, con perseveranza, mi rifiuto di pensare con ingenuità, si chiedeva attenzione. Il fatto che molti ragazzi non abbiano compreso questo punto, perché tanto lontano da loro da non essere immaginabile, non è che l’ultimo sintomo del fallimento totale di questo Stato nei confronti della scuola.
Il mio stroncamento è irrecuperabile. Sebbene siano anni che si parla — e basta — dei problemi dell’istruzione pubblica, non mi ero mai resa conto di quanto la situazione fosse senza speranza. Non mi ero mai resa conto con che noncuranza e indifferenza, non appena la nave avesse iniziato ad affondare, la prima zavorra a essere gettata in mare sarebbe stata la scuola. In Lombardia, tolte le 4 settimane di settembre, siamo stati chiusi continuativamente per 11 mesi, per la precisione dal 22 febbraio dell’anno scorso. Nel resto d’Europa, gli studenti sono rimasti a casa per poche settimane la scorsa primavera, per poi ritornare e continuare mentre il resto del paese era in lockdown totale. In Inghilterra, nonostante i pesantissimi colpi inflitti tanto dalla pandemia quanto dalla crisi aperta dalla fine della fase di transizione della Brexit, gli istituti superiori non hanno chiuso che a inizio gennaio 2021. Nessuno in Italia, a eccezione di noi, studenti e insegnanti, sembra essersi reso conto, se non per momentanei e inutili istanti di buona coscienza, di quale catastrofe questa sia stata e sarà. La didattica a distanza non è mai stata un’alternativa vera, bensì una misura emergenziale; considerarla come panacea di tutti i mali è l’errore che la classe politica ha commesso e continua a commettere.

Ci sono studenti, nella nostra stessa scuola, che non hanno mai incontrato dal vivo insegnati e compagni di classe; ci sono ragazzi che hanno perso mattoni fondamentali per la loro crescita, per la costruzione degli individui che saranno in futuro. Quel futuro che è diventato lo slogan associato alle polemiche sul debito pubblico e non la consapevolezza dell’incremento mastodontico dell’abbandono scolastico che vedremo probabilmente nei prossimi anni; quel futuro di cui tutti ci indicano come responsabili, ma cui la classe dirigente (mi fa ridere chiamarla così) di questo Paese non dedica un minuto di più, impegnata a pensare a quali misure possano fare piacere a chi, nell’immediatezza di governi eternamente traballanti[1], si recherà alle urne.
Non contiamo nulla, perché non abbiamo voce in capitolo. E per questo bisogna protestare. Perché le dosi che da piano vaccinale verrebbero consegnate all’Italia in una settimana[2] basterebbero a immunizzare tutti i docenti del Paese; perché invece che spendere tempo a disegnare fiorellini rosa sui siti del Ministero, si potrebbe prendere in considerazione la posizione condivisa da alcuni medici di vaccinare presto i giovani, perché quelli con la vita sociale più attiva e mediamente diffusori asintomatici del virus. Ma a nessuno sembra importare che il livello di febbre di uno stato (per citare una metafora che piaceva molto ai telegiornali durante la prima ondata) sia dato dalla situazione nelle strutture scolastiche; nessuno sembra realizzare che, al di là dell’economia, uno dei parametri fondamentali su cui si calcola l’Indice di Sviluppo Umano di un paese è l’Istruzione[3]. Antonio Di Bella, inviato Rai negli Stati Uniti, in occasione dell’assalto a Capitol Hill dello scorso 6 gennaio, aveva sostenuto significativamente che “l’America è la prima potenza… del terzo mondo”. L’Italia non è neanche quello.

[1] Quando questo editoriale è stato terminato, con sorpresa di sostanzialmente nessuno, il governo Conte bis era caduto ed erano in corso le consultazioni con il Presidente della Repubblica.
[2] Sempre durante la stesura di questo testo è stato approvato il vaccino Astrazeneca, per cui il numero di dosi disponibili a settimana sarebbe dovuto aumentare.
[3] Nel 2019, L’Italia era il 29esimo paese al mondo per ISU: rientra nei paesi a “ISU alto”, ma non “molto alto” come diversi altri stati europei.

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Elena Selmi
La Bohème

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