Intervista a Luca Sofri
Luca Sofri è direttore de Il Post e autore di Wittgenstein. Ha lavorato nel mondo della carta stampata (Il Foglio, L’Unità,Internazionale, Wired, La Gazzetta dello Sport etc.), in televisione (Ha condotto Otto e Mezzo con Giuliano Ferrara e presentato alcune puntate di Passato Prossimo) e in radio (Il Condor, con Matteo Bordone su Rai Radio 2). Inoltre, ha scritto tre libri: Playlist (2006); Un grande Paese (2011) e Notizie che non lo erano (2015).
Questa intervista, di Sacha Malgeri e Cristiano Battistini, fa parte di un’inchiesta intitolata “Giornalismo testimonianza e Giornalismo Cabaret”, portata avanti dalla classe di Giornalismo Laboratoriale dell’Università di Parma, corso di laurea magistrale in Giornalismo e cultura editoriale. L’inchiesta ruota su questi due concetti, chiedendosi se siamo passati da un tipo di giornalismo improntato sulla testimonianza, sul riportare i fatti, ad un tipo più spettacolarizzato, cabarettistico.
Cristiano Battistini: «Volevo partire dall’idea di giornalismo inteso come testimonianza. Com’è possibile farlo in una realtà come quella de Il Post dove non ci sono inviati sul campo, e non ci sono possibilità di vedere direttamente il fatto?»
Luca Sofri: «Intanto ho già delle obiezioni sull’impostazione generale, intanto sull’impostazione che distingue appunto queste due categorie: giornalismo testimonianza e cabaret. Però non vorrei smontare tutta la vostra tesi adesso, però vi dico come la penso. Uno: non credo esista così schematicamente questa distinzione. Per fare un esempio, il più facile che mi viene adesso, avete appena citato Domenico Quirico come un esempio più sintomatico del giornalismo testimonianza ma Quirico è uno di grande ed eccellente capacità di letterarizzazione della struttura e del racconto. Allora, per esempio, quando parlate di cabaret, che è un po’ dispregiativo, o quando parliamo di spettacolarizzazione del giornalismo stiamo parlando del contenuto o della forma? Perché è assolutamente spettacolarizzabile il contenuto più sostanzioso e rilevante, a seconda di come lo racconti. Al tempo stesso è raccontabile in maniere molto sobrie, precise e didascaliche anche la notizia più fessa, leggera e frivola. Se tu vai a fare un reportage molto accurato da Truman Capote delle nozze di Valeria Marini stai facendo un giornalismo Testimonianza o stai facendo un giornalismo Cabaret?»
CB: «Il metodo è fondamentale quindi?»
LS: «Da capo, “fondamentale” è un’espressione di un giudizio di valore da cui mi terrei alla larga. In più, avete alluso al fatto che ci fosse un’attitudine originaria al giornalismo che è stata via via…»
Sacha Malgeri: «Però dobbiamo premettere che non li vediamo come due blocchi contrapposti. Nel senso de “il giornalismo è stato così ed ora è così”. Noi notiamo le influenze di ambo i lati, infatti sono distinzioni di comodo».
