Intervista a Nello Scavo

La Boheme Redazione
La Bohème
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14 min readJun 7, 2023

dei Direttori

Durante la nostra permanenza al CISS — di cui abbiamo parlato nell’editoriale — abbiamo avuto modo di intervistare Nello Scavo, lo speciale inviato di Avvenire che negli anni ha indagato sulla criminalità organizzata e il terrorismo globale, realizzando servizi da tutte le zone più “calde” del mondo negli anni Duemila. Ha collaborato con le più grandi testate internazionali, quali The New York Times, The Guardian, La Croix, El Mundo e molti altri. Sono esemplari i suoi servizi a Kiev per la guerra in russo-ucraina, nelle catacombe in Siria nel 2016, nelle navi di scafisti sul Mediterraneo nel 2017, sulla Sea Watch 3 nel 2019 e sui traffici illegali libici nel 2019. Gli sono stati inoltre riconosciuti innumerevoli premi, tra i quali il Premio CIDU per i Diritti Umani, il Premio Colomba d’oro per la Pace e il Premio per la Libertà d’Informazione. Buona lettura!

Nello Scavo

1) Per iniziare, quali sono i tuoi metodi di indagine e come riesci a raggiungere sempre luoghi così “caldi” dal punto di vista politico?

«Premetto che sono un giornalista fortunato, perché ho cominciato a fare questo mestiere molto presto, a diciannove anni, nel giornale della mia scuola in provincia di Catania. Tuttavia, non avevo mai detto a nessuno che avrei voluto fare il giornalista, perché a Catania nel 1990 era più facile intraprendere la carriera di rapinatore che di giornalista.

Quindi è cominciato tutto così, e dopo un po’ di anni di precariato, nel 2001 ho ottenuto un lavoro in una testata stabile. Dunque, si decide insieme al giornale — al direttore e ai caporedattori — dove andare e soprattutto ho le spese di viaggio tutte pagate, mentre per i primi anni non erano garantite.

Non sempre vado dove vorrei, poiché si decidono le mete a seconda di diversi criteri non sempre dipendenti dal mio volere. Per esempio, l’evento che mi ha impegnato di più nell’ultimo anno, la guerra in Ucraina, non è stato una mia scelta: il 19 di febbraio del 2022, il caporedattore centrale mi ha chiesto di andare a dare un’occhiata in Ucraina perché l’aria si stava scaldando molto e quindi il 21 febbraio sono arrivato a Kiev.

Quando posso scegliere dove andare, lo faccio in base alle notizie che ci sono o che si stanno sviluppando, perché a un giornale preme raccontare qualcosa che interessi il pubblico: la notizia, infatti, è quel fatto che ha una relazione con il pubblico e più questa relazione è profonda, più persone coinvolge, e dunque anche più lettori e acquirenti, perché dobbiamo anche rifarci alle leggi del mercato; oppure questa relazione può anche coinvolgere un basso numero di persone, ma si rivela lo stesso interessante per le ricadute che può avere sulla vita di tutti.

Allora la sfida che ogni volta mi pongo è quella di cercare di anticipare la notizia, di arrivare prima che le cose accadano: può sembrare una scommessa spericolata, e talvolta la perdo anche, perché magari vado verso un luogo che mi sembra “caldo” e poi non succede nulla di quanto aspettato. Tuttavia, se si è giornalisti molto curiosi e appassionati, anche quando non si verifica lo scoop previsto, si riescono a trovare dei dettagli, una notizia, qualcuno da intervistare ovunque si vada.

In conclusione, nel mio lavoro mi occupo principalmente delle crisi umanitarie: sono impropriamente definito un corrispondente di guerra, perché è vero che spesso mi trovo in zone di guerra, ma lo faccio per seguire le crisi umanitarie e, nel decidere dove andare, cerco sempre di capire prima se in una certa area si stanno verificando dei processi e dei meccanismi che rischiano di provocare queste crisi».

2) Vorremmo continuare parlando del tema dell’immigrazione: dopo dieci anni di sbarchi, può essere ancora trattata come un’emergenza?

«”Dieci anni di sbarchi” ve lo perdono perché siete giovani e vi siete accorti dopo, beati voi! La premessa è questa: quando faccio un cruciverba — sempre una prova per capire quanto sono ignorante — dopo poco, non riuscendo a finirlo, inizio un altro gioco, unisci i puntini. Non mi posso sbagliare: prendo la matita, seguo i numeri, lo completo e penso che, guarda un po’, l’immagine era proprio sotto i miei occhi. A noi giornalisti, inutile girarci intorno, piace lo scoop, ci piace trovare la notizia che nessuno ha scovato, meglio ancora se si tratta di un’informazione riservata o di un documento segreto.

