Il viaggio in treno

Alfonso Fuggetta
La ringhiera
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4 min readJun 18, 2017

Ai tempi della ringhiera, le mie vacanze estive avevano uno schema abbastanza consolidato. Si partiva verso la fine di luglio per andare a trovare i nonni in Lucania. Dopo una settimana con i nonni paterni (a Lavello) e materni (a Rapolla) si partiva per tre settimane di mare. Quando ero molto piccolo andavamo a Margherita di Savoia, vicino Foggia. Ho pochi ricordi di quegli anni. Ho vivissimi invece i ricordi delle vacanze nelle Marche, prima per molti anni a Senigallia e poi a San Benedetto del Tronto.

Il momento più critico (e per me epico) era la partenza da Milano per raggiungere la provincia di Potenza. Non c’erano aerei, ovviamente. Non avevamo l’auto: non potevamo permettercela e quindi nessuno dei miei genitori nemmeno considerò l’idea di prendere la patente. Si viaggiava in treno, di notte, proprio come tante immagini e racconti del tempo ci ricordano. Ed era un viaggio complesso, che richiedeva preparazione e costituiva uno dei momenti più importanti dell’anno: si tornava dalla famiglia, poi al mare, le vacanze. Era una grande discontinuità rispetto alla quotidianità della casa di ringhiera.

Per andare in Lucania il viaggio si articolava in diverse tappe. Un primo treno, il “direttissimo”, per la tratta Milano-Foggia. Poi un treno “accelerato” da Foggia a Melfi o Rocchetta San’Antonio. A Melfi venivano a prenderci i nonni materni. A Rocchetta a volte prendevamo invece un altro accelerato per la stazione del Lago della Rendina (o stazione di Rapolla-Lavello), una strana stazione nel mezzo della campagna, costruita a metà strada tra i due paesi, probabilmente per non scontentare nessuno dei due comuni. Da lì poi si andava a Lavello o con la corriera oppure con i parenti di mio papà. Oggi quella linea è stata dismessa e la stazione abbandonata. Non esiste più neanche il Lago della Rendina: la diga che lo aveva creato è inattiva e il letto del lago è tornato ad essere parte del paesaggio collinoso tipico di quelle terre. Le sponde del lago, un tempo coperte di coltivazioni, oggi sono in molti casi abbandonate. Mio nonno Giovanni aveva là un oliveto bellissimo, ma oggi credo non esista più.

Il viaggio per la Lucania cominciava con la scelta delle date della partenza. Spesso erano quelle fatidiche giornate del 30 o 31 di Luglio quando tutte le fabbriche, inclusa l’officina di mio padre, chiudevano per le vacanze estive. Mio papà cercava di comprare il biglietto scontato per il “nucleo familiare”: si andava in stazione con lo stato di famiglia e comprando un biglietto per tutti, si poteva godere di uno sconto non piccolo. Quando le cose iniziarono ad andare meglio dal punto di vista economico, papà potè permettersi anche di prenotare i posti o, addirittura, di acquistare due cuccette: in una dormivo io con mia madre e nell’altra mio padre con mio fratello. Ma quelli erano già momenti fortunati: i primi anni si viaggiava negli scompartimenti di una volta, con otto e poi sei posti (in quelle che mio fratello ed io chiamavamo le “carrozze nuove”). Di solito si partiva la sera per giungere a Foggia al mattino presto. Ricordo che spesso prendevamo la “Freccia del Levante”, il treno che costituiva un po’ l’antesignano degli attuali Frecciarossa. Faceva “solo” quattro fermate: Bologna, Ancona, Pescara e poi Foggia.

Dovendo viaggiare di notte, con il caldo e senza aria condizionata, era vitale cercare di avere dei posti comodi, in primo luogo seduti, perché chi arrivava tardi in stazione finiva per fare il viaggio in piedi, in corridoio o negli snodi tra le porte della carrozza e i gabinetti. Famose sono le immagini di quegli anni con le scene degli “assalti al treno”: centinaia di persone sulle pensiline della Centrale, in attesa di sapere il numero del binario dove avrebbero “messo il treno”. E poi le corse per salire sulle carrozze ancora in corsa e occupare i posti negli “scompartimenti”. Erano momenti concitati nei quali mia madre era terrorizzata per la paura che mio padre si facesse male saltando sul treno in corsa o che potesse perdere i figli nella calca e nella confusione di quei frangenti.

Qualche volta, complice qualche amico ferroviere, si andava fino al deposito di Greco per sgattaiolare sul treno e “prendere i posti” per tempo. Una volta mi ricordo che andammo io e mio padre e conquistammo uno scompartimento tutto per noi. Arrivammo in stazione a marcia indietro, vedendo salire la folla arrembante e cercando disperatamente nella calca mia madre e mio fratello più piccolo. Non c’erano i cellulari o gli sms: c’erano solo le urla di richiamo e la paura di non trovarsi o che qualcuno si facesse male e non si riuscisse a partire.

E poi la partenza, il viaggio di notte, il caldo, i finestrini aperti per fare entrare un po’ di aria fresca, il tentativo di trovare una posizione per riuscire a dormire. Si arrivava la mattina a Foggia stanchi, sudati, con una gran voglia di scendere e respirare un po’ di aria pulita e l’eccitazione del tornare a rivedere i nonni, gli zii e i cugini: le radici, gli affetti, le storie famigliari.

Non dimenticherò mai quei viaggi. Erano il legame tra il passato, il presente della casa di ringhiera e un futuro ancora tutto da costruire, pieno di sogni e di speranze.

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Alfonso Fuggetta
La ringhiera

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