Intervista a Tommaso Labate

Sacha Malgeri
La Mosca Bianca
Published in
18 min readJul 24, 2017

Tommaso Labate è un giornalista del Corriere della Sera. Opinionista e retroscenista politico, ha scritto per molte testate nazionali (Il Riformista, Pubblico Giornale, l’Unità etc.). Inoltre, è un affermato presentatore e opinionista televisivo: ha condotto, insieme a David Parenzo, In Onda su LA7. In questo momento conduce #CorriereLive, programma di approfondimento in diretta streaming di Corriere.it

Questa intervista, di Sacha Malgeri e Cristiano Battistini, fa parte di un’inchiesta intitolata “Giornalismo testimonianza e Giornalismo Cabaret”, portata avanti dalla classe di Giornalismo Laboratoriale dell’Università di Parma, corso di laurea magistrale in Giornalismo e cultura editoriale. L’inchiesta ruota su questi due concetti, chiedendosi se siamo passati da un tipo di giornalismo improntato sulla testimonianza, sul riportare i fatti, ad un tipo più spettacolarizzato, cabarettistico.

Sacha Malgeri: «Partendo dall’idea di un giornalismo inteso come testimonianza, com’è possibile farla in un’epoca in cui è sparita la figura dell’inviato?»

Tommaso Labate: “È molto più difficile, effettivamente. Essendo i giornali molto in crisi hanno più difficoltà, rispetto a prima, nel mandare gli inviati. Considera che tutta questa tendenza dei giornali — del mandare meno inviati in giro perché c’è una crisi che riguarda la stampa — incrocia il fatto che da fuori arrivano notizie nei modi più disparati. Se una volta la rivolta di piazza Tienanmen la conoscevamo soltanto attraverso gli occhi degli inviati che stavano lì, adesso basta un cinese con il cellulare. Questo da un lato riduce la qualità delle notizie perché non abbiamo l’occhio di un giornalista che fa da filtro, dall'altro abbiamo uno spettro più ampio, che riusciamo a controllare anche grazie alla tecnologia, così da concentrarci di più su quella che è l’analisi. Anche se fare analisi su cose che non si vedono direttamente è sempre più complicato. Credo che questa cosa si inserisca in un contesto in cui il giornalismo vive un momento di crisi anche come professione in sé stessa. Abbiamo meno inviati ad Aleppo sul fronte di guerra in Siria ma gli inviati negli Stati Uniti ce li avevamo, e nessuno di questi, uniti ai giornalisti americani, è riuscito a cogliere il fenomeno-Trump che stava scardinando l’America da dentro, proprio perché i giornalisti italiani, e a questo punto anche i big americani, erano dislocati nelle coste dove, in realtà, succedeva poco o nulla rispetto a quello che stava travolgendo l’America “dal di dentro”. È una crisi economica, che incide sul fatto che abbiamo pochi inviati in giro, ma è anche una crisi di qualità dei giornalisti attuali. Il caso americano è la prova per cui tu gli inviati ce li puoi avere ma, comunque, un fenomeno non lo cogli».

Cristiano Battistini: «In quest’epoca in cui le notizie arrivano da tutte le parti e l’offerta di informazione è enorme — non arrivano più solo dalle agenzie e dagli uffici stampa ma anche da internet, in tanti modi diversi — al giornalista non rimane solo un ruolo di filtro delle informazioni?»

TL: «Non direi “solo”, perché è una questione importantissima. Anzi, il fatto che rimanga il filtro nobiliterebbe ancora di più la professione, perché siamo praticamente inondati. Il web ormai produce più spazzatura che notizie vere. Anche nei momenti di crisi massima della carta stampata è sempre la carta stampata che dà le notizie. Gli scandali che riguardavano Berlusconi — le “olgettine” etc. — chi li ha dati? Internet? No, la carta stampata. Tutte quelle che sono le notizie: le cose che hanno successo e gli scandali che hanno travolto il potere, in Italia e in Europa, sono sempre e comunque partite dai giornalisti della carta stampata. Poi la tv, il web e le radio le hanno amplificate, ovviamente. Al giornalista — in senso classico — resta un ruolo di filtro: ed è un ruolo importantissimo. Viviamo nella società che legge meno giornali in assoluto e che è, paradossalmente, più informata rispetto al passato, anche perché ciascuno, con internet in mano, è più o meno cosciente di essere informato. Poi, se lo sia, bene o male, è un’altra questione. Se al giornalista resta un ruolo di filtro, un ruolo di “notaio”, è comunque un importantissimo ruolo oggi perché nel mare magnum delle cose che arrivano dal web la maggior parte sono da cestinare. La questione da porsi è se le persone riconoscono ai giornalisti questo ruolo o se fanno di testa loro, condividendo il “Giomale”, il “Fatto Quotidaino” o le notizie fatte apposta per “fare click”».