Tuttavia non capita spesso: molte volte la notizia è sotto il nostro naso, solo che la bulimia e il bombardamento informativo ci portano a essere talmente martellati dalla quantità di informazioni che non riusciamo poi a fare una selezione. Allora unisci i puntini è un po’ il lavoro del giornalista: deve scavare in profondità, nelle viscere delle cose, grattare la superficie per vedere cosa c’è sotto per provare, dentro a questa massa di puntini, a definire l’immagine.

La crisi migratoria è esattamente questo. Per tanto tempo ci siamo occupati della migrazione raccontando dei barconi che arrivano, del problema degli scafisti, di chi sono e di che cosa fanno a bordo. Poi però abbiamo iniziato a chiederci: “Chi organizza i viaggi? Da che cosa scappano? Come mai hanno un certo tipo di ferite addosso?”. Allora ho cominciato a ragionare sulla necessità di approfondire di più su questo grande traffico di esseri umani.

Non tutti sanno che il numero di migranti nel mondo, in questo momento, è di 250 milioni. Bisogna poi aggiungere i profughi di guerra che, prima della guerra in Ucraina, erano 88 milioni, oggi sono 100 milioni. Quindi, se 12 milioni sono gli ucraini, gli altri 88 chi sono? L’Alto Commissario ONU per i rifugiati, Filippo Grandi, precisa che questo numero è il più alto mai registrato da quando si prende nota di questi dati, perciò dalle guerre settecentesche in poi.

Allora, se 100 milioni sono i profughi di guerra, ed è un numero superiore addirittura a quello della Seconda Guerra Mondiale, perché non percepiamo un’emergenza? Perché la guerra è macerie, polvere, bombardamenti: è il grande inganno dentro al martellamento informativo, ossia farci indirettamente credere che, tutto sommato, noi viviamo in un mondo pacificato, in quella parte del globo dove la guerra più vicina è quella in Ucraina. Invece i conflitti in Libia, in Yemen e in molti altri Paesi sono vicinissimi.

Nel 2015 abbiamo scoperto, con un’inchiesta giornalistica ripresa dal New York Times e da altre testate internazionali, che il principale esportatore di bombe aeree utilizzate dalla Coalizione Saudita, alleanza che combatte nello Yemen, è l’Italia, e che lo è stata fino a circa un anno e mezzo fa. E le armi, come saprete, devono essere esportate con l’autorizzazione dei governi. I governi italiani di ogni colore hanno sempre autorizzato le esportazioni, fin quando è scoppiato questo scandalo: ma nessuno sapeva chi avesse firmato l’autorizzazione, ovviamente.

Questa faccenda è importante perché, nel caso dello Yemen, si alterano i flussi migratori: all’incirca 150mila africani del Corno d’Africa si trasferivano ogni anno nella penisola araba prima del conflitto. La guerra dello Yemen, considerata dalle Nazioni Unite la peggiore crisi umanitaria del nostro tempo, chiude questa porta d’accesso, e il numero di migranti si riduce a 30mila all’anno.

Naturalmente, i trafficanti di esseri umani sfruttano i nuovi flussi migratori dovuti a questa situazione, che causa oltre 50mila migranti di ritorno dallo Yemen. Il flusso ricade soprattutto sulla Libia, il grande inferno dell’Africa Settentrionale per i migranti. Questo inevitabilmente ha fatto aumentare la pressione migratoria sui Paesi come l’Italia. C’è una correlazione diretta tra l’economia di guerra, lo spostamento dei migranti e la decisione delle persone di proseguire su una rotta oppure sceglierne un’altra in funzione dei conflitti.

La situazione è molto complessa e l’opinione pubblica, insieme alla politica, spesso cerca di affrontarla in modo semplice: è facile dire “chiudiamo i porti”, “aiutiamoli a casa loro”; ma che cosa c’è dietro questo sistema d’interessi e che cosa sta accadendo realmente? La difficoltà del giornalismo moderno è questa, ossia riuscire ad arrivare in fondo alle storie e trovare persone interessate a leggerle».

«La disinformazione ha questo effetto: è soporifera sulle nostre coscienze».

