Qualche pensiero in una giornata di sole

Alfonso Fuggetta
La ringhiera
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5 min readApr 25, 2012

Il 25 Aprile del 2012 scrissi questa mail ai miei colleghi. Contiene alcuni temi che ho ripreso in seguito in altri post. Ma mi piace inserirla tra le storie de La ringhiera così da avere una raccolta di questi scritti.

Ciao,

torno ora dal cimitero di Monza. Sono stato a trovare mio papà che oggi, proprio il 25 Aprile, avrebbe compiuto 89 anni. Davanti alla sua tomba, alla sua foto, mi è venuto da pensare “ciao, come stai?” ed è come se lui mi avesse risposto “bene, e tu, come va?”

Già, come va? Come si fa a rispondere a questa domanda? Me la fanno in tanti, tutti i giorni: come va?

Si può rispondere sul piano personale oppure su quello professionale. Comunque sia, in questi giorni mi viene sempre da rispondere o in modo ironico oppure in modo grave, critico, con il tono di chi deve gestire problemi grandi. Qualche giorno fa dicevo ad un mio collega al Poli “tu non ti devi mica preoccupare di 140 stipendi, 140 famiglie: sono cose che non ti fanno dormire la notte.” Certo, ogni giorno c’è una preoccupazione, una ferita, una delusione, una difficoltà, un problema da affrontare. La situazione del paese ovviamente è difficile. Sentire anche questa mattina Mario Draghi dire che “continuano a persistere elementi di grande incertezza e instabilità” non tira su il morale.

Ma oggi davanti alla tomba di mio papà, ho ripensato alla sua vita e ho provato a confrontarla con la mia, la nostra.

Mio padre nacque nel 1923 in un piccolo paese della Basilicata, non lontano dal luogo dove oggi sorge lo stabilimento della FIAT di Melfi.

Mio nonno, Alfonso ovviamente, era contadino e forse qualcosa in più: un po’ scrittore, un po’ filosofo, un po’ acuto osservatore del suo paese. Partì per la guerra in Abissinia negli anni 30 e ne scrisse molto in alcuni diari bellissimi. Uno lo conservo nella mia scrivania in ufficio, al CEFRIEL. Mio papà era il secondo di sette figli, primogenito maschio. Negli anni 30 morirono di malaria due fratelli. Allora succedeva, era normale.

Poi mio padre poco più che ventenne partì per la guerra. A vent’anni! Se penso cosa facevo io a quell’età … Lui era su una nave, vicino a Rodi. La nave venne affondata da un sommergibile e lui restò per una notte e molte altre ore in mare, salvato da un salvagente o da un pezzo di relitto.

Fu soccorso dai tedeschi. Ma c’era già stato l’otto settembre. Era un “traditore”. Così fu fatto prigioniero e con una tradotta dalla Grecia fu portato in un campo di prigionia in Germania. Era in un settore separato. Mentre gli alleati erano “trattati bene”, gli italiani erano appunto i traditori e per questo trattati a bucce di patate e poco più. Per molti mesi, i miei nonni non seppero nulla di lui e lo piansero morto. Dopo la liberazione (questo nostro 25 Aprile che casualmente si sovrappone al suo giorno di nascita) tornò a casa con un lunghissimo viaggio. Fu come rivedere un morto che risorgeva dalla tomba. Tornò, ma non fu più lo stesso. Mio nonno mi diceva che quell’esperienza lo aveva segnato nel profondo. Divenne impulsivo, irascibile. Un tratto che si ammorbidì solo negli ultimi anni, quando la vecchiaia e la sensazione che i figli “stessero bene” un po’ cambiarono quel carattere così duro e scontroso.

Dopo la guerra, il paese era stremato. Non c’era lavoro. Lui volle emigrare come tanti altri. Arrivò a Milano nel 1956. Mia mamma lo raggiunse due anni dopo, poco prima che nascessi io. Papà all’inizio faceva il manovale. Ricordo che guadagnava poche migliaia di lire al mese. Mia mamma cuciva e ricamava. Vendeva per poche lire tovaglie o centri all’uncinetto che le costavano giorni di lavoro. I soldi non erano sufficienti. Anni dopo, mia mamma mi raccontò che in quei primi anni, nei momenti più bui, tra le lacrime fu costretta a chiedere aiuto ai vicini. Trovò lavoro come cameriera in nero. Negli anni 70, finalmente riuscì a farsi assumere come cameriera in un albergo di Milano e con quel lavoro ottenne la pensione minima che oggi riceve dallo Stato.