LS: «Sì, e soprattutto non so se “è stato così ed ora è così”. Cioè, la spettacolarizzazione delle cose è nata, credo, subito dopo che è nato il giornalismo. Dire che c’è stata, appunto, una deriva particolare della cabarettizzazione del racconto… Non sono sicuro. Sicuramente, essendo tutto enormemente cresciuto in termini quantitativi di presenza e diffusione delle informazioni, è cresciuta, ed è più vistosa, tutta la parte che voi chiamate Cabaret. A parità di approcci si nota molto di più, per sua natura. Metteteci anche che non bisogna essere troppo rigorosi e bigotti sul fatto che un’attività commerciale ed un business com’è l’Informazione, perché è un’attività commerciale ed un business — ancora di più in tempi di crisi -, investa su contenuti e prodotti che siano più vendibili e accessibili e di maggior successo economico. Naturalmente ci sono gli eccessi da tutte le parti, e gli eccessi si valutano rispetto ai criteri. Da capo, la “premessona” è che i prodotti dell’informazione sono prodotti abbastanza particolari. Tutti i prodotti commerciali dell’informazione, come sono i giornali o qualunque tipo di prodotto informazione, si pongono in un punto qualunque tra due estremi che sono: la sua sostenibilità economica e la sua qualità in termini di servizio pubblico. Anche se fai il gommista stai più attento al fatto che l’azienda stia in piedi, però lo stesso gommista sta facendo un lavoro che, immagina, migliori le vite di tutti quanti, se lui fa le gomme bene. E probabilmente, a sua volta, il gommista pensa “se faccio le gomme male, traballa anche la mia sostenibilità economica”. Nel caso dell’informazione, è un mercato abbastanza particolare perché gli attribuiamo, per sua natura, un valore di servizio pubblico maggiore. Ed ha senso attribuirglielo, perché è indiscutibile che una cosa che noi riteniamo un valore prioritario come il funzionamento delle democrazie ha bisogno di un corretto sistema dell’informazione che lo sostenga, mentre non avrà bisogno di un corretto sistema di gommisti che lo sostenga. Se i gommisti sono tutti incapaci avremo delle società che avranno difficoltà a spostarsi e a spostare i mezzi e i tir ma non avremo delle società, diciamo, “a rischio”. […] Di conseguenza siamo abituati ad avere delle richieste ed aspettative molto più alte rispetto alla qualità del servizio da parte del mondo dell’informazione. Così alte addirittura che sono delle aspettative che rimangono inalterate anche quando il prodotto-informazione è gratuito, come l’informazione online. Trovate un sacco di gente ogni giorno su internet che si incazza con i siti di news che hanno scritto questa o quell’altra cosa. Nessuno si incazzerebbe se là fuori qualcuno regalasse delle caramelle non particolarmente buone — le regali, non le prendi, che vuoi… Abbiamo delle aspettative che, a loro volta, sono promosse dai maggiori mezzi di informazione, che si raccontano come i “guardiani del potere”, “sentinelle della democrazia”, etc. Tutto questo per dire cosa? Tutto questo per dire che io sarei indulgente nei confronti dell’inclinazione di prodotti commerciali come sono quelli dell’informazione che hanno bisogno di sostenersi economicamente oppure muoiono di non stare dentro i rigori di “all the news” o delle visioni un po’ schematiche e superficiali dell’editore rispetto a quello che deve essere un giornale. Basta che questo sia chiaro a tutti. Quindi, quando il responsabile del sito del Corriere della Sera, a me che gli rompo le palle sempre, mi dice: “Ok, hai ragione, c’è il boxino morboso e tutte quelle stronzate del genere. Tu lo sai che con quelle stronzate lì ci tengo in piedi tutto il sito, se no il sito chiuderebbe?”. Io gli dico: “Per carità, massimo rispetto. Basta però che tu non mi venga a dire che stai facendo un grande servizio alla comunità, che stai conservando la democrazia, e se qualcuno ti dice ‘A’ tu rispondi con ‘Ah! Il bavaglio! Un attacco all’informazione! Etc. etc.’ O decidiamo di essere un prodotto come tutti gli altri, e quindi la priorità è sostenersi economicamente, oppure, se ti vendi come un’altra cosa, bisogna che tu quella cosa la mantenga, e che tu sia coerente con quella. Questo è il criterio, secondo me. Poi, ovviamente, tutto ha delle complicazioni e dei contesti, ma se vogliamo giudicare le cose dobbiamo farlo in base alla coerenza con quelle che sono le aspettative degli utenti, aspettative che tu coltivi e annunci».
CB: «Però, in questo senso, anche leggendo alcuni suoi articoli e altro, sembra che negli ultimi anni, anche nei giornali cosiddetti seri e importanti, ci sia un avvicinamento, in parte, allo stile dei tabloid inglesi o americani. Quindi il discorso sulla coerenza si va un po’ a perdere?»