CB: «Ma i giornalisti stessi selezionano sempre bene o c’è, a volte, della trascuratezza nel selezionare le notizie?»

TL: «C’è anche della trascuratezza, spesso».

Tommaso Labate.

SM: «In questo panorama in cui il giornalista non ha il più il “monopolio dell’informazione” — nel senso che non è più l’unico a maneggiarle — le redazioni dei grandi giornali hanno ancora quel potere nella diffusione delle notizie e nella formazione delle idee?»

TL: «Secondo me hanno ancora potere, anche se arriva alla gente in maniera inconsapevole. Bisogna leggere i giornali o essere addetti ai lavori per rendersi conto che le scalette dei telegiornali — di tutti i telegiornali nazionali — in realtà sono mutuati dagli articoli della stampa, dei giornalisti e dei giornali ai quali si affidano. Certe volte mi capita — le volte in cui sono di coorte e sono a casa — di stare in cucina e sentire una roba al TG3 e di riconoscere quello che ho scritto il giorno prima che stava sul Corriere della Sera della mattina. Questo vuol dire che i giornali dettano ancora l’agenda e determinano il modo di fare informazione. Un articolo di giornale viene amplificato dai pezzi dei telegiornali e anche i talk show sono mutuati dal giornale della mattina o da quello che il sito internet del grande quotidiano scopre. L’influenza dei giornali è ancora forte ma lo sarà ancora per poco se non torneranno a guadagnare da questa attività, poiché l’informazione, ovviamente, costa: non può essere gratuita».

CB: «Parlando di retroscenismo politico come tipo di giornalismo. Secondo lei, data la scarsa verificabilità dell’operazione, è comunque un tipo di giornalismo testimonianza?»

TL: «Sì, anche perché la verificabilità c’è. Io ne faccio, di retroscena — è una delle cose che faccio di più — e c’è un modo molto chiaro per definire se uno scenario delineato è verificato oppure no. Faccio un esempio concreto, e faccio esempi che mi riguardano perché sono più ferrato. L’altro giorno — poteva essere martedì o mercoledì — ho scritto un retroscena per il Corriere della Sera: “Berlusconi pronto a candidarsi di nuovo”. Abbiamo messo un titolo grosso, etc. In molti abbiamo detto “ma figuriamoci! Non vuole nemmeno lui! Sta male” etc. Poi Berlusconi ha parlato, negli ultimi due giorni, in due interviste pubbliche ed ha confermato che è pronto a candidarsi. Se avesse detto di esser pronto a ritirarsi il retroscena si sarebbe sciolto come neve al sole e con esso la credibilità, o un pezzo di credibilità, di chi l’aveva scritto. Le cose, nei retroscena, sono semplici da verificare: basta vedere se si realizzano».

SM: «Però uno dei problemi è che non vengono citate le fonti e capita, in molti giornali, che sembrino dicerie. Si parla di voci di corridoio…»

TL: «Ma sono voci di corridoio! Il problema è che in un corridoio, se sei un giornalista con delle fonti, sai se la fonte che hai è un mitomane o se è una persona con cui, magari, parli da anni e non ti ha mai rifilato una “sola”».

SM: «Quindi dipende dal rapporto personale?»

