Quinto anno
Settima stagione di una serie tv scadente
Di tutti i miei amici che anno in anno si sono trovati in quinta superiore, non ne ricordo uno che non fosse afflitto da una profonda frustrazione. “Non vedo l’ora di andarmene”, “Non ne posso più”. “Ne ho abbastanza”. Li ho guardati talvolta con tristezza, spesso incredulità: non condividevo il loro sentimento. Certo dopo cinque anni si può aver voglia di cambiare, sentirsi pronti per una nuova fase… ma sentimenti così negativi? Come poteva essere?
Io quest’anno l’ho iniziato col sorriso. Da sempre i primi giorni di settembre sono per me l’inizio dell’anno molto più dell’1 gennaio; sempre ho annusato una certa speranza nella prima ventata di brezza autunnale. Nuovi propositi, la sensazione di poter cambiare in meglio… quest’anno non era diverso. Anzi, dopo sei mesi (contati) di assenza da Via Respighi, la prospettiva di tornare mi mandava su di giri.
Ultimo anno vuol dir tanto: primo, rendersi conto che quelli che mi sembravano dei giganti cinque anni fa dovevano essere degli idioti tanto quanto lo siamo io e miei compagni ora; secondo, capire che si può fare brutto ai primini davanti alle macchinette; terzo, realizzare di essere circondati da ultime prime volte. L’ultimo primo giorno di scuola, l’ultima prima corsa ai banchi (persa, puntualmente), l’ultima prima interrogazione. Eventi quotidiani che il mio cuore nostalgico sapeva non sarebbero più tornati e considerava preziosissimi (tolta l’interrogazione, ecco). Certo il periodo si presentava fuori dal comune, con le classi divise a metà e le mascherine da tenere-non tenere al banco, ma ero decisa a godermi tutto al massimo. Quanto è durato? Due settimane. Nuovo record! E quando ho incrociato fuori da scuola un mio amico, anche lui di quinta, e ho visto il suo sguardo da animale in gabbia, ho capito di essere caduta anch’io nella rete. “Guarda, io ormai vado a scuola perché sono curioso di vedere come finiscono i programmi. Hai presente quando sei alla settima stagione di una serie tv scadente ma vuoi vedere come va a finire?”
Cos’è andato storto? Bella domanda. Certo la pandemia non ha aiutato, ma certo è anche che alcune domande non verrebbe mai in mente a nessuno di porsele se non in situazioni straordinarie.
A cosa serve la scuola? Non quella in generale, bene inteso. Ma le superiori? Il liceo? Ma come! Apertura mentale, capacità analitico-critiche, competenze trasversali. Mh, ok. E allora, questo liceo? Il Leonardo? Una preparazione rigorosa, spesso eccellente. Poliprospettica senza dubbio, visto che ho cambiato professore di scienze 12 volte. Reale, è forse il termine più adatto: aderente al mondo là fuori. E probabilmente è questo che genera orrore.
Non che pensi sia una situazione legata solo al nostro istituto, sia chiaro. La burocrazia, per dirne una, è una brutta bestia ovunque ed è proprio il suo essere una caratteristica così generalizzata dell’apparato pubblico italiano ciò che fa venire i brividi: la gestione della pandemia l’ha solamente portato alla luce. Direttive ministeriali poco chiare, circolari da Roma talvolta perfino contraddittorie… l’importante era “far ripartire la scuola”. Ma davvero, cos’è la scuola?
Sedersi in banchi disinfettati? Guardare gli occhi (bisogna dirlo, confortevolmente sorridenti) dei miei professori? O imparare, aprirsi a nuove scoperte, affinare le proprie capacità di persona e cittadino?
Il confronto, la collaborazione, l’analisi critica ma mai offensiva, l’apertura ad altri punti di vista. Le cose che secondo me dovrebbero caratterizzare la scuola ideale, io le ho imparate in Bohème. Un progetto che è un prodotto proprio della nostra scuola e costituisce per me la fucina educativa più incredibile che si possa immaginare: una collaborazione di studenti, una guida e un confronto con gli insegnanti. E che anche nelle difficoltà dell’inizio di quest’anno (una scuola nel senso classico del termine da riorganizzare secondo le nuove normative di sicurezza; un comprensibile ritardo nell’avvio delle attività non prettamente legate alle lezioni mattutine) è riuscita a insegnare lezioni importanti. Resilienza, consapevolezza. Necessità mai così fortemente sentita di dover ripartire, perché altrimenti sarebbe mancato qualcosa di più che essenziale al chiostro del Bramante. Perché altrimenti sarebbe stato come non tornare. Perché dopo cinque — di fatto tredici — anni, ho capito che in un rapporto di 1021 a 72, signori, la scuola siamo noi.
Gli studenti. Quelli che hanno seguito a casa da febbraio, che hanno fatto la maturità a metri di distanza dalla commissione, che hanno invaso di nuovo Via Corridoni il 14 settembre: la scuola vera non si è mai fermata. Si distrugge solo quando chi la costituisce la guarda con indifferenza, se ne stacca come da una creatura lontana da sé; rinasce quando venti disperati compilano sondaggi Google per capire quando incontrarsi per parlare, dialogare, confrontarsi. Ricade nell’oblio a ogni alzata di spalle, a ogni testa abbassata, a ogni ovazione per chi promette feste e attività fuori da quelle quattro mura di cemento che invece sono per definizione il centro del nostro mondo. Che se non vi piace, Cristo, dovreste voler cambiare. Che potete cambiare. 1021 a 72.
La gabbia c’è, è vero, ma abbiamo dato una mano a costruirla. Il grigio macchinoso della burocrazia esiste, è sconfortante, ma soprattutto è sostenuto dalla marea silenziosa di zaini senza proprietario. Sei uno spirito dormiente, Leonardo. Ma c’è il covid, la chiusura dei locali, la cruda realtà di chi siamo veramente e che cosa potremmo fare per renderlo più digeribile. Chissà che questo non sia l’anno del tuo risveglio.
Ndr: questo articolo è stato scritto ad ottobre, prima delle elezioni per il Consiglio d’Istituto.