Non è sempre e solo colpa di internet

Sacha Malgeri
La Mosca Bianca
Published in
8 min readAug 6, 2017

Quando si tratta il peggioramento della qualità dei contenuti giornalistici le accuse al web sono all’ordine del giorno. “È colpa di internet” è una delle molteplici giustificazioni (e semplificazioni) usate nelle discussioni e negli articoli riguardanti lo scadimento della qualità dei prodotti-informazione. L’estrema accessibilità ai contenuti, misto alla possibilità, per gli utenti, di produrli in autonomia, concorrerebbe a peggiorare la situazione. La narrazione giornalistica ha perso, in parte ma in modo consistente, la sua autorevolezza e rilevanza. Il giornalista professionista non concorre più solo con i suoi colleghi, ma anche con l’enorme massa di produttori di contenuti non professionistici che troviamo nel mondo di internet, visto molto spesso come il regno delle notizie false: blog, social network, piattaforme di Citizen Journalism, siti web di diverse qualità, etc. Un ulteriore conseguenza di questa apertura è la perdita del controllo del flusso delle informazioni da parte delle grandi redazioni giornalistiche, che ne hanno detenuto il controllo quasi esclusivo per anni.

È una semplificazione, molto in voga nei dibattiti giornalistici (utilizzata per lo più per mascherare le colpe dei giornalisti), ma la premessa da tenere a mente è che questo — quello tra giornalismo e web — è un rapporto ambivalente e complesso. I critici del ruolo di internet dimenticano i molti vantaggi che le nuove tecnologie hanno portato al lavoro dei giornalisti, prima di tutto a livello spaziale. La presenza fisica sul luogo non è più strettamente necessaria al racconto di una storia, il web ha messo in gioco moltissimi elementi che permettono di realizzare una narrazione accettabile e accurata seduti comodamente a casa propria. È una questione complicata anche questa, poiché la lontananza dal luogo può portare anche a narrazioni fuorvianti, distaccate dalla realtà che vogliono descrivere. «Io, personalmente, non conosco altri modi di fare giornalismo, al di fuori dell’obbligo della presenza», afferma Domenico Quirico ad un incontro all’Università di Parma del 1 dicembre 2016, ed è una posizione condivisa da molti giornalisti, che devono però convivere con le difficoltà economiche delle aziende giornalistiche, impossibilitate a mandare un gran numero di inviati in giro per il mondo.

Le due dimensioni non si escludono a vicenda: l’uso delle tecnologie può integrare e migliorare la presenza sul campo. Inoltre l’accessibilità ad una sterminata quantità di fonti permette al giornalista una più completa, anche se laboriosa, operazione di verifica e di debunking, cioè l’analisi della notizia volta a scomporla così da rintracciarne le origini: com’è nata; da dove è partita; come ha fatto a diventare virale; cosa è vero e cosa è falso; se le immagini utilizzate sono autentiche etc.. Il web ha inoltre migliorato la coordinazione tra le redazioni, la reperibilità delle fonti ed il mantenimento delle comunicazioni con essi; l’approfondimento continuo e dettagliato delle notizie, che possono essere seguite mano a mano che si trasformano. Le notizie ormai cambiano repentinamente, e le redazioni possono seguirne le evoluzioni in diretta. La dimostrazione principale è la proliferazione dei live blog: una pagina dove un giornalista pubblica aggiornamenti minuto per minuto, in modo consequenziale. Gli aggiornamenti non dipendono solo dalle notizie della redazione e dalle fonti ufficiali e di prima mano, ma anche dalla comunicazione dei cittadini, che sfruttano i social network — e non solo — per veicolare le informazioni che hanno a disposizione (vere o false che siano). Un esempio sono proprio le piattaforme di citizen journalism, che mettono a disposizione materiali (che il giornalista dovrà accuratamente verificare) in diretta, sul campo e senza bisogno di un contatto diretto (anche se quello è sempre auspicabile, come afferma Craig Silverman nel suo Verification Handbook), ma anche le piattaforme ufficiali dei media.