TL: «Assolutamente, dipende dal rapporto personale. Però è un genere entrato in crisi, come può entrare in crisi il mercato degli orologi di una certa marca perché molti sono contraffatti. La gente ha iniziato ad inventarseli, i virgolettati non sono esatti etc. Costruire un retroscena è un’arte. Però se il mondo dei retroscena è infestato di retroscena finti e di gente e siti che se li inventano, a questo punto si svilisce il genere, che comunque ha dato tantissimo al giornalismo. I grandi scandali della storia politica italiana e internazionale sono nati attraverso i retroscena. La questione delle fonti è molto importante, ma anche nel giornalismo statunitense, considerato il più ligio a determinate liturgie e regole, certe fonti non si citano. Si dice: “Dice che la persona vicina al dossier è un membro del governo che…”. Poi è come con la marca degli orologi o dei biscotti: se ti fidi della firma che l’ha scritto, l’autorevolezza della firma fa premio con la garanzia che il fatto esista oppure no. E l’autorevolezza te la guadagni se, invece di scrivere cose che non si sono mai realizzate, scrivi di cose che si realizzano. Premesso che tutti possono sbagliare».

SM: «A proposito di questi argomenti, Luca Sofri, il direttore de Il Post, in un articolo sul suo blog personale tratta i presunti cori contro la minoranza Pd alla Leopolda di quest’anno, affermando che la narrazione distorta della politica diviene essa stessa politica. Che ne pensa di questa affermazione? La distorsione dei fatti è spesso un’operazione volontaria o dipende anche dalla pigrizia e dall’irresponsabilità dei giornalisti?»

TL: «In molti fatti della vita è il caso che determina certe situazioni. Passi col motorino nel momento in cui c’è quell’ubriaco che non si è fermato allo stop, ti butta giù e magari ti rompi il gomito. Non possiamo pretendere che tutti i casi della vita siano attraversati dal caso e che il giornalismo e la politica non abbiano determinate di queste sfaccettature. Capita anche alla politica: è capitato, probabilmente. Io non c’ero, ma ho numerose testimonianze che mi confermano la tesi di Sofri. Quindi può capitare. Come è capitato molto spesso che fatti collaterali causassero guerre mondiali. Come può anche succedere che un fatto politico, se amplificato, determini delle conseguenze imprevedibili. Le responsabilità del giornalismo, in questo caso, ci sono, ma ci sono anche degli attori in causa. Se il coro “fuori, fuori” fosse arrivato da un’adunata di orsoline nessuno avrebbe dato il peso che ha avuto. Visto che è arrivato in un clima che era già sufficientemente surriscaldato come era quello della Leopolda con gli interventi che abbiamo visto dal palco, è stato forse amplificato e considerato aderente a quel tipo di situazione da creare un cortocircuito politico. Sono cose che possono accadere, e stop».

CB: «Vorrei tornare un secondo al discorso che faceva riguardo alla crisi economica generale del giornalismo e all’esigenza di vendere, avere lettori. Secondo lei a causa di questo negli ultimi anni c’è stato un peggioramento della qualità dei contenuti e della scrittura in alcuni giornali? Quasi un inseguire uno stile da tabloid, maggiormente pronunciato rispetto al passato. Mi riferisco sia al cartaceo che ai siti web dei grandi giornali».

TL: «Sì. Ci sono due cose che vanno di pari passo, tutte e due in una direzione non positiva per il giornalismo. Sapete come la crisi economica incide sulla stampa: entrano in crisi le aziende; le aziende fanno meno pubblicità; la gente compra meno giornali; la pubblicità nei giornali costa meno etc. Ci troviamo nella situazione paradossale di avere la società iperinformata — più informata, più connessa, più attiva, più attenta della storia di sempre — con l’informazione a pagamento più in crisi di sempre. Come se fossimo sopra una miniera d’oro e non riuscissimo a raggiungerla. Non è solo un problema italiano, riguarda anche gli Stati Uniti e nessuno è riuscito a trovarne degli “anticorpi”, almeno in questo momento. Questo che cosa comporta? Comporta che molto spesso si insegue — quello che dicevi tu prima: si cambia il modo di fare e di scrivere i pezzi, ma anche di dare la notizia — il click in più che ti farà pagare di più la pubblicità su internet. Esempio: tutti i titoli civetta scandalosi e orribili che ormai riguardano anche i siti dei principali quotidiani. “Renzi dice: ‘domani invado la Corea del Nord’ ”: questo sarebbe stato il titolo dei principali siti autorevoli, mentre adesso questo succede molto meno. Adesso diventa: “Frase shock di Renzi alla Leopolda, sentite cos’ha detto sull’Asia!”, così tutti vanno a vedere etc. Finchè succede con una notizia del genere, indubbiamente finta che ho usato a titolo d’esempio, va bene. Ma se poi si scade, per esempio, in una rissa tra due giornalisti in un talk show, uno del PD e uno di Forza Italia, ed il titolo diventa: “Sangue in televisione: ecco cos’è successo” …»

