Intervista a Giorgio Armani
Di Caterina Dal Ben, Alessandra Gomez, Elisabetta Moiana
Leonardiani, forse non tutti sapete che il celebre stilista di fama mondiale Giorgio Armani è anche un ex allievo del nostro stesso liceo! Speranzose di una risposta, abbiamo deciso di intervistarlo per scoprire alcuni suoi ricordi legati al periodo liceale ma anche alcune sue idee sul presente. Vi presentiamo dunque le sue risposte alle nostre domande:
Come mai ha deciso di frequentare il liceo scientifico? La sua passione per la moda era già sbocciata durante il periodo del liceo?
Da Piacenza ci trasferimmo a Milano alla fine degli anni Quaranta. Ci arrivai reduce da un primo, non felicissimo, anno di liceo scientifico. L’indulgenza di una dolce professoressa, che ricordo con riconoscenza, aveva evitato che fossi rimandato agli esami di ottobre. Dopo l’anno passato al Liceo Scientifico Lorenzo Respighi di Piacenza, feci infatti gli ultimi quattro a Milano, al Leonardo da Vinci. Ero pieno di voglia di fare, ma non sapevo in quale direzione. La moda non faceva parte per nulla, almeno in modo chiaro, del mio essere. Vivevo una certa inquietudine per tutto ciò che vedevo attorno. Una specie di insoddisfazione un po’ in tutti i campi. Ero spesso definito come “quello mai contento e scontento di tutti”. Ma del fuoco sacro della moda, quello di cui si parla quando si motivano le scelte di un creativo del settore, nemmeno a parlarne. So che quanto sto dichiarando può provocare una specie di delusione in chi si aspetterebbe il contrario, ma voglio essere sincero. All’epoca non c’era alcun tipo di legame con la moda stessa e tantomeno avevo mai respirato l’aria di un atelier.
Aveva una materia preferita? E oggi, c’è una passione che magari ancora coltiva oltre alla moda?
Studiare non era facile per me, così distratto e forse consapevole di non aver scelto la strada giusta. Le materie umanistiche mi avrebbero sicuramente tenuto più volentieri sui libri. In questi quarant’anni non c’è stato tempo se non per il lavoro. Non ho coltivato altri giardini. Ho avuto un rapporto necessariamente maniacale con il mio lavoro e forse ho peccato, talvolta, di un perfezionismo quasi ossessivo, cercando di avere sempre il controllo su tutto. È incapacità di delegare? Sì, certo, ma più un mestiere è creativo, più è difficile spiegare a un altro quello che vuoi, anche perché tante volte tu stesso ancora non lo sai.
Ci sono dei prof di cui si ricorda ancora? Cosa le hanno lasciato?
Al liceo studiavo il francese e ricordo il professore, un vero sosia di Giuseppe Verdi. Lo trovavo estremamente crudele quando leggeva i voti dalla sua cattedra e, dicendo il mio nome, più di una volta capitò che dicesse: “Armani, migliorato: zero più!”. Un grande schiaffo al mio amor proprio. Non ho mai capito perché lo facesse. Forse mi considerava un fannullone, forse mi valutava carente nell’apprendere quella bellissima lingua, ma alla fine dei quattro anni io avevo imparato il francese.
Quando è stata la sua prima sfilata? Che emozioni l’hanno accompagnata?
In quarant’anni di carriera, nulla è cambiato: la sfilata è il momento magico, l’ansia da prestazione, la prova del nove. Mi procura una grande emozione: la stessa degli inizi, nonostante ormai ne abbia affrontate centinaia. Non mi scompongo, anche perché detesto chi si fa prendere dall’isteria, ma l’agitazione c’è: non certo per l’insicurezza su quanto ho creato — da sempre credo fermamente nelle mie idee e non ho paura di portarle avanti, costi quel che costi — ma perché sfilare è un po’ mettersi a nudo, se mi si passa il paradosso, visto che non di nudità stiamo parlando, ma di vestiti. È un po’ come sostenere, ogni volta, l’esame di maturità, davanti a un pubblico fatto di giornalisti e compratori, e poi anche di amici, star, collaboratori che non vuoi deludere. Mi sembra ogni volta di non aver paura di farlo, fino all’attimo in cui la prima modella esce in pedana: da quel momento in avanti si fa vivo in me il dubbio di non esserci riuscito. C’è l’incognita, ci sono le critiche e gli attacchi, che se pur contenuti — sicuramente per una forma di rispetto — la mia sensibilità registra. Si lavora a porte chiuse per sei mesi, per incontrare dopo, con la sfilata, l’occhio e il giudizio del pubblico. È quell’istante magico e spettacolare in cui gli abiti, su indossatori e mannequin, diventano vivi, acquistano presenza. La sfilata è il messaggio che lanci al mondo: il primo, il più forte.
