Critical Thinking: cos’è e perché vale

Educare al ragionamento o educare al pensiero critico?

Pietro Alotto
La Scuola Che Non C’é
14 min readAug 31, 2017

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Educare al pensiero critico dovrebbe significare educare a interrogarsi su quali fondamenti, logici o empirici, possa basarsi una qualunque affermazione. Un’educazione al pensiero critico è ancor più oggi un ottimo antidoto al conformismo (e al “mipiacismo”) pervasivo ormai dominanti. Il solo educare i giovani a valutare l’affidabilità di una informazione reperita su internet è ormai una “emergenza” che la scuola non può eludere.

(da un commento di @Antonio Calvani)

Spesso diciamo (l’ho detto anch’io, semplificando, in altre occasioni) che il problema del nostro tempo è che i nostri ragazzi non sanno più ragionare, e che la scuola dovrebbe insegnare a ragionare, insegnare la logica.

E tuttavia, io mi meraviglio spesso di come ragazzi che hanno difficoltà a esporre il pensiero di un filosofo in modo ordinato; ragazzi che posti di fronte ad un problema filosofico o alla richiesta di un’opinione argomentata su una questione, sono impacciati e confusi o prendono posizioni improvvisate e argomentano in modo incoerente e superficiale, riescano poi bene nella risoluzione dei test di logica, per l’ingresso all’Università (e li superano anche!).

Se questo è vero, il problema non è inferenziale o di ragionamento analitico, infatti, se poniamo i ragazzi di fronte a problemi di logica, in genere, tutti (chi meglio chi con più difficoltà) sono capaci di arrivare ad una soluzione.

Allora, di cosa mancano? Questi ragazzi non hanno disciplina di pensiero: non sanno affrontare problemi (risolverli è un’altra questione) in modo adeguato, metodico, “critico” e anche creativo.

Abbiamo (e siamo stati formati in ) una tradizione educativa che privilegia le risposte alle domande, anzi, risposte a domande mai poste!

Qual è la differenza? E’ la differenza che passa (per rimanere nel mio campo) tra lo spiegare ad uno studente le prove dell’esistenza di Dio di S. Anselmo o S. Tommaso e il chiedergli prima: ma secondo te di che tipo di prove avremmo bisogno se volessimo dimostrare che qualcosa come Dio esiste?

E’ questa domanda che ti invita a pensare, a immaginare risposte plausibili, a verificarle col ragionamento, a utilizzare tutte le risorse cognitive a tua disposizione per arrivare a dare una risposta. Per poi vedere se le prove date da altri rispondono o meno ai requisiti di ammissibilità che avevi pensato ed, eventualmente, modificarle o ribadirle.

Che la formazione di studenti dotati di pensiero critico sia l’obiettivo per eccellenza di ogni progetto educativo, in ogni società democratica che si rispetti, per il XXI secolo e oltre, è ormai diventato un mantra.

Il World Economic Forum nel report “New Vision for Education. Unlocking the Potential of Technology” ha stilato una lista delle 16 “skills” del ventunesimo secolo, e fra queste un posto di primo piano viene assegnato al Pensiero critico/Problem solving, inteso come “abilità di identificare e ponderare situazioni, idee e informazioni per formulare risposte e soluzioni”.

Più in generale, non c’è nessuno che si occupi, anche solo di striscio, di formazione che non esorti gli insegnanti e la Scuola, in generale, a puntare sulla formazione di ragazzi dotati di pensiero critico (che qualcuno, qualche volta, scambia con il senso critico, che non è propriamente la stessa cosa, posto che il “senso critico” fa parte della dotazione di un pensatore critico, ma non la esaurisce).

Se si vuole formare al “pensiero critico” occorre comprendere cosa vuol dire “pensiero critico”; perchè dovrebbe essere una finalità formativa della Scuola avere pensatori critici; in cosa si traduca in termini di abilità, competenze e atteggiamenti il pensare criticamente; e, infine, su cosa concretamente si può fare per potenziarlo.