CB: «L’asticella si alza sempre di più ed è sempre più dura starci dietro».

LT: «Si alza sempre di più l’asticella. È come per la teoria dell’utilità marginale in economia. La sapete? Se io ho fame, il primo hamburger che mangio ha un valore altissimo per me. Ma se ne ho mangiati già 100 durante il giorno l’ultimo ha valore Zero. Per cui: “Guarda cos’è successo alle dieci!”, “guarda cos’è successo alle undici!”, “incredibile alle dodici!”, magari alle quattordici succede veramente la notizia incredibile e i lettori non se la filano più».

Tommaso Labate su La7.

SM: «Passiamo ad un altro suo ambito, i talk show. Qual è il criterio, solitamente, nella scelta degli ospiti? Immagino dipenda anche dalle notizie del giorno, ma quali sono gli altri criteri in gioco nella scelta?»

TL: «I criteri fondamentali sono: avere un ospite il più possibile legato alle notizie del giorno e che sia rappresentativo di un mondo. Se devo parlare di Renzi scelgo — sulla base delle mie competenze — uno che rappresenti veramente Renzi e non uno dei “cento milioni” di renziani nel PD, in modo che ciò che dice in televisione possa essere percepito e rappresentato come la voce effettiva di Renzi. Questo ovviamente vale per Berlusconi, Salvini, per la Lega, i Cinque Stelle etc. Dopodiché, stare sulla notizia del giorno, molto spesso… io vengo dalla carta stampata. Incrocio il mondo della Tv ma non è il mio mondo. Ho fatto delle trasmissioni e ne farò delle altre ma non è il mondo che conosco meglio. Lavoro con degli autori bravissimi di televisione ma hanno spesso il riflesso condizionato di dire “questo va bene in Tv”, “questo qua l’ho visto, è molto spigliato”. La notizia, invece, vince sempre! Vi faccio un esempio pratico. A noi, l’anno scorso, durante la stagione di In Onda — non quest’ultima ma quella prima — ci scontrammo, nel senso che la puntata andava in onda allo stesso orario, con un programma di Riotta su Rai 3. Quella sera aveva: Berlusconi; Renzi; Salvini (al massimo della sua popolarità); Landini; Tornatore; il chitarrista dei Queen Brian May… abbiamo visto la scaletta degli ospiti e abbiamo detto “questo domani ci uccide. Guarderemo i risultati dell’ascolto e ci spareremo”. Invece che abbiamo fatto? Quelli erano grandi volti della Tv, con una grande familiarità col pubblico — quindi il pubblico li vede, magari, e si ferma. Da noi c’era lo scandalo che riguardava il centro di accoglienza Cara di Mineo. Non so se ne avete mai sentito parlare, quello della Sicilia al centro di grandi scandali con dei vincoli in Mafia Capitale, etc. etc. Il protagonista della faccenda è un sottosegretario del governo Renzi: Giuseppe Castiglione, del Nuovo Centro Destra di Alfano, ed era indagato. È una persona che, visivamente, non dice niente a nessuno però era la notizia del giorno perché quel sottosegretario era su tutti i giornali. Invitammo lui, l’uomo del giorno, e il giorno dopo — nonostante Rai 3 abbia delle medie più alte di La7 — li avevamo battuti, abbiamo avuto più telespettatori noi con un signore [Non capisco neppure io] che non quell’ondata di…»

CB: «La forza della notizia ha prevalso».

