In cerca delle sfere di Dyson

Nel 1960 il fisico Freeman Dyson proponeva di cercare nell’infrarosso i segni di civiltà intelligenti, immaginando che avessero sviluppato la tecnologia per intercettare la maggior parte della radiazione proveniente dalla propria stella

Michele Diodati
Spazio Tempo Luce Energia

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Una stella come il Sole irradia nello spazio, secondo dopo secondo, un’immensa quantità di energia, che è stata calcolata in circa 3,84×10²⁶ W (384 milioni di miliardi di miliardi di watt). Che fine fa tutta questa energia? Va per lo più sprecata.

I pianeti e le lune del sistema solare rivolgono, infatti, al Sole una superficie complessiva minima, rispetto a quella della sfera che, alla distanza di ciascun pianeta e di ciascuna luna, viene irradiata dal Sole. La Terra, per esempio, riceve un flusso di radiazione, calcolato alla sommità dell’atmosfera, intorno a 1366 W/m². Tenuto conto di vari fattori, questo flusso corrisponde, fatta la media per tutto il pianeta, a circa 2,2 miliardesimi della radiazione totale emessa dal Sole. E più ci si allontana dalla sorgente di energia, il Sole, più la quantità di radiazione intercettata per una stessa unità di superficie diminuisce. Persino i pianeti giganti intercettano quantità minuscole di energia solare, perché minuscola è la superficie che offrono al Sole in proporzione a quella della sfera ideale irradiata alla loro distanza: l’irradiazione solare alla distanza di Urano, per esempio, è solo 3,8 W/m²; alla distanza di Nettuno appena 1,5 W/m².

Quest’enorme spreco di energia fa a pugni con quella che è l’esigenza più importante di una civiltà intelligente e tecnologicamente avanzata: disporre di sempre più energia, per far funzionare e progredire società basate su macchine e sistemi tecnologici che diventano di anno in anno più potenti e complessi. Quanto pesi la scarsità di risorse energetiche e la non rinnovabilità delle fonti lo stiamo sperimentando in questi ultimi anni, caratterizzati da continui aumenti del costo dei carburanti, del gas naturale e dell’elettricità.

Ma cosa farebbe una società molto più progredita della nostra, per superare la limitatezza di risorse legata al nostro pianeta d’origine e sfruttare pienamente l’energia quasi inesauribile del Sole? Se lo chiese il grande fisico e matematico Freeman Dyson, in un articolo pubblicato su Science il 3 giugno 1960. La sua risposta fu che una simile civiltà super-avanzata avrebbe usato la massa di Giove per sfruttare l’energia del Sole (la traduzione di questo brano e dei successivi è mia):

Il lettore può ben domandarsi in che senso qualcuno possa parlare della massa di Giove o della radiazione totale del Sole come accessibili allo sfruttamento. La seguente argomentazione è intesa a dimostrare che uno sfruttamento di tale grandezza non è assurdo. In primo luogo, il tempo richiesto per un’espansione demografica e industriale di un fattore uguale a 10¹² è davvero breve, diciamo 3000 anni se viene mantenuto un fattore di crescita medio dell’1 per cento all’anno. In secondo luogo, l’energia richiesta per disassemblare e ricombinare un pianeta delle dimensioni di Giove è circa 10⁴⁴ erg, uguale all’energia irradiata dal Sole in 800 anni. In terzo luogo, la massa di Giove, se distribuita in un guscio sferico rotante intorno al Sole a una distanza doppia di quella della Terra, avrebbe uno spessore tale per cui la massa sarebbe di 200 grammi per centimetro quadro di superficie (2 o 3 metri, a seconda della densità). Un guscio di questo spessore potrebbe essere reso confortevolmente abitabile e potrebbe contenere tutti i macchinari necessari per sfruttare la radiazione solare che cadrebbe su di esso dall’interno.

Erano gli anni ’60 e tutto sembrava possibile, persino smontare un pianeta delle dimensioni di Giove e rimontarlo in un’altra posizione, sotto forma di un’immensa sfera di pannelli solari con un raggio di 2 unità astronomiche e lo spessore di 2–3 metri, destinata a diventare una sterminata e autosufficiente colonia umana nello spazio. E fa niente che Giove è fatto per lo più di idrogeno e di elio, non proprio il massimo in fatto di materiali da costruzione… Ma del resto il progetto enunciato da Dyson sarebbe stato pane per i denti di una società almeno 3000 anni più avanti della nostra in fatto di scienza e tecnologie e, soprattutto, intendeva esprimere una possibilità universale, non legata strettamente al sistema solare: dunque utilizzabile anche presso altre stelle, da ipotetici esseri extraterrestri intelligenti, con altri pianeti da sfruttare come fonti di materie prime, di diversa composizione e grandezza rispetto a Giove.

