Il primo viaggio all’estero

Alfonso Fuggetta
La ringhiera
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5 min readApr 15, 2017

Oggi si viaggia molto, per lavoro, per svago, per studio. Nonostante la crisi, tutte le statistiche ci dicono che viaggiamo sempre di più. Nel bene e nel male siamo la società di Erasmus, delle vacanze a Sharm El Sheikh o alla Maldive, delle low-cost e delle crociere, dei voli di lavoro in tanti paesi diversi. Tutto accade su scala globale. Non più tardi di qualche giorno fa, una persona mi diceva che aveva fatto il viaggio di nozze in Vietnam e Cambogia; un amico invece ha dedicato il suo viaggio invernale alla Patagonia e alle Ande; un altro mi diceva che doveva recarsi per lavoro in Siberia; un altro ancora ha la valigia sempre pronta per raggiungere clienti sparsi in giro per il pianeta. Siamo diventati cittadini del mondo e non solo del nostro paese o dell’Europa. E non si tratta di un fenomeno solo dovuto al lavoro o al turismo per ricchi. Ci sono le vacanze a Miami o Papete, ma anche i voli e i viaggi in tutte le regioni di Italia o in Croazia o in Tunisia. È un continuo viaggiare e muoversi. Basta prestare per qualche minuto attenzione ai tabelloni dei nostri aeroporti e alle centinaia di destinazioni che sono quotidianamente raggiunte da milioni di nostri concittadini.

Ai tempi della casa di ringhiera non era così. Non lo era quanto meno per me e per tante persone che conoscevo. Si viaggiava poco e quasi sempre in Italia. Quando ero ragazzo i “viaggi” erano la trasferta a Natale e d’estate a Torino o in Lucania per incontrare i parenti, le vacanze ad agosto a Senigallia o a San Benedetto del Tronto, la castagnata con l’oratorio. Già le prime settimane bianche al liceo mi parevano un fatto straordinario.

Finii l’università nell’ottobre del 1982. Lavoravo dal 1979 per non essere di peso ai miei genitori. Pochi giorni dopo la laurea feci per lavoro il mio primo viaggio in aereo e per di più a Roma: non c’ero mai stato. Fu un’emozione indimenticabile. Ricordo chiaramente il B727 di Alitalia che si stacca dalla pista di Linate e dopo aver fatto un’ampia virata a destra sale sopra le nuvole: che spettacolo! E ricordo l’arrivo in un albergo vicino a Trinità dei Monti, con la faccia attaccata al finestrino del taxi e la bocca aperta di fronte alle meravigliose immagini che Roma sa riservare.

Nel 1983 iniziai il militare come Ufficiale di Complemento nel Corpo Tecnico dell’Esercito: prima la scuola alla Cecchignola a Roma e poi il servizio a Montichiari. A Roma andai in treno, con una cuccetta sul direttissimo che partiva la sera da Milano e arrivava la mattina dopo. L’aereo costava troppo per le mie finanze.

Tornai al lavoro e nel 1985 accade il fatto insperato: l’occasione del mio primo viaggio all’estero. Avevo 27 anni e non ero mai uscito dai confini italiani e tutto d’un tratto mi venne detto che sarei andato per due settimane all’Olivetti di Cupertino, in California. Non so raccontare l’emozione e l’eccitazione che provai: gli Stati Uniti, la California, la Silicon Valley, Cupertino, un volo translantico. Tutto insieme, tutto in una volta, la prima.

Iniziai la preparazione un mese prima prima della partenza. Dovetti dedicare parecchio tempo per avere il visto al consolato americano. Non c’era il Visa Waiver Program ed era necessario spiegare il motivo del viaggio con una documentazione dettagliata. Per di più parlavo malissimo l’inglese. Anzi, non lo parlavo proprio. Non avevo una carta di credito: non si usavano. Ricordo come se fosse ora che portai con me 3.500$. Non sapevo quanto avrei speso e senza carta di credito o bancomat dovevo far conto solo sui contanti che avevo con me. Internet era una rete ancora sperimentale usata da pochissime persone negli Stati Uniti. Usavamo il fax e non sapevamo cosa fosse la posta elettronica. E ovviamente non avevo un cellulare, non esistevano. Ero abituato a chiamare casa con i gettoni dalle cabine telefoniche: come avrei chiamato la mia ragazza e i miei genitori? Per fortuna non viaggiavo solo: ero con un manager di Olivetti che era stato già diverse volte in California ed un giovane ingegnere che lavorava alla sede Olivetti di Trezzano sul Naviglio.