TL: «La forza della notizia alla fine prevale. Poi possiamo anche ragionare sul fatto che la forza della notizia prevale molto più in Tv come La7 dove chi è “drogato” di notizie si tuffa in continuazione, e questo senz’altro. Fossimo andati su Italia Uno… però noi li abbiamo battuti, quindi è segno che l’attenzione alla notizia del giorno è una caratteristica che molto spesso batte anche la familiarità, la conoscenza o l’interesse verso determinati tipi di ospiti».

CB: «Il talk show si svolge in televisione; le chiedo: secondo lei dove si situa il confine tra informazione e spettacolo?»

TL: «Dipende da talk show e talk show: nell’esempio che ho fatto prima, ovviamente, non c’è spettacolo, perché tu hai invitato una faccia poco “spettacolare” oggettivamente, poco nota, per privilegiare la notizia. In molti casi però ci sono diversi registri con cui affrontare determinate cose e più che spettacolo, la sorpresa che tu dai rispetto a un programma è sempre un valore aggiunto. Per esempio, nel programma che io e David Parenzo facciamo — non perché vogliamo parlar bene di noi stessi ma parliamo di cose che sono abbastanza oggettive e che ci riconoscono — succedeva sempre “qualcosa” o di imprevisto o di poco noto, ma era sempre “qualcosa” che finiva sistematicamente nelle clip del Corriere della sera e di Repubblica, e non era mai “quello scivola” o “quello chiama o insulta”, era sempre qualcosa che si produceva là dentro. Il caso di scuola che capitò a noi per primi e per il quale venimmo anche molto contestati fu la famosa puntata col Casamonica collegato dalla piazza il giorno dopo i funerali, che cominciò a discutere con Salvini e con Travaglio che erano invece nostri ospiti. Dopodiché, all’inizio ci criticavano tutti — “ma voi vi collegate con un Casamonica, gli date voce…” — quando poi poco tempo dopo lo fece Bruno Vespa — apro e chiudo parentesi, per me è un grandissimo giornalista –, la gente, guardando il modo in cui aveva trattato l’argomento Vespa, ha rivalutato il modo in cui l’avevamo fatto noi. Chi si aspettava il giorno dopo i funerali dei Casamonica, di cui tutti parlavano, un Casamonica in televisione? Nessuno, eppure noi l’abbiamo fatto perché era “la notizia”. Era anche spettacolo? Ha prodotto degli effetti sorprendenti? Questo non lo nascondo, però di base la giustifico con un piglio giornalistico e l’ascolto mi ha premiato, e anche la critica poi».

SM: «Volevo farle una domanda sull’ironia che lei e Parenzo utilizzate nella conduzione di In onda, specialmente all’inizio o nella chiusura del programma. Sono situazioni spontanee o le concordate con gli autori?»

TL: «No no sono sempre diverse, poi sapete com’è, una cosa che funziona la si fa sempre. Il concetto nostro è molto semplice: noi non vogliamo essere “pallosi”, ci rendiamo conto che non siamo i primi ad arrivare sulle notizie perché sono state già sentite etc… Noi vogliamo — come dire — anche “cazzeggiare” in un momento del programma a patto che non si perda mai l’autorevolezza: all’interno di una cosa in cui tu conservi l’autorevolezza — se hai D’Alema, se hai Boschi, se hai Salvini eccetera — perché alla fine di tutto questo non salutarsi in maniera cordiale come si farebbe in una cena tra amici? Molto spesso l’eccessivo rigore, l’eccessiva sobrietà, le eccessive liturgie di questo mondo, a parte che a me non piacciono, però se mi mettessi a farle rispetto a una o due generazioni di giornalisti prima di me, inseguirei quelli sul loro terreno. Questa è un po’ la nostra cifra: ragionare, e bene, e approfondire le cose ma farlo anche alleggerendo la situazione nel momento in cui ad esempio ci si saluta; a meno che ovviamente non si tratti di notizie gravi. Esempio recente il terremoto di Accumoli ed Amatrice. Lì noi abbiamo avuto un’idea importante. Di solito quando accade una catastrofe naturale di questo genere tu attivi tutte le tue forze e le mandi sul posto. Noi invece abbiamo fatto una cosa diversa: siamo andati noi, io e lui, cioè i conduttori, nelle vesti di inviati e abbiamo fatto il programma, la diretta della sera stessa da Amatrice con degli inviati in collegamento da lì, ma anche con degli ospiti che stavano al posto nostro nel tavolo di Roma (ricordo che c’era Sergio Rizzo tra gli altri). Anche quella è stata una cosa inedita: spostare gli inviati lo facevano tutti, giustamente, l’abbiamo fatto pure noi; in più noi abbiamo spostato anche la conduzione. È stata una cosa che abbiamo sentito di fare e che ha fatto crescere la considerazione che gli altri avevano di noi».