L’idea proposta da Dyson in quell’articolo del 1960, che Dyson stesso aveva mutuato da un racconto di fantascienza degli anni ’30, fu ripresa e rifinita da altri dopo di lui. Le immaginifiche megastrutture spaziali in grado di incapsulare e sfruttare la radiazione di una stella sono note da allora come “sfere di Dyson”. Ma come fare a scoprire se esistono davvero? Quali segni lascerebbe trapelare all’esterno una sfera di Dyson situata a diversi anni luce da noi? Il suo marchio distintivo — scrisse Dyson — sarebbe la radiazione infrarossa, in particolare quella a 10 micrometri:

È lecito attendersi che, entro poche migliaia di anni dal suo ingresso nello stadio dello sviluppo industriale, qualunque specie intelligente scoperta occupi una biosfera artificiale, che circonda completamente la sua stella madre.

Se il precedente argomento è accettato, allora la ricerca di esseri extraterrestri intelligenti non dovrebbe essere limitata alle stelle visibili nei dintorni. L’habitat più probabile di tali esseri sarebbe un oggetto oscuro, avente una dimensione paragonabile all’orbita della Terra e una temperatura superficiale da 200 a 300 K. Un simile oggetto oscuro emetterebbe radiazioni altrettanto copiose della stella nascosta al suo interno, ma la radiazione sarebbe nel lontano infrarosso, intorno alla lunghezza d’onda di 10 micron.

[…] Propongo perciò che si tenti una ricerca di sorgenti puntiformi di radiazione infrarossa, sia in modo indipendente sia in collaborazione con la ricerca di radio emissioni artificiali. L’ideale sarebbe una scansione dell’intero cielo per oggetti giù fino alla 5ª o 6ª magnitudine, ma ciò è probabilmente oltre le capacità delle attuali tecniche di rilevamento.

Dyson scriveva la sua proposta proprio nell’anno in cui Frank Drake conduceva il pionieristico Progetto Ozma, antesignano del SETI: la ricerca di segnali intelligenti provenienti dalle stelle Tau Ceti ed Epsilon Eridani con un radiotelescopio da 26 metri situato a Green Bank, in Virginia. La ricerca accurata di sfere di Dyson richiedeva però tecnologie più sofisticate di quelle disponibili all’inizio degli anni ’60. Ma quelle tecnologie oggi ci sono. La notizia — e la ragione di questo articolo — è che la Fondazione Templeton, nell’ambito di un’iniziativa chiamata “New Frontiers in Astronomy & Cosmology”, ha destinato 200.000 dollari per due anni (una piccola parte del budget complessivo di 5,6 milioni di dollari messi a disposizione dalla Fondazione) alla ricerca di sfere di Dyson e di segnali laser “intelligenti” provenienti da altre stelle.

Il destinatario del finanziamento è Geoff Marcy, il più prolifico scopritore di esopianeti in attività. Marcy prevede di utilizzare questo fondo per due diverse indagini:

  • l’analisi dei dati raccolti a partire dal 2009 dal telescopio spaziale Keplero, alla ricerca di transiti che non siano attribuibili a pianeti che passano davanti al disco della stella madre, ma a qualcosa di simile a stazioni solari del tipo immaginato mezzo secolo fa da Freeman Dyson;
  • l’acquisto di tempo di telescopio presso l’Osservatorio Keck, per ottenere gli spettri di un migliaio di stelle, tra quelle osservate dal telescopio Keplero, che potrebbero nascondere emissioni laser prodotte da esseri intelligenti. A tal proposito, Marcy ha spiegato:

Civiltà tecnologiche possono comunicare con le proprie sonde spaziali dislocate nella galassia usando raggi laser, sia in luce visibile sia nell’infrarosso. La luce laser proveniente da altre civiltà è rilevabile perché la potenza è concentrata in un fascio ristretto e la luce è tutta di un solo specifico colore o frequenza. I laser sopravanzano la luminosità della stella madre in quello che è il colore proprio del laser.

Non credo che Marcy riuscirà mai a trovare una sfera di Dyson (non è chiaro, per esempio, perché una civiltà super-avanzata dovrebbe saper costruire qualcosa di così immenso e non, invece, una piccola macchina in grado di realizzare direttamente la fusione nucleare che avviene nel Sole). Ma è bello che possa cercarle, grazie al fatto che c’è qualcuno disposto a investire un po’ di soldi per verificare una delle più improbabili visioni del futuro prodotte dalla fantasia di uno scienziato (del resto la Fondazione Templeton persegue lo scopo, ancora più improbabile, di coniugare la scienza con la teologia).

La vera libertà intellettuale, in fondo, non si pone per sua natura alcun limite preconcetto e non ha paura dell’ignoto. Anzi lo cerca.

Rappresentazione artistica di una sfera di Dyson. Credit: Spaceranger

Quest’articolo è stato scritto a ottobre 2012 e pubblicato in origine sul blog Memoria dello Spazio.

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Michele Diodati
Spazio Tempo Luce Energia

Science writer with a lifelong passion for astronomy and comparisons between different scales of magnitude.