Siamo tutti preda di bias come l’illusione della conoscenza o l’illusione di competenza: pensiamo di sapere e saper fare cose che non sappiamo o non sappiamo veramente fare bene; e questo a me pare particolarmente vero proprio quando parliamo di “pensiero critico” . Come il “Tempo” per Agostino d’Ippona, tutti pensiamo di sapere cos’è il pensiero critico, ma, quando cerchiamo di definirlo, ci accorgiamo che, in realtà, ne abbiamo un’idea vaga.

In effetti, se c’è una locuzione abusata (e che gira ossessivamente nel mondo dell’educazione) è proprio questa: “pensiero critico”. Tutti dicono che ciò che manca ai giovani è il senso critico, o il pensiero critico; che la scuola dovrebbe prima di tutte le altre cose (o al posto di tutte le altre cose) promuovere il pensiero critico; favorire lo sviluppo del senso critico. Ma cos’è che veramente manca? E cosa bisognerebbe fare per migliorarlo? Tutti lo dicono ma nessun lo sa!

Pensiero “critico” e pensiero “ingenuo”

Come esiste la fisica ingenua, così esiste anche il pensiero ingenuo. Siamo tutti, chi più chi meno, “pensatori ingenui”, naturalmente ingenui. Siamo occasionalmente “critici”, ed in genere questo succede quando in gioco ci sono i nostri interessi.

Il pensiero ingenuo è il complesso di regole inferenziali naturali che abbiamo in dotazione, il complesso di euristiche (scorciatoie cognitive) che ci permettono di prendere decisioni, di credere o non credere cose su stati di cose nel mondo in carenza di informazioni sufficienti o precise.

Se questo è il pensiero ingenuo, il pensiero critico cos’è? È il pensiero che conosce i sui “limiti” di funzionamento e corre ai ripari: conoscenza del modo in cui naturalmente pensiamo (e ragioniamo), dei possibili Bias, e insieme uso di metodi per supportare, ed eventualmente correggere, il nostro pensiero nei suoi compiti cognitivi.

Quando in gioco c’è qualcosa di importante o di significativo per noi (comprare un’auto o decidere se è opportuno cambiare un lavoro o se cambiare vita), ci prendiamo il tempo per pensare: valutiamo i pro e i contro; immaginiamo scenari possibili, valutiamo conseguenze, ecc., insomma, pensiamo criticamente. Ma il fatto è che non abbiamo nella nostra dotazione naturale gli strumenti per esserlo in maniera sempre efficiente o adeguata.

Insegnare il pensiero critico dovrebbe essere tutto questo: insegnare a prendersi il giusto tempo per l’analisi e la ponderazione; e fornire strumenti per farlo in modo corretto ed efficace.

Critical & Slow Thinking

Ho trovato questa bellissima espressione nel ricco e interessante manuale di scrittura argomentativa di D’Aversano e Grilli.

Parafrasando lo slogan dell’Arci Gola, che mette alla base del suo progetto di cultura alimentare il concetto di «slow food», contrapposto a quello di «fast food», di cibo preparato e consumato in fretta, senza cura e senza gusto, lo slogan del programma che vi proponiamo potrebbe essere «slow thinking» cioè «pensare lentamente» o, più precisamente, «pensare per gradi»: prendersela comoda mentre si pensa, non avere fretta di formarsi un’opinione o di arrivare a una conclusione, ma dedicare invece cura e attenzione a ogni aspetto e ad ogni momento del pensiero. Esattamente come possiamo scegliere in che modo mangiare, se cose sane e gustose o roba cattiva che ci fa male, così possiamo scegliere come pensare. E, esattamente come il modo di mangiare, anche il modo di pensare ha un’enorme influenza sulla nostra vita; quanto grande e di che natura sia questa influenza vi diventerà sempre più chiaro man mano che proseguiremo il nostro discorso. ( D’Aversano C., Grilli A., La scrittura argomentativa, Le Monnier, 2005, p.18)

L’esortazione al pensiero lento o graduale si inserisce all’interno di un percorso di formazione alla scrittura argomentativa.