LS: «Infatti, però non è che i tabloid siano disprezzati quanto meritano. Allora, secondo me sono sempre stati vicini. Sapete che c’è una vecchia e schematica semplificazione di come funziona il sistema dell’informazione italiano che dice: “In Italia non c’è mai stata la distinzione tra giornali autorevoli e tabloid”. Il risultato è che i quotidiani italiani assumono il ruolo di entrambi e contengono i contenuti di entrambi. Questo è sempre stato così. Poi, le nostre società in generale tendono abbastanza ad abbassare l’asticella in termini di sputtanamenti generali e leggerezza dei contenuti, non solo nell’informazione ma su qualunque cosa, insomma. Quindi sì, i contenuti stessi dei tabloid oggi sono sempre più biechi e impensabili e su cui probabilmente i tabloid degli anni ’70 si sarebbero scandalizzati. Però non ho l’impressione che sul rilievo dei contenuti ci sia stato un abbassamento. Quello di cui ho impressione è che, per via dei meccanismi di internet, l’accessibilità e la disponibilità di quei contenuti lì, da una parte — e quindi l’offerta — e dall’altra — l’ipotesi di domanda, in parte fondata — per cui in tempi di crisi i giornali sono in panico da saldi e abbassano tantissimo l’asticella invece di… Anche qui non dico che sia la cosa più giusta da fare ma è l’alternativa. Invece di alzarla, distinguersi da un’offerta generale molto bassa, che è il buttarsi su quello che tutti guardano e tutti vogliono promuove ancora di più questo abbassamento etc. Questo lo si fa di più perché l’offerta di stronzate è talmente ampia… È quello che rende esemplare l’esperimento del Corriere.it di fare il sito a pagamento, esemplare in negativo. Io penso che abbiano fatto benissimo a fare quell’esperimento perché ha senso fare qualunque esperimento, in tempi difficili. Però se lo fai avendo, negli anni precedenti, sistematicamente sputtanato la tua offerta e fatto perdere ogni competitività alla tua offerta, poiché tutto quello che stai dando sono cose che io trovo abbastanza ovunque, e mi chiedi anche di pagare per vedere, nel migliore dei casi, il matrimonio di Valeria Marini, invece che per una competitività e originalità particolare dei tuoi contenuti, chi paga per vederli?»
SM: «Non vale lo stesso discorso anche per quei contenuti che vanno a “democratizzare”, in teoria, le redazioni? Mi viene in mente, per esempio, l’abbonamento de Il Fatto Quotidiano di garantire una diretta streaming dei comitati di redazione. È più o meno lo stesso discorso, secondo lei?»
LS: «No. Il Fatto Quotidiano investe su un’altra cosa, non so con quali risultati. Investe su un’altra cosa, che è abbastanza nuova, e che non c’entra assolutamente con l’informazione ma c’entra con tutti i funzionamenti della nostra società, cioè l’idea di sfruttare i desideri di partecipazione, condivisione, complicità e appartenenza dei suoi lettori. Il Fatto Quotidiano lo può fare, essendo un giornale ed un sito molto identitario e di partito. Il Corriere della Sera non lo può fare. Chi coinvolge? A chi dice “ehi, entrate nel club degli eletti battaglieri del Corriere.it?” Non lo dico dispregiativamente. Probabilmente, meglio che essere fanatici di un culto di giustizialisti manettari come Il Fatto preferisco la neutralità da pensionati de il Corriere, però è una neutralità da pensionati che non può lavorare su questo meccanismo identitario. Sicuramente lo può fare La Repubblica, invece».
CB: «Parliamo un secondo di cronaca politica, partendo anche dal suo post di pochi giorni fa dal titolo “Aizza e sobilla” sui presunti cori di contestazione alla minoranza del Pd alla Leopolda. Questa pratica di distorcere e manipolare l’informazione per aizzare e soffiare sul fuoco della polemica politica è sempre un’operazione consapevolmente pianificata? A volte è fatta solo per avere una notizia da pubblicare a tutti i costi? Oppure è un gioco politico volontario che fanno le redazioni?»