3) Che ruolo ha l’Italia rispetto ai flussi migratori? Si dice sempre che tutti i migranti arrivano in Italia e non vengono distribuiti nei vari Stati, ma qual è la situazione reale?

«Ho sempre considerato questo tema come la più grande arma di distrazione di massa, perché, nonostante abbiamo attraversato una serie di difficoltà, si è deciso di far ricadere la colpa su specifiche persone.

Penso che l’Europa abbia agito molto male: l’Unione Europea è composta da più di 400 milioni di abitanti in 27 Paesi, l’Europa geografica da oltre 700 milioni. Quindi, quando arrivano 50mila persone, pensate davvero che “non si trovi posto”? Su 27 Paesi capite che è un numero sopportabilissimo.

Nel frattempo, questo tema è diventato divisivo, perché “ci rubano il lavoro”, “la nostra identità è minacciata”, perché sono portatori di una religione diversa dalla nostra. Il numero complessivo di stranieri in Italia è di circa 5 milioni, si parla del 10% della popolazione italiana. Delle volte, quando leggo i giornali sembra che la proporzione sia al contrario: vediamo tutto molto sproporzionato. Ciò non vuol dire che il problema non esista, anzi.

Sappiamo che in Libia ci sono campi di prigionia statali, pensate che, nel 2017, ci sono stati degli accordi tra le autorità italiane ed esponenti della mafia libica, accordi che siamo riusciti a documentare solo due anni dopo, attraverso foto ottenute da alcune fonti riservate. Inizialmente sembrava che nessuno sapesse niente. L’impegno chiesto a questi signori era di trattenere i migranti in Libia in cambio di denaro. Noi li finanziamo, e, da un Paese che ha firmato la Condizione di Ginevra sui diritti dell’uomo, ci si aspetterebbe la richiesta di un trattamento dignitoso verso i migranti, cosa che non è avvenuta.

Succede che nel 2017 viene uccisa a Malta con un’autobomba Daphne Caruana Galizia, giornalista e blogger maltese, perché aveva capito che i personaggi coinvolti nel traffico di esseri umani in Libia erano coinvolti anche nel contrabbando di petrolio dalla Libia verso l’Europa e stavano lavorando con esponenti politici e dell’alta finanza maltese e internazionale.

All’inizio non si era capito il motivo di tale omicidio, dopodiché si è preso il presunto mandante ancora sotto processo, e, quando ci siamo messi a lavorare sui personaggi libici, siamo arrivati agli assassini di Daphne Caruana Galizia. Daphne viene uccisa perché sola, perché nessuno condivideva con lei quella parte del lavoro che stava svolgendo.

L’errore che noi abbiamo cercato di non commettere è proprio questo: nel 2019 ho pubblicato la notizia di questo negoziato tra Italia e Libia, ricevendo dei messaggi poco amichevoli, che ho tenuto per me senza informare nessuno. A casa però ho trovato la Digos, che mi ha annunciato che da quel momento sarei stato sotto scorta.

È avvenuta in modo naturale, poi, la creazione di una sorta di network internazionale tra giornalisti per cui, quando acquisisco un’informazione, rinuncio a volte allo scoop e condivido con i colleghi la notizia; lo stesso fanno i colleghi con me. Questa cosa mette effettivamente in difficoltà questi gruppi mafiosi, poiché, anche se toccano me, non concludono comunque niente.

Noi ovviamente percepiamo una grande tensione, però sappiamo di non essere soli. Come diceva il giudice Giovanni Flacone, le mafie usano un metodo sempre uguale: prima ti isolano, poi ti screditano e in qualche modo convincono l’opinione pubblica che sei pazzo o poco autorevole. È ciò che è accaduto a Daphne Caruana Galizia.

Per noi oggi il giornalismo è soprattutto condivisione, per cui, se trovo uno scoop, è meglio che lo porti avanti insieme ad altri colleghi, perché non conta la mia notorietà, ma quella della notizia. Torna il principio essenziale iniziale: se io credo davvero che la notizia abbia una relazione così importante con il pubblico devo essere disposto anche a trovare dei canali di informazione più ampi possibili, affinché si possa andare in profondità nella comunicazione e provi anche a salvarsi la vita».

Nello Scavo intervistato al CISS

4) Un discorso altrettanto complicato è quello della figura dello scafista: sono davvero loro il problema o sono il capro espiatorio?

