3-Altro che mero reportage di viaggio
A fine 2018 iniziai a programmare il ritorno in Madagascar.
Davide e Nicole avevano già deciso di trascorrere a Tulear i mesi di luglio e agosto del 2019, per seguire sul campo i vari progetti gestiti dall’associazione. C’erano i pozzi già costruiti da manutenere e altri pozzi la cui costruzione sarebbe partita in estate. La scuola richiedeva interventi strutturali e miglioramenti da apportare alla cucina, alla mensa, alle aule. E poi tanti nuovi progetti da avviare: un impianto di agricoltura idroponica, un’infermeria, un centro sportivo, un laboratorio tessile.
Matilde era determinata a trasferire alle donne malgasce le conoscenze di base necessarie per produrre in autonomia saponi, dentifrici e detergenti.
Io volevo raccontare tutto questo. Era la storia che cercavo. In fondo raccontare storie con la scrittura è quello che da sempre amo fare.
Era deciso. Saremmo scesi in Madagascar tutti insieme durante l’estate 2019. Non per un viaggio di piacere, ma per una vera e propria missione umanitaria. Un’altra delle “cose da fare”, che da sempre campeggiava ai primi posti della mia personale lista, stava per essere spuntata.
A dicembre però, proprio sotto Natale, entrò nelle nostre vite Gregorio. Non il Gregorio protagonista del mio romanzo.
Ma il bambino che ora, mentre scrivo, si trova nella pancia di Matilde, e che nascerà in agosto. Il nostro primo figlio.
Naturalmente ne fummo felicissimi, ma questo ci costringeva a cambiare i nostri programmi. Matilde non poteva certo affrontare un viaggio in Madagascar a pochi mesi dal parto. Io sì, ma non in luglio o agosto. Quindi non sarei sceso insieme a Davide, Nicole e gli altri volontari, per aiutarli a portare avanti i progetti dell’associazione. Però potevo dare il mio contributo in un altro modo. Documentando e raccontando il nostro Madagascar e l’impatto che l’associazione stava creando per la popolazione di Tulear.
Proprio in quei giorni conobbi per caso, o forse no, David. Un giovane videomaker che mi propose di andare insieme in Madagascar per realizzare un documentario. La scrittura è l’acqua in cui mi muovo a mio agio, ma per raggiungere più persone possibili, per emozionarle, per raccontare loro una grande storia non c’è niente di meglio di un film. La decisione quindi fu semplice: io e David saremmo andati in Madagascar a giugno armati di videocamera e penna. Da quel viaggio quindi sarebbe nato un documentario, girato e montato da David. E un libro, questo libro, scritto da me. Entrambi si sarebbero intitolati La fine della terra.
Per quanto riguardava la mia parte nella storia si pose subito una questione. La nuova versione del libro non sarebbe stata un romanzo, un’opera di fiction, bensì un reportage di viaggio. L’idea mi affascinava, ma al tempo stesso mi spaventava. Finora ho scritto un paio di romanzi, una raccolta di racconti e un’infinità di altre cose. Ma nulla che si avvicini a un reportage di viaggio in prima persona. Inoltre mi sono sempre rivisto, seppur con un certo dispiacere, nella categoria di quelli che Chatwin definiva“scrittori che funzionano soltanto a domicilio”, in cui include Flaubert, Tolstoj, Zola, Poe, Proust, per distinguerli da “gli itineranti”, ovvero Hemingway, Gogol’, Dostoevskij. D’altro canto, se è vero che a uno scrittore a domicilio non basta viaggiare per diventare uno scrittore itinerante, è altrettanto vero che a un viaggiatore non basta scrivere per ambire al medesimo titolo.