LS: «No, non penso sia un gioco politico, non lo è quasi mai, salvo che in alcuni casi. Certo, quando Repubblica si mette ad inventare le cose contro Berlusconi una certa sintonia tra le loro aspettative che i loro lettori ne siano entusiasti — e che questo abbia dei risultati commerciali — e le loro aspettative che Berlusconi sia messo nei guai si saldano. Però nei casi come questi ultimi io credo che sia semplicemente una cultura… Sono meccanismi molto più familiari e comprensibili se si riportano sui talk show. Quando producono una puntata di uno show televisivo come fanno? “Chiediamo a Sgarbi! Che urla, litiga e alla gente piace”. Questa cosa qui è dentro la cultura dei giornali italiani».
CB: «Quindi lei dice anche da prima? Non dall’avvento del talk show televisivo, ma c’era già prima. Forse è un po’ aumentata ma non è così sostanziale l’influenza del talk show televisivo?»
LS: «Sul prima è anche più difficile avere elementi di confronto. Ora abbiamo una disponibilità e accessibilità di contenuti giornalistici e d’informazione…è lo stesso discorso che facevo sulle notizie false. Così ad occhio, non mi sembra che sia particolarmente cresciuto. Mi sembra che sia cresciuta la nostra capacità di accorgercene. La nostra falsità percepita, mettiamola così. Ma probabilmente c’era anche prima, semplicemente non ce ne accorgevamo, ma ci sono diversi casi che, invece, ce lo raccontano. E quindi vale anche su questo, poi le valutazioni andrebbero fatte rispetto agli standard culturali del tempo. Negli anni ’70 Sgarbi, in una giornata tranquilla, probabilmente sarebbe risultato scandaloso».
SM: «Questa volgarizzazione del linguaggio giornalistico è davvero una spettacolarizzazione? Il pubblico è davvero così legato a questi eccessi? A me, molte volte, sembra una forzatura dei media per produrre un contenuto. Non sembra che abbiano più questa grossa rilevanza contenuti del genere. Uno Sgarbi non ha più questa risonanza».
LS: «No, Sgarbi perché è troppo vecchio e la competizione ormai è assidua. Non lo guardo un po’, però ancora l’anno scorso le puntate di Piazza Pulita dell’anno scorso con D’Agostino, Freccero, Santanchè, un circo di freaks… Secondo me funziona. Certo, è un circolo vizioso. Più nutri il pubblico di ciarpame più il pubblico si abitua a quello e chiede quello, e più ti convinci che il pubblico voglia quello».
SM: «Come vi relazionate, voi de Il Post, all’imperativo economico di “soddisfare il pubblico”?»
LS: «Una volta — un aneddoto che racconto spesso, ma è passato un sacco di tempo — uno dei primi convegni sull’informazione, internet, come stavano cambiando le cose. Un mio collega, bravo e competente nel suo settore, forse non aggiornatissimo sull’innovazione, disse ad un certo punto: “Per noi internet è un cambiamento sensazionale che ci apre mille opportunità poiché ci permette di sapere cosa vuole il pubblico, e di darglielo”. Io gli dissi: “Gran calma. Internet ci apre mille opportunità perché ci permette di sapere cosa vuole il pubblico. Poi fermati prima di darglielo”. Naturalmente, anche lì, poi io sono… è la mia controindicazione in termini di fornitore di speech , istruzioni e lezioni particolarmente interessanti: tendo a rispondere a tutto con “dipende”. Che è un’inclinazione, almeno per me, assolutamente coerente con la complessità delle cose. Diciamo però che l’attitudine semplificatrice di tutto quanto — attitudine, tra l’altro, inevitabile, il giornalismo è una grande semplificazione delle cose — rende tutto un po’ più complicato. Per cui, ad un certo punto tutti mi domandano: “E quindi?”. E quindi non lo so. L’idea è di trovare ogni volta un equilibrio tra quello che i lettori possano volere — o almeno quello che tu capisci che i lettori possano volere — e quello che tu pensi sia giusto dare ai lettori, in base ai criteri per cui stai facendo le cose che stai facendo. Naturalmente, se i criteri per cui le stai facendo sono… sai, poi noi semplifichiamo sempre. Parliamo di giornalismo e pensiamo a Robert Redford, Dustin Hoffman in “Tutti gli uomini del presidente”, ma quelli che fanno Sale e Pepe sono giornalisti, anche quelli che fanno la Settimana enigmistica, probabilmente. E quelli che fanno Sale e Pepe, probabilmente, ha senso