Parisse: ‘’Io, il rugby e l’Italia: una storia nata da una meta mancata’’

Mario Bocchio
La leggenda del rugby
4 min readJan 13, 2019

“John Kirwan era l’allenatore dell’Italia. Mi ha visto giocare per la prima volta con la U21 di Treviso. Stavo per segnare una meta, ma l’ovale mi è caduto in avanti e qualcuno dal pubblico mi ha gridato contro. Poi però ho segnato due mete lo stesso. John mi ha confessato che era rimasto molto impressionato dalla mia forza di carattere: mi ha convocato in Nazionale e fatto esordire con la Nuova Zelanda, ad Hamilton, nel 2002. Quando ha fatto il mio nome, è stato uno choc totale! Due mesi prima giocavo con la squadra giovanile, e ora affrontavo gli All Blacks!”. Sergio Parisse si racconta alla viglia del Sei Nazioni 2019: a 35 anni, il capitano azzurro è stato intervistato da World Rugby, il mensile ovale che ha dedicato l’ultimo numero al torneo più antico del mondo. E che per raccontare l’Italia, non poteva scegliere altro se non l’iconico numero 8, capitano anche dello Stade Français a Parigi e giocatore con più presenze nel Sei nazioni.

La vittoria più dolce — “Battere per la prima volta la Francia nel Sei Nazioni nel 2011, che giornata incredibile: eravamo al Flaminio, dove ho sempre amato giocare perché avevi il pubblico addosso e c’era un’atmosfera straordinaria. Una vittoria particolarmente dolce per me, ovviamente, perché per anni sono tornato nello spogliatoio dello Stade Français e ho dovuto subire le battute degli altri: quella volta invece sono stato il solo a ridere”.

Il rispetto degli arbitri — “Sono un tipo passionale, e so che devo trovare il giusto equilibrio confrontandomi con gli arbitri. Negli anni ho imparato molto a proposito della loro psicologia: come reagiscono alla pressione e come comunicano con i giocatori. Cerco sempre di trattarli con rispetto. Non me la prendo, se mi fischiano contro. Ma penso che inconsciamente alcuni arbitri fischino ‘contro’ le nazioni più piccole: è più facile penalizzare l’Italia, che la Nuova Zelanda”.

Il potere del gioco — “Battere il Gloucester e vincere la Challenge Cup nel 2017 è stato grandioso. Non solo perché è stato il primo trofeo europeo per lo Stade Français, ma anche perché è arrivato poche settimane dopo la proposta di fusione con il Racing. Ero con la Nazionale, quando un lunedì si è diffusa la notizia del presunto accordo: me lo ha detto il ct O’Shea, pensavo scherzasse. ‘Guarda su Twitter, se non ci credi!’. L’ho fatto. Pazzesco. Era un’idea ridicola, ma che bella reazione di giocatori e pubblico. Vincere la Coppa è stato un premio per quanto ci siamo battuti per impedire la fusione”.

La magìa del drop — “Ho messo dentro 2 drop nella mia carriera. Il primo con lo Stade Français contro gli Ospreys in Heineken Cup (2006), il secondo in Nazionale con la Scozia (2009). Quando gioco, penso che indossare la maglia numero 8 non mi impedisca di provare qualcosa di diverso dal solito. Ho fiducia nelle mie qualità, e a volte uno deve assumersi delle responsabilità. Se metto il drop, tutti diranno: ‘Che giocatore!’. Se lo sbaglio: ‘Perché lo hai fatto? Sei un numero 8!’. Ma in realtà io mi muovo secondo la situazione. Sono sempre stato una terza centro molto fisica, però dopo i 30 anni devi imparare a gestire il tuo corpo e la tua mente: nella mia testa peno di avere ancora 18 anni, il corpo sfortunatamente non è d’accordo!”.

Giovani mete — “Ho segnato la mia prima meta al Canada durante i Mondiali del 2003, ma davvero non so quante ne ho segnate in tutto (15). Non sono nemmeno sicuro di quante presenze abbia in azzurro (134): devono essere 130 e qualcosa, ma non sono un appassionato delle statistiche. Sono semplicemente grato di poter continuare a giocare, e non mi guardo indietro. Sto andando verso la fine della mia carriera, ma non ho in mente una data per ritirarmi. Il mio obiettivo è giocare quest’anno una quinta Coppa del Mondo (eguagliando Mauro Bergamasco e Brian Lima): potrebbe coincidere con la fine della mia carriera internazionale. Il mio contratto con lo Stade Français scade nel 2020, così potrò ancora giocare un’ultima partita per l’Italia”.

Quella vittoria coi Boks — “Il Sudafrica era una squadra sotto pressione. Sentivo la loro mancanza di fiducia, e ho detto ai ragazzi di stargli addosso perché potevano crollare. Interpreto il linguaggio del corpo e ‘sento’ la partita: capisco quando l’avversario è in difficoltà, vulnerabile. Con l’Italia ho perso molte più partite di quante ne abbia vinto: fa male, perché odio la sconfitta. Ma i ragazzi hanno sempre dato tutto. Tecnicamente e fisicamente possiamo non essere forti come altre nazioni, però in termini di impegno e passione non c’è differenza. Nella vita, quello che fa di te un vincente è dare sempre il 100%”.

Sergio, che papà — “Ho due bambini. Quando stavo da solo, il rugby era tutta la mia vita. Diventare padre cambia la tua visione della vita, e ti fa diventare molto più responsabile”.

Martin, dove sei? — “Cantare l’inno nazionale è sempre un momento importante. Ti lascia andare all’emozione, dopo aver preparato tutto l’incontro. Lo canto e penso alla mia famiglia. Soprattutto ai miei genitori. Avevo 17 anni quando ho lasciato l’Argentina, dove vivevamo, per venire a Treviso: è stata dura ritrovarsi da solo, in un piccolo appartamento. Adesso i miei genitori sono tornati in Italia ed è bellissimo vederli più spesso. Io e Martin Castrogiovanni abbiamo superato le 100 presenze insieme battendo le Fiji nel 2013, e ho anche segnato una meta. Mi manca molto, Martin. Eravamo compagni di squadra ma anche buoni amici, e mi è stato di grande aiuto dal momento in cui sono diventato capitano. A quel tempo ero giovane, ed è stato fondamentale avere un sostegno come il suo”.

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Mario Bocchio
La leggenda del rugby

Giornalista professionista, amo il calcio, soprattutto quello dei mitici anni Ottanta. Non disdegno la politica, anche per averla praticata attivamente