Vivevamo in una casa di ringhiera. Avevamo due camere: una cucina che aveva anche i letti per me e mio fratello, e la camera dei miei genitori. Il bagno era una turca in comune, fuori, sulla ringhiera, come accadeva in tante case della vecchia Milano abitata dagli operai. Vissi in quella casa fino a quando andai a militare, nel 1983, dopo la laurea.

Ricordo quando due volte all’anno (negli anni buoni) andavamo a comprare le scarpe: una volta d’estate e una in inverno. Era una piccola festa: passavo un paio di ore con la mamma per scegliere le scarpe giuste. Dovevo farci almeno una stagione, meglio due. Non potevamo sbagliare. Ci raccomandavamo con la commessa perché ci desse delle scarpe “buone”, che non si rompessero. Certo, c’era sempre il calzolaio per le riparazioni. Ma comunque non potevamo permetterci l’errore.

Mio padre era passato a lavorare in officina, faceva il tornitore. Lavorò anche nella sabbiera, che forse incise nei suoi polmoni il male che tanti anni dopo lo portò alla morte. La sera con mia madre andava a pulire degli uffici per arrotondare lo stipendio. Mio fratello più piccolo stava con una vicina di ringhiera “ricca”: aveva la televisione. Ma due ragazzi da ospitare erano troppi e quindi io andavo spesso con i miei la sera in quell’ufficio. Mi sedevo ad una scrivania e cercavo qualcosa per giocare, qualcosa che mi tenesse impegnato mentre loro lavavano pavimenti, vetri, tavoli.

La domenica mio padre mi portava all’oratorio, l’unico luogo di vero svago e di socializzazione per noi ragazzi. La festa erano le 100 Lire che mi dava per “vedere il film” alle 4 del pomeriggio e per comprami qualcosa da mangiare. Anche in quel caso era una scelta difficile. Pagato il biglietto avevo 50 Lire e dovevo decidere se comprare un pacchetto di patatine, o qualche stringa di liquirizia o dei gommoni.

Di quegli anni, mi sono rimaste tante immagini. Ma una non mi lascia mai. Era una domenica, avrò avuto 12–13 anni. Non so come mai, mia madre si mise a rievocare i primi anni a Milano, quelli più duri. Mio padre fece una cosa per lui insolita. Specialmente con me era sempre molto duro: studio, dovere, “gli dico che è bravo quando dorme”. Mai una carezza o un riconoscimento. Invece quella volta mi abbracciò e tra le lacrime mi disse “Hai visto quanti sacrifici abbiamo fatto per voi? Mi raccomando, fai il tuo dovere, studia, sii onesto e vai avanti nella vita”.

Non sono mai andato molto d’accordo con mio padre. Avevamo caratteri e modi di fare diversi. Ma questa mattina, in pochi secondi mi sono ripassati davanti agli occhi queste immagini, questi ricordi. Mi sono commosso e ho ripensato che per quanto siano difficili questi tempi, per quanto noi amiamo anche far vedere che ci occupiamo di cose complicate, problemi “difficilissimi”, crisi sistemiche, forse dovremmo riconquistare il senso della realtà e della misura. Io per primo che sono sempre così ansioso e preoccupato.

La generazione di mio padre ha vissuto anni terribili, un paese distrutto, la fame diffusa, l’emigrazione di intere generazioni. Oggi tanti hanno problemi veri, gravi, tristi. Ma noi per primi (io per primo!) dovremmo abbandonare tanta retorica vuota, vivere questi tempi con realismo e serietà, senza ipocrisia, con quella che una volta si chiamava saggezza. Non è facile. Ma credo sia l’unica strada che abbiamo di fronte di noi.

Buon 25 Aprile,

Alfonso

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Alfonso Fuggetta
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