«Lo scafista è l’ultima ruota del carro. È come lo sgarrista, che, nella consuetudine mafiosa, è il ragazzino a cui si chiede di fare “il dispetto” a qualcuno per fargli arrivare un certo messaggio. È quello che di notte, per esempio, lasciava la tanica di benzina davanti alla saracinesca di un negozio per far capire al proprietario di doversi “mettere a posto”, come si diceva a Palermo.

Questo è lo sgarrista: il punto è che molto spesso non sa chi è il capo dei capi, perché le organizzazioni criminali lavorano per compartimenti stagni in modo che l’ultimo non sappia chi comanda.

Lo scafista va perseguito? Sì, non c’è dubbio, però attenzione: c’è lo scafista turco che sta sul veliero, lo dirige verso le coste italiane e si fa pagare, e c’è magari il ragazzo somalo a cui magari dicono: “Tu non hai soldi per pagarti il viaggio, quindi prendi il controllo del gommone e dirigiti verso nord. Questo è il percorso da evitare; questa è la bussola”.

Perciò gli scafisti altroché se vanno perseguiti, tutti, indistintamente; il punto però è che non possono pagare solo gli scafisti, bisogna arrivare ai padroni del traffico di esseri umani, perché sono quelli che la fanno franca.

Allora il problema diventa un altro: non dobbiamo accontentarci di una comunicazione che si risolve semplicemente con “hanno preso gli scafisti”, “gli scafisti hanno fatto morire della gente”. Certo, se hanno fatto morire della gente devono pagare, però chi è il capo dell’organizzazione? Come puoi mobilitare sulle coste libiche o su quelle tunisine dieci barche a settimana senza che nessuno se ne accorga? Chi sono i fornitori, per esempio, dei motori? E i produttori?

Una volta abbiamo fatto un’inchiesta, poiché alcuni ragazzi erano arrivati dalla Libia a Pozzallo, in Sicilia, con un motore diverso da quello iniziale. Abbiamo faticosamente ricostruito che il gommone era entrato nelle acque territoriali maltesi, dove delle motovedette maltesi, per non soccorrere i migranti che si erano gettati in acqua e non farli entrare nel Paese, avevano installato un motore nuovo Yamaha da 60 cavalli e li avevano indirizzati verso l’Italia.

Si tratta di una violazione enorme del diritto internazionale per mancato soccorso, respingimento e oltretutto violazione dei patti di vicinato tra Paesi. Che poi i satelliti e gli aerei ufficiali non vedano tutte queste cose fa sorridere chiunque.

Ora, il punto qual è? Noi attraverso siamo risaliti al fornitore e al venditore del motore, un sito cinese. Perché un’indagine di giornalisti in una settimana riesce a risalire a venditori e acquirenti e le forze di polizia no? Evidentemente conviene tenere coperto tutto questo traffico. Allora noi continueremo a litigare su quelli che arrivano, “li arrestiamo”, “sono cattivi”, “si comportano male” e tutte queste cose qua, e io continuerò invece a raccontare che cosa succede alle loro spalle.

Questo perché mi pongo il problema “democrazia”: sappiamo che la mafia libica in questo momento può decidere come spostare l’elettorato italiano: se decide di far partire un numero esponenziale di barconi e un politico ha promesso che con il suo governo sarebbero diminuite le partenze dalla Libia, i suoi elettori si indigneranno. Allora dovrà pagare di più per convincere i trafficanti a non fargli fare brutta figura. In fin dei conti, quindi, è messa in discussione la salute della democrazia, perché, tra l’altro, se ai giornalisti è impedito di fare il proprio lavoro, si sta impedendo a un certo numero di elettori di essere informati, e questo è il problema più grave».

«È il grande inganno dentro al martellamento informativo, ossia farci indirettamente credere che, tutto sommato, noi viviamo in un mondo pacificato».

5) Sappiamo che sei stato nelle prigioni libiche di cui si è tanto parlato, com’è effettivamente la situazione lì?

«Vi posso dire questo: ho ricevuto il mio ultimo rapporto e non posso più andare in Libia, per le ragioni che vi ho spiegato. La prima cosa che mi hanno detto i magistrati è stata: “Tu in Libia non ci metti più piede”. Ho ricevuto anche l’ultimo rapporto sulla Libia del Segretario Generale delle Nazioni Unite, che descrive una situazione infernale. È tutto raccontato per filo e per segno.