SM: «Ricordo infatti di averla seguita durante la diretta successiva al terremoto ad Amatrice. Le vorrei chiedere: in che modo un programma televisivo di informazione può raccontare tragedie del genere senza essere aggressivo ed invasivo?»

TL: «Bellissima domanda. Io ricordo ancora il viaggio in macchina verso i luoghi del terremoto, viaggio difficile, giornata complicatissima, i service per andare fuori erano difficilissimi da trovare: durante il viaggio abbiamo avuto il tempo di stabilire dove ci saremmo messi e stabilire determinate cose. Prima di tutto abbiamo deciso che non avremmo rotto le palle a nessuno: nessuno sarebbe stato intralciato nel suo lavoro di soccorritore o disturbato nel suo, diciamo, “ruolo” di vittima del terremoto. Abbiamo dato voce a chiunque la chiedesse in quel momento; se non l’avesse chiesta nessuno saremmo andati avanti io e lui a parlare e a raccontare gli avvenimenti con i servizi e gli inviati. Prova ne è che eravamo proprio tra Accumoli e Amatrice, a Pescara sul Tronto, dove davanti a me — a cinque metri — stavano montando una delle più importanti tendopoli per i primi sfollati che stavano arrivando: noi non ci siamo azzardati a fare il passo in avanti che avrebbero fatto tutti per mostrare la tendopoli e fare domande alle persone che giungevano tipo: “Lei come si sente…” — nulla di tutto questo. Riprendemmo l’avvenimento da lontano e la tendopoli era inquadrata da dietro come una struttura che prendeva forma. Il giorno dopo — per essere puntigliosi anche se io non vado mai appresso agli “haters” sul web — mi segnalano un post su Facebook di una ragazza che aveva scritto: “Che sciacalli Labate e Parenzo a fare la trasmissione sul terremoto”; mi sono talmente impuntato che ho lasciato da parte tutto quello che stavo facendo e mi sono collegato con questa ragazza e le ho chiesto: “Ma su quale base ti sei permessa di dire una cosa del genere se io non mi sono neppure avvicinato…” Cosa era successo alla fine? Non aveva visto la puntata, aveva visto un pezzo di collegamento e il riflesso condizionato era stato “giornalisti più luogo del terremoto uguale sciacallaggio mediatico” …»

SM: «Come dire “sono tutti uguali” …»

TL: «…mi ha chiesto scusa, e tra l’altro io l’ho cercata perché non era una “hater” o simili ma un vice sindaco di un paese in provincia di Milano del Partito Democratico — un personaggio delle istituzioni, per me le istituzioni sono sacre. Io avevo da fare molte cose e ho mollato tutto per scrivere a lei, era anche una blogger dell’Huffington Post, insomma l’ho cercata con tutti i mezzi solo per chiederle: “Perché hai scritto questo post qua ieri?” Mi ha chiesto scusa e fine della storia. Perché lo sciacallaggio ce l’avevo ad un metro, ma io non l’ho fatto».

SM: «Beh poi sa di seguire un’etica professionale e le dà fastidio che venga messa in dubbio».