che diano ai lettori quello che pensano che i lettori vogliano. Figurati, in tempi di stra-attenzione alla salute, alla gastronomia e tutto quanto anche lì c’è una potenziale mission di miglioramento del mondo attraverso il dare delle ricette particolarmente salutiste, piuttosto di cose che fanno male. Però, da capo, a seconda di quello che tu dici e pensi di voler fare con la tua attività di giornalista trovi degli equilibri. Anche perché se dai ai lettori soltanto quello che pensi sia giusto tu, dopo un po’ il tuo giornale chiude, probabilmente. Sono questioni, come al solito, di equilibri commerciali. Diciamo che se dovessi semplificare massimamente: noi non facciamo mai niente che troviamo disdicevole o di cui noi non vorremmo essere lettori. Poi talvolta facciamo cose di cui noi… siamo tanti e diversi. Può capitare anche statisticamente di pubblicare una cosa di cui a nessuno al Post gliene frega niente. Però è una cosa su cui abbiamo la sensazione che a qualcun altro gliene possa fregare e che non sia in contraddizione con i nostri standard di qualità, interesse o rilievo delle cose».
CB: «Questa cautela di cui ci parla è in controtendenza rispetto all’agonismo, alla polarizzazione dei contenuti e delle opinioni che hanno i giornalisti in televisione ad esempio? Come dicevamo prima, sono sempre più agonisti, aggressivi».
SM: «E coltivano anche un certo culto di se stessi».
LS: «Un certo culto di se stessi ce l’ho anche io».
CB: «Ma lei non ha sempre bisogno di esprimerlo ogni volta che va in televisione. Questa è già una differenza».
LS: «Poi ognuno la esprime a modo suo e come gli sembra più paraculo forse anche. La questione in generale della personalizzazione è molto figlia dei tempi, non ha a che fare solo con il Giornalismo. È figlia delle difficoltà dei modelli di business. Una cosa che ormai si è detta tanti anni fa, in tempi in cui i progetti editoriali non sono più in grado di retribuire, i loro collaboratori, i dipendenti, i giornalisti come un tempo: ognuno deve diventare un po’ business di se stesso».
SM: «Però questo proliferare di posizioni soggettive non è antitetico con il sistema dell’informazione? Parliamo sempre di utilità, servizio pubblico, e poi diamo molto spazio ad opinionisti, oppure ad ambiti in cui la verificabilità è bassa, o quasi nulla. Mi vengono in mente il retroscenismo politico, oppure i sondaggi e le previsioni politiche».
LS: «Sì, ma sono due cose diverse la personalizzazione e gli opinionisti. In teoria, se tutti gli opinionisti dessero opinioni competenti, argomentate o brillanti, al di là che siano giuste o sbagliate. Le opinioni possono essere sbagliate ed essere interessanti lo stesso. Quindi non è di per sé un limite la personalizzazione. Il problema è che la personalizzazione è figlia di una competitività individualista diffusa in ogni cosa che ti porta allo scadimento della qualità del prodotto. Se la tua priorità è farti notare, e scopri che per farti notare tu devi spararle grosse piuttosto che dire cose sensate e intelligenti, diventa un problema. È un problema di cultura generale, una cultura che addirittura apprezza lo spararle grosse. Lo apprezza da un pezzo, da un po’ ha cominciato a teorizzare questo apprezzamento. Apprezzare lo spararle grosse e vergognarsene un po’ ci può stare. Invece, ora “mi piace quello perché parla chiaro”, che di solito è un eufemismo perché spara delle stronzate che nessun altro dice, non perché gli altri siano particolarmente…»
SM: «Come abbiamo detto prima, il pubblico ha molto più accesso all’informazione, il giornalista non è più il “depositario esclusivo” dell’informazione, anche se non lo è mai stato, ma aveva molto più controllo sull’informazione. Mi riferisco soprattutto al panorama italiano, dove si producono sempre meno contenuti: si usano soprattutto traduzioni di articoli esteri, dispacci delle agenzie di stampa, talvolta si inventano dati ed istituti, come lei racconta in Notizie che non lo erano. Al giornalista non rimane solo un ruolo di filtro dell’informazioni? Non finiremo che il giornalista sarà semplicemente la figura che decostruirà la notizia per far capire se è vera o falsa? Che è un po’ il lavoro che fate molto spesso al Post, e lei di persona».