Partimmo da Linate e non essendoci un volo diretto andammo a Londra per prendere il volo per San Francisco. Era il mio secondo volo e il primo su un aereo che ha fatto la storia dell’aviazione: un MD80 appena arrivato nella flotta Alitalia. L’arrivo a Londra (Heathrow) fu abbastanza traumatico. In vita mia avevo visto solo Linate e Fiumicino che erano allora aeroporti piccoli. Heathrow era già allora enorme e per di più popolato di aeroplani che non si vedevano a Linate: i Lockheed Tristar, i DC10 e soprattutto i Jumbo 747! Ricordo che appena sceso dal volo da Milano vidi un Jumbo in decollo e rimasi sbalordito nel vedere quell’enorme manufatto alzarsi e prendere quota.

Cambiammo terminal e raggiungemmo le partenze intercontinentali dove vidi il maestoso Jumbo della PanAm (la PanAm!) che ci avrebbe portato a San Francisco. Salimmo a bordo e ci sistemammo in una fila da tre abbastanza in fondo all’aereo. Non era certo molto confortevole, ma chi ci badava: stavo andando in USA, a San Francisco!

Dopo un volo lunghissimo provai per la prima volta il jet lag. Eravamo partiti in tarda mattinata da Londra e atterrammo a metà pomeriggio a San Francisco. Ma ero troppo emozionato per farci caso.

Arrivammo a Cupertino in serata e mi posi il problema di avvisare casa. Avevo pianificato di fare una “collect call” dalla camera di albergo e avevo “istruito” mia mamma perché rispondesse “yes” quando avesse sentito una voce straniera. Dopo qualche peripezia ci riuscii e la avvisai.

Cominciarono così due settimane indimenticabili. Ebbi l’occasione di conoscere chi allora stava lavorando sui sistemi operativi e i DBMS di Olivetti. Andai a Stanford e vidi lo Xerox Parc. Durante il weekend andammo un giorno a San Francisco e un giorno sul Big Sur. Vidi anche il primo mall della mia vita; provai per la prima volta la cucina messicana e la cinese e la giapponese; feci la colazione all’americana con bacon e English Muffin. Una sorpresa dopo l’altra.

Non so spiegare quel che provai allora: era veramente un mondo nuovo e totalmente inatteso. Tornai in Italia confuso, contento, sorpreso. Soprattutto ero triste e un po’ angosciato. Temevo non avrei avuto mai più l’occasione di tornare in quei luoghi. Chi avrebbe mai potuto immaginare quel che sarebbe successo in seguito? Pensavo che quel viaggio sarebbe stato l’eccezione, l’evento unico che mai si sarebbe potuto ripetere.

E invece il mondo è cambiato radicalmente, e non solo per me. Viaggiare non è più l’eccezione o un fatto costoso e anomalo: è la norma. Non ci sono più preoccupazioni o incertezze. Oggi prenoto il viaggio via Internet, parto senza contanti, faccio tutto via smartphone, ho connessione dati anche all’estero, uso Facetime o Skype per chiamare casa, “twitto” o mando foto su Instagram. È tutto facile, immediato, a portata di mano, ovvio e scontato.

Sono tornato negli Stati Uniti decine di volte; ho visitato tante città; sono stato in California tutti gli anni per oltre 20 anni; e ho rivisto San Francisco in molte altre occasioni. Eppure raramente ho riprovato l’emozione, la sorpresa e anche il senso di estraniazione che provai in quel primo, lungo, indimenticabile viaggio. Fu non solo una visita a luoghi affascinanti o la scoperta di usi e costumi diversi. Fu anche un piccolo rito di passaggio, una discontinuità rispetto alla vita che avevo vissuto fino ad allora. Mi accorgevo che il mondo stava cambiando e io con lui. La casa di ringhiera stava diventando il passato e si apriva un tempo nuovo che mi avrebbe cambiato profondamente e per sempre.

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Alfonso Fuggetta
La ringhiera

Insegno Informatica al Politecnico di Milano e lavoro al Cefriel. Condivido su queste pagine idee e opinioni personali.