A causa dell’emergenza sanitaria, la sua ultima sfilata, “Timeless Thoughts”, si è svolta a porte chiuse e in diretta TV. Questo ha permesso a tutti di entrare in contatto con una sfilata di moda, pensa che ci siano stati altri aspetti positivi? Cosa invece si è perso? Come si è sentito durante la sfilata?
L’ultimo decennio è stato di apertura, su tutti i fronti, almeno nella comunicazione, basti pensare al digitale. Io ho voluto spingere il processo un po’ più in là, perché se non tutti posseggono uno smartphone o un computer, magari solo per limiti di età, quasi tutti posseggono una tv. Il mezzo televisivo, inoltre, distrae meno del digitale, ed è domestico, intimo. Arriva in tutte le case, senza problemi di linea. Se democrazia deve essere, che sia vera.
C’è qualcosa in particolare che l’ha spinta a non mollare?
La moda per me è un mestiere, fatto di fantasia e concretezza, di intuito e rigore, di slancio e controllo. Non ha nulla di divino o sensazionale, ma ha un impatto incredibile sulla vita quotidiana. Nella mia visione di inventore pragmatico, non nasce dal canto delle muse, da uno stordimento poetico, da un raptus creativo. Fare moda vuol dire elaborare un’idea coerente di bello e condividerla con il tuo pubblico, tenendo conto delle diverse realtà della vita contemporanea. Se si è davvero attenti, se si riescono a intercettare anche i più piccoli segnali, che sono lì ad attenderti, in ogni istante, i bisogni del pubblico li si avverte ancora prima che si manifestino, e si gioca d’anticipo, identificando i cambiamenti della società. Mi è successo all’inizio della mia storia. Ero un giovane uomo che, come tutti, viveva il fermento di un decennio di rivolgimenti radicali. Tutto cambiava, dappertutto, velocemente. Le donne si emancipavano. Gli uomini abbandonavano gli schemi e le regole che erano stati dei padri. Intorno, si contestava. A ripensarci, era un momento tanto eccitante quanto difficile: succede sempre nelle fasi di passaggio, quando alle vecchie certezze se ne sostituiscono di nuove e tutto sembra vacillare. Eppure mi resi conto che l’emancipazione, femminile e maschile, sarebbe stata solo una stupenda teoria, una rivoluzione a metà, se ai proclami e ai progressi non fossero corrisposti nuovi atteggiamenti. Quegli atteggiamenti sarebbero nati, ne ero certo, anche dal modo di vestire.
Tornando al Leonardo, c’è un aneddoto o un ricordo in particolare del suo periodo al liceo che vorrebbe condividere?
Mi ricordo quando finalmente arrivai all’esame di maturità. Ero l’ultimo della lista. Era una giornata stupenda di fine luglio, il cielo era limpido. Guardavo dalla finestra gli aerei che si dirigevano verso chissà quale luogo di piacere. Avevo una gran voglia di scappare. Non so se l’insegnante si rendesse conto del mio stato d’animo, ma come per agevolarmi mi chiese: “Ci parli dei venti” e io titubante: “I venti sono quelle cose…”, ma non feci neppure in tempo a spiegare, che mi disse: “Grazie, Armani. Ci vediamo a settembre”.
Per concludere, alla luce dell’attuale situazione di pandemia, c’è un messaggio o un consiglio che vorrebbe lasciare a noi giovani?
Nella moda come in qualsiasi altro lavoro la creatività è certo fondamentale, ma da sola non basta. Per trasformare un’idea e renderla concreta occorrono gli strumenti e il mestiere. E occorre, ancor prima, il desiderio di impegnarsi ad apprendere, applicandosi giorno dopo giorno. Le innovazioni, quelle vere, partono dallo studio e dalle intuizioni che si trasformano in progettualità. Concludo dicendo che per sognare e inventare bisogna saper fare. Vi auguro dunque di lanciarvi nella vostra grande avventura professionale con entusiasmo e passione, ma vi raccomando solo di farlo usando il mestiere come trampolino e con una grande dose di modestia.