LS: «Sì, e non è un ruolo da poco. Non è un ruolo da poco».
CB: «In senso positivo e negativo — completiamo la domanda. Lei spesso cita anche i casi dei giornali storici, che hanno ancora grande potere nel prendere notizie, sia vere che false, e farle rimbalzare. Addirittura certe cose diventano virali su internet perché vengono pubblicate nei siti dei grandi giornali. In questo senso, le redazioni classiche hanno ancora un certo tipo di potere all’interno del meccanismo per cui le notizie arrivano?»
LS: «Sì, eccome. Se le metti in competizione con le altre cose hanno sicuramente maggior potere. Non hanno più tutto il potere. Una volta era tutto lì. Adesso ce ne sono tantissimi altri. La cosa anomala e particolare di questa rinnovata discussione di queste settimane sulle notizie false è che questa discussione a livello globale — soprattutto americano post-Trump etc. — ha qualche coerenza e senso. Se il New York Times o il Washington Post pubblicano in questi giorni due articoli al giorno sul problema delle fake news e su come Facebook pubblica troppe informazioni false. Posto che chi è senza peccato scagli la prima pietra, un po’ di coerenza e coscienza a posto sul farlo ce l’hanno. È interessante porre la questione perché la questione esiste, su come Facebook promuove le falsità. Se lo fanno i giornali italiani, che sono assolutamente dentro un sistema di questo genere da un sacco di tempo, non è che abbiano torto a dire che c’è un problema con Facebook, ma il primo problema che mi porrei è quello di una cultura generale nostra. Come dice questa semplificazione — per certi versi un po’ fondata anche questa — la gente è così delusa e diffidente dell’informazione professionale tradizionale che si fida di qualunque fesso su Facebook che le spara grosse».
SM: «Questo non dipende anche da una forte componente acritica del giornalismo italiano? Poche volte ci si mette in discussione».
LS: «Si. Chissà da dove viene. Ad un certo punto dico nel libro: nei giornali italiani non c’è proprio il format della correzione degli errori, che invece è presente, in modi diversi e con approcci diversi, in molti giornali americani. La domanda è: come mai? Perché? Presso i giornali americani non è una diminuzione quella roba lì. Guardi le correction del NYT e non dici “guarda che coglioni, quanti sbagli hanno fatto!”. Magari ce n’è una particolarmente ridicola e lo dici, “guarda che coglione”, però sta dentro una cosa in cui loro sono i primi a dirtelo, e la trovi apprezzabile. È un pezzo del racconto. Nei giornali italiani l’idea di ammettere l’errore è vissuta come un fallimento, una diminuzione. La prima domanda da fare è: magari hanno ragione? Magari se leggiamo sui giornali italiani quella roba lì diciamo “guarda che coglioni” perché non siamo abituati culturalmente? Non lo so quello che è vero, cosa di cui discutevo con un sacco di miei più autorevoli colleghi ai primi tempi di presenze sui social, anche con Peppe D’Avanzo, sicuramente, che erano inveleniti e incarogniti nei confronti di quelli che gli facevano le pulci online, che sono degli “scassapalle” sensazionali. Credo che uno dei problemi della scarsa inclinazione all’auto-emendarsi e correggersi dei giornalisti è che i modi di chi gli pianta le grane sono così aggressivi e insopportabili che li capisco che gli venga di dire: “A fanculo, ho ragione io, punto!”. Però quello che volevo dire è: siete Repubblica cazzo! Non potete farvi venire un esaurimento nervoso perché un pirla su Twitter ti ha detto “Ah, hai detto una cazzata!” Se il pirla dice il falso escono matti, si incazzano e tutto quanto. Se il pirla dice il vero, siccome lo dice in modo aggressivo e insopportabile, non gliela vogliono dare vinta. Però, tutto questo è una dimostrazione di debolezza. Detto questo, la cosa curiosa è: come mai tanta debolezza? Probabilmente è una tendenza sociale, generale e culturale che va oltre i giornali. Siamo tutti più insicuri e più timorosi di essere beccati».
