Perchè? Per chi?
Un nuovo 8 marzo, una nuova festa della donna. Un nuovo anno in cui evitare foto di torte e mimose come shuriken lanciati da ninja buonisti armati di smartphone. Noto con una certa soddisfazione che molti meno dei miei amici mi hanno mandato auguri smielati, ma non sono sicura che sia merito della mia annosa battaglia o piuttosto del fatto che la giornata è appena iniziata; forse sono diventata solo molto brava ad evitarli. In ogni caso, qualcuno, ancora, c’è. E date le polemiche degli ultimi giorni, dato che questo è il mio ultimo anno al Leo, ho pensato che fosse il momento di consegnare ai posteri le mie argomentazioni, ferrate e limate dal tempo, su ciò che, puntualmente, è fonte di tante controversie. La festa della donna fa schifo.
Non aspettatevi da me vaneggiamenti del tipo “la donna va festeggiata tutto l’anno”, cavallo di battaglia di personaggi buonisti tanto quanto coloro che si propongono di combattere. Mi immagino sempre di convincere le donne del fatto che questa festa non dovrebbe esistere in questa modalità, piuttosto che gli uomini; e pertanto, più che il sentimentalismo verso chi in fondo non c’ha niente a che fare, mi sforzo di usare la logica.
Cosa festeggiamo l’8 marzo? Tutti sanno il motivo della data, eppure nessuno sembra mai pensarci più di tanto. Celebriamo la peculiarità le donne, le qualità indiscutibili delle donne, l’intraprendenza delle donne, tutti quegli aggettivi, che trovate su qualunque biglietto d’auguri dietro al bancone delle cartolerie, “delle donne”? Non proprio. Ricordiamo una fabbrica bruciata[1]: immaginatevela. Il sole timido della primavera, che sembra freddo ma dopo un po’, lentamente, riscalda. L’odore acre di tessuti carbonizzati; il fumo che si alza, placido e turbolento insieme, nel cielo azzurro. Il campo di mimose tutto attorno. Giallo, blu, giallo. La fabbrica che crolla, mangiata dal fuoco. Festeggiamo? Io non credo.
Quando la data è stata scelta, l’idea era, e mi sembra tutt’ora, molto chiara. Rammentare a tutti, in tutto il mondo, il sacrificio di lavoratrici che valevano meno del tessuto che producevano. Fissare un obiettivo, che non avvenisse più. Spingere i legislatori ad operarsi per sancire, tutelare e promuovere quei diritti che troppo spesso, significativamente, vengono cancellati dal nome stesso della giornata.[2]
Eppure noi festeggiamo. Portiamo mimose che la storia ci consegna macchiate di sangue alle nostre madri, sorelle, amiche, come fosse una questione di costume. E come un fatto di costume la maggior parte delle persone legge l’8 marzo, tradendo inconsciamente il messaggio che la giornata si era proposta, 100 anni fa, di trasmettere. In questi soli tre mesi di 2021 sono morte, colpite dai mariti o compagni, una donna ogni cinque giorni, eppure ciò che ai bambini viene insegnato dalle loro stesse maestre delle elementari è che l’8 marzo devono disegnare un biglietto alle loro madri e che è un giorno gioioso da aspettare con il sorriso sulle labbra.
Io, l’8 marzo, lo aspetto con angoscia. Io mi auguro, con speranza, di poter vivere nella mia vita un anno in cui l’8 marzo non venga celebrato, in cui questo giorno non scandisca il fallimento della società in cui viviamo, in cui io mi ritrovo ad essere donna.
Perché l’uomo non lo festeggiamo tutto l’anno. Non lo festeggiamo neanche un giorno l’anno. Non lo ricordiamo, non lo celebriamo, perché non ce n’è alcun bisogno. A nessuno bisogna rammentare che gli uomini vanno rispettati, amati, valorizzati; a nessuno serve un proverbio che dica che non vanno toccati nemmeno con un fiore. E questa, solo questa, è libertà. E solo quando questo avverrà anche per le donne esse potranno dirsi libere.
Studi recenti argomentano che essere una ragazza, in Occidente, nel 2021, è un fatto emozionante; che crediamo di poter cambiare il mondo e ci muoviamo per farlo. Che le utopie non ci spaventano, perché sono le utopie che ci spingono a fare tutti gli sforzi necessari. Ragazze, diamoci un’utopia e diamocela adesso; diamoci quel perché che, ieri sera, Michela Murgia ha puntualizzato essere generalmente chiesto nelle interviste agli uomini, mentre alle donne si domanda “per chi?”.
Ma diamoci anche quest’ultimo, ingorde, perché non credo che ci sia del male in esso. Spaventiamoci dell’8 marzo e torniamo a vederlo come un segnale di tutto ciò che ci resta da fare. Non accontentiamoci del contentino falso di un fiore, per quanto bello, perché non siamo fiori e non siamo neanche donne: siamo persone. Che il nostro perché sia libertà. E che il nostro per chi, di mezzo e di fine, sia l’unico possibile: per noi stesse.
[1] Alcuni argomentano che si tratti di un falso storico (la fabbrica bruciò a New York il 25 marzo 1911) e che invece la data fu scelta per ricordare la protesta delle operaie russe a San Pietroburgo per la fine della Prima Guerra Mondiale, per altro repressa dai cosacchi: il messaggio veicolato è comunque lo stesso.
[2] Tecnicamente si parla di “giornata internazionale dei diritti della donna” e non di “festa della donna”.