Nel mondo molto vario e complesso del web, si trovano progetti giornalistici affidabili e coerenti portati avanti anche da giornalisti non professionisti. Gli stessi media tradizionali creano appositi spazi online di citizen journalism, come fa per esempio il Guardian con la piattaforma Guardian Witness. Un altro ambito in espansione, sia a livello professionale sia ad un livello più “spontaneo”, è quello del fact checking: ogni redazione si sta equipaggiando di giornalisti che si concentrano sulla verifica delle notizie e delle dichiarazioni, spinti anche dalla crescita di siti del genere di non professionisti. Progetti come Pagella Politica in Italia o Snopes.com negli USA iniziano ad avere un ruolo sempre maggiore nel dibattito giornalistico attuale. Con ciò, non bisogna dimenticare l’enorme serie di problematiche che una tale accessibilità si porta dietro.

Questa marea di notizie false e di contenuti spazzatura ha complicato il lavoro del giornalista, costretto a dover sottoporre ogni elemento ad una verifica attenta che in certi momenti viene trascurata. Con ciò non voglio dire che l’operazione di verifica delle informazioni sia un’operazione nata in tempi recenti, ma che è mutata la natura di quest’operazione. Il modello di business attuale richiede velocità elevate per quanto riguarda la produzione delle notizie, con il risultato che spesso è proprio il processo di verifica a farne le spese e a venire trascurato. Il debunking richiede tempo, e arrivare per primo su una notizia garantisce una fetta significativa di introiti pubblicitari, dettati dal numero di visualizzazioni che il sito riesce a raccogliere. L’advertising è cio che permette la sopravvivenza di un sito, e ragionare in termini quantitativi — cioè basandosi sul numero complessivo di visualizzazioni — non può che concorrere allo scadimento dei contenuti. In questo modo notizie appetibili ma non verificate, false o altamente spettacolarizzate hanno trovato sempre più spazio tra le pagine, sia cartacee che web, dei grandi media tradizionali.

Per certi versi, come afferma Craig Silverman[1] nel suo Bugie, bugie virali e giornalismo, è un modello che incentiva la produzione di contenuti falsi o “spazzatura”. È un circolo vizioso che si autoalimenta, poiché i grandi media veicolano spesso questi contenuti, dandogli autorevolezza. In Notizie che non lo erano Luca Sofri ritiene che la distinzione giornali/internet sia addirittura fuorviante: «non esiste la distinzione giornali/internet, e quando diciamo che su internet circolano molte notizie false, quelle sono in buona parte notizie false immesse o amplificate in rete dai siti dei giornali e che i giornali di carta già immettevano e immettono nell’informazione offerta ai loro lettori.»

Continua Silverman: «Oltre a causare altri problemi, questa assenza di verifica fa anche sì che i giornalisti siano facili complici di impostori e falsificatori che, per guadagnare credibilità e traffico, cercano di ottenere che la stampa citi le loro dichiarazioni e i loro contenuti». Dietro alla produzione di notizie false si sta creando una rete di siti che li producono volutamente, senza nessuna pretesa se non quella di guadagnare. Un’inchiesta di Paolo Attivissimo, pubblicata sul suo blog e in collaborazione con David Puente, ha mostrato una rete di siti produttori di notizie false in Italia, ospitate da un unico dominio, riconducibile ad un’azienda italiana in Bulgaria. Dato il facile guadagno, sembra molto plausibile che possa essere un fenomeno in espansione. I titoli sensazionalisti e “acchiappa-like” tipici dei siti di notizie falsi trovano terreno fertile su Facebook e suoi social in generale. Ma non sono pratiche estranee ai media tradizionali, che utilizzano gli stessi stratagemmi per veicolare contenuti superficiali o non verificati per poi ripararsi sotto l’ombrello della retorica della libertà di stampa e d’informazione.