SM: «Ma quanto è specifica del giornalismo? Molto spesso si parla del livello molto basso di professionalizzazione nel panorama italiano».
LS: «Non so da dove viene. Fino a fare l’indagine, che si fa per molte altre cose, di quanto la scarsa accuratezza e qualità dell’informazione italiana abbia a che fare con la cultura e la storia italiana in generale non sono arrivato e non lo so. Sai le cose che diciamo in tutti gli altri campi per cui sosteniamo “per via della religione cattolica” oppure “è per via dei campanili, siamo così litigiosi perché veniamo da una storia di battaglie tra campanili”, “siamo così cialtroni e chissenefrega perché siamo abituati al perdonismo cattolico” etc. Come mai siamo così inaccurati e trascurati rispetto alla qualità dell’informazione? Magari c’è una radice storica lì da qualche parte?»
SM: «Tornando alla produzione dei contenuti, se non è più il giornalista a farli, almeno non direttamente, chi li produce?»
LS: «No, aspetta, perché dici che non è più il giornalista a farlo?»
SM: «Dimenticavo di dire che mi riferisco al caso italiano, visto che per lo più si traducono articoli esteri…»
LS: «Comunque i giornalisti italiani producono ancora tanti contenuti. Senza arrivare al caso limite del buon Ezio Mauro che è stato spedito a scrivere venticinque pagine sulla crisi della sinistra in un insertone di Repubblica. Ma è pieno di giornalisti che producono, poi, anche lì…»
CB: «Producono interpretazioni. Forse ti riferivi al fatto di andare direttamente sul luogo…»
LS: «Se succedono le cose qualcuno te le deve raccontare. Non è che ad un certo possiamo interpretare l’interpretabile di interpretazione in interpretazione».
SM: «Un’ultima domanda, dato che abbiamo parlato di cultura americana e cultura italiana. La cultura giornalistico-televisiva italiana è molto legata a quella americana, eppure dal punto di vista giornalistico sono due antitesi. Dove sono i legami?»
CB: «Dato che a volte parla della dipendenza culturale dai grandi miti americani, l’assassinio del presidente etc. Poco fa ha fatto anche riferimento al diverso sistema etico con cui si regola il giornalismo americano».
LS: «Ci sono delle cose che inevitabilmente, pur nelle prossimità, sono bacini di culture diverse, è come il calcio, più andiamo avanti e più non gliene frega niente. Non più così niente ormai, però si potrebbe dire “come mai due paesi accomunati dalla cultura, il calcio… etc.” Il calcio, il giornalismo, forse anche altre cose, stanno nel calderone delle differenze, piuttosto che nel calderone delle affinità. Poi differenze fino ad un certo punto, perché molte delle derive di cui parliamo rispetto ai giornali italiani ci sono in tantissimi giornali americani. La vera differenza è che una nicchia, uno standard di qualità ed accuratezza maggiore lì c’è. È una nicchia, perché per un NYT o un Washington Post — o un Wall Street Journal finché non arrivi alle pagine delle opinioni — ci saranno cinquemila giornali fatti male e cialtroni. Però c’è uno standard generale, almeno teorizzato, per cui se succede un incidente di falsità palese, lì la gente la mandano via, la licenziano, si scusano, si vergognano, “è una catastrofe, etc.” Qui manca lo standard. Succede e si fa finta di niente».