Quindi il punto è questo: se lo Stato usa i miei soldi per fermare i flussi migratori ma lascia che le persone vengano abusate in quel modo, io non ci sto. Sono disposto a chiudere un occhio sul diritto internazionale, che in realtà dice che bisognerebbe valutare caso per caso, chi deve attraversare, chi deve arrivare nei Paesi sicuri e chi no. Però su una cosa non sono disposto a transigere; voglio la certezza che a nessuno venga fatto del male, con i miei soldi. In questi anni è successo esattamente il contrario e questo in qualche modo ci ha resi complici, o perché non ci siamo informati abbastanza, o perché ci siamo girati dall’altra parte.

Quando ero un giovane cronista in Sicilia, era ancora il periodo post seconda guerra di mafia, nel ’92. Nella provincia di Catania, dove io avevo appena iniziato a fare il cronista, c’erano stati, se non ricordo male, sessanta morti ammazzati in meno di tre mesi, una cosa da guerra. E ogni tanto capitava che qualcuno mi dicesse: “Però, per favore, devi essere più obiettivo, più oggettivo, meno emotivo di quello che racconti.” Poi succedeva che questo qualcuno finiva in galera o al 41bis. Allora io capivo che, probabilmente, non mi chiedevano di essere oggettivo od obiettivo, mi chiedevano semplicemente di tirarmi dall’altra parte, e così accade anche con i diritti umani, con i conflitti contemporanei. Allora, se vogliamo affrontare questo tema, dobbiamo affrontarlo dalla radice.

Però, mentre le persone stanno in Libia, dobbiamo porci il problema di come vivono in Libia. Poi affrontiamo il resto; c’è una questione culturale che ci riguarda: lo scorso anno, durante le prime settimane di conflitto in Ucraina, al confine con la Polonia si sono formate due file: da una parte sono tutti bianchi, profughi ucraini; dall’altra parte un’altra fila che non procedeva, che si bloccava, e la gente rimaneva lì per giorni perché aveva un colore della pelle diverso, un taglio di capelli differente.

È dovuto intervenire il governo ucraino (sull’Europa) per dire: “Ma lo avete capito che quando il missile cade non distingue tra un latino-americano e un ucraino di Kiev, e che quindi qualsiasi essere umano ha diritto alla protezione internazionale o banalmente ha diritto a salvarsi la vita?”. Io credo che la stessa cosa accada nel Mediterraneo.

Voi sapete qual è la principale porta d’ingresso dell’immigrazione irregolare d’Italia? L’aeroporto di Milano Malpensa. La maggior parte dei migranti, che poi diventano irregolari, arriva con dei voli a visto turistico, non c’è alternativa. Eppure io non vedo grande manifestazione davanti all’aeroporto di Malpensa: è più facile spostare l’attenzione sui più poveri, sui più deboli, sugli sfigati, diciamo. Solo che gli sfigati spesso hanno pure la pelle scura, no? E questo rende tutto molto più complicato. Non vuol dire che chi arriva è buono e santo, figuriamoci. Non che anche noi abbiamo esportato solo il meglio in passato, e neanche adesso per la verità. La disinformazione ha questo effetto: è soporifera sulle nostre coscienze.

Vi faccio un esempio per mostrarvi l’ipocrisia. Un bambino nato in Italia da genitori stranieri non è cittadino italiano finché non chiede la cittadinanza alla maggiore età. Però mi viene spontaneo chiedermi: se un ragazzino o una ragazzina ha fatto anche l’asilo nido in Italia, le scuole elementari, le medie e i due anni di scuola superiore, com’è che non ha maturato la sua coscienza di cittadino italiano, secondo le istituzioni?

Allora stiamo implicitamente dicendo che non crediamo nel nostro sistema scolastico, che non è in grado di formare cittadini italiani. E questo vale tanto per il ragazzino figlio di genitori congolesi, quanto per mio figlio che è figlio di un Siciliano nato a Milano e che studia a Como. Se il ciclo di studi è uguale e se alla fine si viene promossi allo stesso modo, perché uno è cittadino italiano e l’altro no?

Dovremmo avere il coraggio di dire che pensiamo che il nostro sistema scolastico non è in grado di formare cittadini. Magari è anche così, però la questione diventa un’altra».

Nello Scavo con gli organizzatori del CISS: Martina Lombardo, direttrice dello Zabaione del liceo Parini di Milano, e Rodolfo Provenzali, direttore del Giornalotto del liceo Volta di Milano

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