TL: «Assolutamente, io mica me la sarei sentita di tornare a casa e sentire mia mamma che mi telefonava, magari per spaccarmi la faccia: “ma come ti sei permesso di andare lì…” (Ride n.d.r.) Noi siamo andati perché chi avesse voluto avrebbe potuto parlare e abbiamo montato il set senza disturbare nessuno. Poi le persone vengono perché oltre al dolore enorme e devastante del momento presente hanno bisogno di ascolto, devono comunicare al resto del paese quello di cui hanno bisogno. La loro sopravvivenza del futuro passa anche dal modo in cui viene comunicata la loro situazione presente».

CB: «Le pongo un’ultima domanda. Talk show e litigi: litigi in diretta, litigi tra gli ospiti. Sono un problema, sono un valore aggiunto: uno Sgarbi uno se lo spende sempre bene in una trasmissione?»

TL: «Mi fa piacere che hai citato Sgarbi. È un personaggio che ha creato un po’ la sua fortuna su questa cosa e viene invitato anche per questo motivo. La cifra che invece noi abbiamo dato a Sgarbi, soprattutto nell’edizione di quest’anno, è stato di fargli commentare da solo — ed è diventato un “angioletto” — le bellezze e le bruttezze del Paese: abbiamo fatto due o tre puntate speciali — di cui una anche post terremoto — le bellezze distrutte dal terremoto — com’erano e come sono dopo il sisma. E lui con il candore di un’educanda e valendosi della sua grande competenza, ha fatto delle spiegazioni nelle puntate bellissime; certo, cedendo molto spesso all’ironia, al piglio che spesso gli è più congeniale. Abbiamo fatto una puntata sui capolavori italiani, tra i quali il Cenacolo di Leonardo da Vinci. Lui lo racconta in modo esemplare, da farne “pillole” da mandare nelle scuole, però lo fa in “sgarbese” — parla da solo, non litiga con nessuno ma a un certo punto deve spiegare questa figura — che non avevo mai capito da solo, ma con la sua spiegazione l’ho capita persino io che non sono un esperto d’arte — di San Giovanni, girato dall’altra parte rispetto a Gesù e dice: “Sapete perché è girato? San Giovanni è un grande rompicazzo, un grandissimo stalker di Gesù, lo vedete in tutte le rappresentazioni iconografiche che è sempre abbracciato o ai piedi e noi lo vediamo distante perché a San Pietro viene l’idea di chiamarlo e quello si gira e il rompipalle per la prima volta è immortalato da Leonardo in maniera ‘non da stalker’”. Sgarbi lo definisce “il primo stalker della storia”. Spiegato così io ho capito per la prima volta — e non c’avevo mai fatto caso — qual è l’iconografia classica di San Giovanni e qual è la novità nel Cenacolo di Leonardo, spiegato in maniera perfetta, cedendo un pochino all’ironia, al piglio, al linguaggio colorito ma con un’esposizione che secondo me è da mandare nelle scuole. E l’ha fatta da noi».

SM: «Anche se spesso Sgarbi sfocia molte volte nel volgare. Le chiedo: la volgarizzazione è necessariamente una spettacolarizzazione? Davvero il pubblico è legato a queste forzature? Non sono a volte solo operazioni dei media per produrre un contenuto “qualsiasi”?»

TL: «È tutta una questione di novità. La volgarizzazione della tv, quella che chiamarono “tv spazzatura”, la cui origine, probabilmente, si fa risalire alla famosa rissa Sgarbi-D’Agostino, al bicchiere d’acqua lanciato, nel programma di Giuliano Ferrara aveva successo perché arrivava al termine e interrompeva quel tipo di tv austera dove non c’erano scontri o parolacce. Quindi piaceva perché era diversa. Era come la Playstation quando in giro c’erano solo i Commodore 64. Adesso che in giro ci sono solo Playstation magari uno riscopre il vintage, nel nostro caso l’eleganza di un dibattito più tranquillo. Quindi è tutta una questione di “overdose” e di novità. La tv spazzatura volgarizzata ad arte e con liti create ad arte quando era l’eccezione piaceva, quando è diventata la regola non piaceva più. Infatti la tv che fa soltanto questo e che soprattutto lo lega a dei contenuti “seri” non ha più molto successo».

--

--

Sacha Malgeri
La Mosca Bianca

Studente, corso di laurea in Giornalismo e cultura editoriale. Aspirante giornalista spiegone.