La narrativa di viaggio è un genere elitario, in cui si collocano alcune tra le opere di più alto spessore letterario ed emozionale che abbia mai letto. Ma in cui purtroppo si tendono a collocare anche opere che di letterario hanno ben poco. In questi ultimi anni, complice la maggiore semplicità di viaggiare per il mondo e di pubblicare un libro, si assiste a un proliferare di titoli che occupano gli scaffali delle librerie fisiche e virtuali accanto a mostri sacri quali lo stesso Chatwin, Terzani, Kapuściński, Theroux. “Scrittori che viaggiano” e “viaggiatori che scrivono” messi a confronto, come se fosse la stessa cosa. La mia ambizione è sempre stata quella di essere uno dei primi. Il mio timore, che ha frenato finora qualsiasi velleità, quello di ricadere nella schiera dei secondi.
Ma ora il tempo dei timori è alle spalle e mi sento pronto a cimentarmi con questo genere letterario, che forse amo più di qualunque altro.
La fine della terra, questo libro che sto scrivendo, non sarà semplicemente il reportage di un viaggio in Madagascar. Dovrà essere per me e per il Madagascar ciò che In Patagonia è stato per Chatwin e la Terra del Fuoco. Ciò che Un indovino mi disse è stato per Terzani e il Far-East asiatico. Ciò che Ebano è stato per Kapuściński e l’Africa.
L’opera che ha elevato il suo autore nell’olimpo degli “scrittori di viaggio” e ha trasformato il luogo descritto in una meta leggendaria ambita da generazioni di viaggiatori inquieti.
Lo so, ho sparato in alto.
In fondo però i bambini, quando iniziano a dare i calci a un pallone, si mettono la maglietta di Cristiano Ronaldo, o, come facevo io, quella di Roberto Baggio. Non c’è niente di più sano e insito nell’animo umano che il desiderio di emulare i migliori, in qualsiasi campo.
E come si fa a emulare i migliori?
Attingo ancora alla metafora del calcio perché credo sia molto efficace. Se un bambino vuole diventare bravo come Ronaldo non gli basta avere lo stesso pallone con cui si allena la Juventus. Deve andare a scuola di calcio, giocare con altri bambini e soprattutto guardare le partite della sua squadra del cuore, cercando di assorbire e fare sue le tecniche dei campioni. Poi è chiaro, se c’è anche il talento, è tutto più facile.
Analogamente, a chi voglia scrivere un’opera all’altezza di In Patagonia non basterà prendere un aereo per Buenos Aires e viaggiare in autostop fino a Ushuaia. Lo stesso viaggio non genera automaticamente la stessa storia. Un viaggiatore che scrive non diventa necessariamente uno scrittore che viaggia. Uno scrittore che legge forse sì. Come il bambino che si incolla alla TV ogni domenica per guardare tutte le partite di Ronaldo, ecco allora che io mi sono messo a leggere e rileggere le opere di coloro che considero i miei maestri.
Del resto ho sempre imparato di più dai libri che ho letto che da qualsiasi insegnante, professore o capo abbia avuto. Alcuni di questi libri hanno forgiato la mia personalità e il mio pensiero più di qualsiasi nozione appresa a scuola o sul lavoro. Mi è sempre stato naturale cercare le risposte alle domande che mi frullavano in testa tra le pagine di un libro. Ecco allora che, per scrivere questa nuova versione de La fine della terra, ho inaugurato una nuova stagione di letture di “scrittori che viaggiano”: i già citati Chatwin, Terzani, Kapuściński, Theroux, ma anche Omero, Marco Polo, Byron. Mal che vada, avrò comunque letto un sacco di bei libri.
E poi, dovrò capire come scrivere questo libro, questo mio primo audace tentativo di affacciarmi sugli scaffali della narrativa di viaggio. Di rendere giustizia al Madagascar, questo Paese tanto meraviglioso e sorprendente, quanto sconosciuto alle nostre latitudini. Ho ancora poco più di un mese per pensarci, e due settimane a giugno per mettermi all’opera. Quello che dovrò ricordarmi, in ogni caso, sono le parole del mio mentore letterario. Alla mia domanda, su come possa evitare che il libro si configuri come un mero reportage di viaggio, mi ha risposto, in modo ermetico ma efficace:
«È la scrittura che fa il racconto, ricordatelo. Altro che mero reportage di viaggio».
Più chiaro di così.