Il giornalismo, quindi, vive una contraddizione piuttosto complicata: la necessità di velocizzare le pubblicazioni si scontra con il ruolo di filtro delle informazioni del giornalista, anch'esso trasformato con i cambiamenti tecnologici. È un ruolo intricato, dato il nuovo panorama dell’informazione: il giornalista ha a che fare con una grande varietà di fonti e di informazioni contrastanti, dal quale deve estrapolare le informazioni più affidabili. Il debunking diventerà una delle competenze più richieste al giornalista, saper destrutturare una storia per capirne il grado di verità. è un ruolo di servizio pubblico anch'esso: evidenziare le falsità per un pubblico che non ha gli strumenti per poterlo fare da solo, così da metterlo in guardia. In un certo senso, è un bagno d’umiltà del giornalismo, che non ha altro modo per sopravvivere che mettere in dubbio sé stesso, o, per lo meno, è una certa richiesta di attenzione e cautela. Gli errori, nel mondo dell’informazione, a volte sono ininfluenti, ma più spesso hanno conseguenze vere, e dolorose. L’attenzione nella stesura di articoli — o altri prodotti informazionali — è un dovere giornalistico vero e proprio. Inoltre, per quanto abbiamo già riconosciuto che le grandi redazioni hanno perso una buona parte del loro potere di gestire le informazioni, il potere residuo che rimane non è una questione da sopravvalutare. I giornali hanno ancora la capacità di influenzare, anche in un’epoca in cui i loro contenuti vengono messi costantemente in discussione — e a ragione. Quindi l’influenza dei media tradizionali è ancora forte, e un singolo errore può essere amplificato dagli altri media, così che si diffonda. E i danni di questi errori rimangono, poiché le smentite non riescono ad avere lo stesso impatto mediatico della notizia originaria. Silverman — utilizzando Emergent. un database che ha usato per svolgere un’indagine su come si evolvono le notizie non verificate ma pubblicate lo stesso dai media — ha rilevato come gli articoli di debunking non raggiungano quasi mai lo stesso numero di interazione dell’articolo non verificato o falso.

Ma bisogna distinguere gli errori dalle “pratiche disoneste” vere e proprie — spiegate proprio da Silverman e Sofri nei loro libri — quali l’utilizzo di titoli che si discostano dai contenuti dell’articolo; manipolazione dei virgolettati; frasi volutamente faziose; articoli sul web modificati senza una pubblicazione di una rettifica così da non permettere agli utenti di accorgersi dell’errore originale; conformismo degli articoli; pubblicazione affrettata di notizie non verificate ma che potrebbero generare un grosso traffico di lettori; etc. Il giornalismo non è un mondo ideale, bisogna convivere con gli errori, le irresponsabilità, la pigrizia e la malafede, e aiutare il lettore a districarsi da queste insidie. In gran parte, come abbiamo già visto, queste pratiche sono dovute al modello di business particolare del giornalismo, che non consente, alla maggioranza dei media, di sopravvivere senza l’utilizzo di questi contenuti. Il futuro di questi dipenderà dal tipo di equilibri commerciali che si formeranno.

[1] Craig Silverman, Bugie, bugie virali e giornalismo, Columbia journalism school, 2016. Craig Silverman è un giornalista americano esperto in notizie false. Ha pubblicato diversi libri sul tema, tra i quali Bugie, bugie virali e giornalismo (disponibile in free download, anche in italiano); Verification Handbook, incentrato sulla verifica delle notizie in situazioni di emergenza. Inoltre ha partecipato e diretto una lunga serie di progetti di condivisione delle informazioni tra giornalisti e di verifica condivisa.

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Sacha Malgeri
La Mosca Bianca

Studente, corso di laurea in Giornalismo e cultura editoriale. Aspirante giornalista spiegone.