Don Pasquale

Alfonso Fuggetta
La ringhiera
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4 min readSep 2, 2017

Ai tempi della casa della ringhiera passavo la gran parte del tempo all’oratorio della parrocchia di San Gregorio, in via Settala, proprio alle spalle dell’asilo e del Liceo Volta di via Benedetto Marcello. Per due decenni almeno, quel luogo fu la mia seconda casa. Ci andavo appena finito di fare i compiti, il sabato pomeriggio e la domenica. Sono cresciuto in oratorio, nella vita di fede, nella vita di comunità.

Mi ricordo la prima volta che misi piede nel grande cortile di Via Settala 25. Avevo 6 – 7 anni e mio papà mi portò là perché era il principale luogo di aggregazione e svago del quartiere. Ricordo le decine e decine di giovani che lo frequentavano. Tutti ragazzi: era l’oratorio maschile. Le ragazze erano dall’altro lato del muro e della rete, all’oratorio femminile, ospitato in un istituto religioso. Oggi in quel palazzo c’è una scuola superiore, l’istituto Schiaparelli.

Un po’ alla volta, l’oratorio divenne il mio mondo. Là trovavo i miei amici, là crebbi come cristiano, là vissi tutte le esperienze di un giovane: lo sport, il divertimento, le difficoltà dell’adolescenza. Soprattutto vissi una straordinaria vita di fede, fatta di studio, vita concreta, preghiera, confronto. Fu un periodo di grande stimolo intellettuale e spirituale che non ho mai più sperimentato nel resto della mia vita.

Ripensando a quegli anni, mi rendo conto che furono anche un momento di formazione personale unico. Vivevamo insieme esperienze di lavoro comune come la raccolta della carta per reperire fondi o le visite alla Baggina per assistere gli anziani o la catechesi per formare i giovani. Si era inoltre partecipi delle problematiche economiche e di gestione di quella che era una grande opera sociale: centinaia di persone che collaboravano a decine di iniziative in tema di educazione, assistenza, divertimento, sport.

Oltre che una scuola di fede, l’oratorio e la parrocchia furono per me il luogo di maturazione personale, di definizione dei valori e dei principi secondo cui vivere ogni ora delle nostre giornate. La comunità giovanile era fatta di decine e decine di ragazzi e ragazze con responsabilità, ruoli, compiti. Avevamo i nostri momenti di confronto e allineamento che culminavano in quella che era la massima espressione della vita della parrocchia: il consiglio pastorale, presieduto dal nostro parroco, Don Pasquale Ripamonti.

Don Pasquale era un uomo severo, di un rigore morale unico, con una disciplina e un senso del dovere che non credo di aver mai più rivisto in vita mia. Era sempre alla ricerca del meglio, mai contento di quel che si faceva perché guardava sempre più in là, confrontando la sua vita con la più profonda essenza dell’insegnamento Cristiano: nessun compromesso, totale dedizione alla fede.

Ma non era un estremista: era una persona dalla grandissima sensibilità umana, profondamente devoto al senso e fine ultimo del nostro essere credenti, lontano mille miglia dall’ipocrisia della forma e dell’apparenza. Ed era un uomo buono, che faceva trapelare nelle parole e nei gesti l’amore per la sua Chiesa e i suoi fratelli.

Ho sessant’anni ormai e ripensando a quel che mi è successo nella vita, alle esperienze che ho fatto e alla persona che sono diventato mi rendo conto di quanto abbiano influito quegli anni e quella persona, quel leader diremmo oggi, e quella scuola di vita.

Alcune parole in particolare credo sintetizzino quello spirito e quegli anni:

  • Senso del dovere
  • Rigore
  • Responsabilità
  • Miglioramento incessante
  • Condivisione
  • Senso della comunità e del dono

Ma non mancavano i momenti nei quali traspariva il cuore, l’allegria, l’umorismo di quell’uomo unico. Per esempio, ricordo sempre la mia prima e unica salita sulla Grignetta, la regina delle montagne lecchesi. Don Pasquale conosceva bene quelle montagne e guidò me, mio fratello e due altri amici dell’oratorio lungo la ferrata che porta alla cima. Per qualche ora non fu più solo «il Parroco», ma anche l’amico spensierato, il fratello maggiore con il quale scherzare e divertirsi.

Oggi un qualunque libro di management ci dice che lo stile di management dipende dal leader. È proprio così, vissi questo principio per la prima volta in quegli anni, vicino a quell’uomo. Lo stile del nostro stare insieme derivava sì dalla fede che ci animava tutti, ma principalmente da Don Pasquale, dalla sua autorevolezza, dal suo rigore.

Non andavo sempre d’accordo con Don Pasquale. L’esuberanza e l’immaturità del giovane si scontravano spesso con il rigore e il tormento dell’uomo maturo e duro. Ma oggi posso dire che nessuno influì di più sulla mia vita di quell’austero prete brianzolo.

Negli anni 90 cambiai casa, lasciando Milano per una piccola cittadina dell’hinterland. Un po’ alla volta persi di vista don Pasquale anche perché la sua salute continuava a peggiorare e fu ricoverato. Morì anni fa e andai al suo funerale nella mia San Gregorio. Mi nascosi dietro una colonna perché non riuscivo a smettere di piangere, in modo quasi convulso. Don Pasquale era stato mio padre, mio maestro, mio mentore, mio esempio. Se qualcosa di buono ho fatto nella vita, se una qualsiasi traccia di serietà e onore ho mai dimostrato nei miei atti e nelle mie scelte, lo devo oltre che alla mia famiglia a quel piccolo gigante che mai uscirà dalla mia mente e dal mio cuore.

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Alfonso Fuggetta
La ringhiera

Insegno Informatica al Politecnico di Milano e lavoro al Cefriel. Condivido su queste pagine idee e opinioni personali.