Imparare ad analizzare i propri pensieri generici, le opinioni non meditate, le ‘impressioni’ generiche, i propri ‘giudizi’ avventati (nel senso di non ponderati) e “scomporre le impressioni generali nelle singole osservazioni da cui hanno avuto origine” è fondamentale, dicono D’aversano e Grilli, per uscire dalla ‘vaghezza’ e per riuscire a comunicare meglio.

È solo una delle regole del “pensare per gradi”. Un’altra regola preziosa riguarda i ‘principi inferenziali’ quei principi che prendiamo dalla nostra esperienza del mondo, da ciò che sappiamo di come funziona il mondo (connessioni causali, regolarità psicologiche, principi di buon senso, luoghi comuni, ecc.), da ciò che crediamo intorno a come funziona il mondo (le visioni del mondo) e grazie a cui le nostre osservazioni prendono un significato:

Torno a casa, vedo la macchina di mia moglie sul vialetto, sento voci in cucina, concludo che è tornata a casa dal lavoro.

Per passare dalle osservazioni alla conclusione ho fatto riferimento a dei “principi inferenziali” (banali, se volete), che fanno riferimento al modo in cui funziona il mondo (le macchine delle mogli non si spostano da sole e la mattina la usa, in genere, per andare al lavoro; se si sentono delle voci, deve esserci qualcuno che parla, ecc.).

Bene, la regola dice che occorrerebbe sempre esplicitare i ‘principi inferenziali’ che motivano le nostre inferenze.

Ecco il ‘pensiero critico’ è una forma di ‘slow thinking’ di pensare per gradi, che si esercita sia nell’interpretazione di ciò che osserviamo, nel dare una significato alle nostre ‘osservazioni’; sia nell’analisi delle nostre ‘impressioni’: che sono opinioni, che sono giudizi, che sono inferenze (conclusioni a cui ‘saltiamo’, senza avere seguito la ‘via lunga’ del ragionamento analitico); ma anche nell’analisi delle nostre inferenze coscienti.

Il pensiero critico ha bisogno di addestramento ed esercizio ed è un compito che non può essere di una sola disciplina (anche se non sarebbe male se nellla scuola italiana si cominciasse a prendere sul serio l’inserimento del Critical Thinking nel curricolo scolastico), ma di tutte le discipline che hanno a che fare con l’analisi e la ricerca: cioè, “tutte”.

Tutte le discipline hanno a che fare, infatti, con i processi di pensiero e di ragionamento e tutte hanno a che fare con l’analisi e la ricerca, ma, come giustamente metteva in rilievo A.B. Arons, nella sua Guida all’insegnamento della fisica: “si tratta di processi che di rado vengono articolati o indicati agli studenti da parte degli insegnanti” [1].

A.B. Arons, già negli anni Ottanta del secolo scorso, si lamentava di questa mancanza di chiarezza in riferimento al sistema di istruzione americano:

Nessuna raccomandazione, riforma, o proposta di struttura relativa al programma è stata mai operata senza rendere omaggio al termine generico «pensiero critico» o a uno dei suoi sinonimi. La valanga di relazioni sull’istruzione delle nostre scuole e università che è stata diffusa negli ultimi anni non fa eccezione; ogni relazione, a qualunque livello di istruzione, richiede di fare attenzione alla valorizzazione delle capacità di riflessione e di ragionamento del giovane. Un cliché che in questi tempi è molto in voga è «capacità di pensiero di ordine superiore». Pochi dei documenti che ci pervengono tentano di fornire un certo grado di specificità: qualche definizione operativa del concetto, con esempi di ciò che potrebbe essere fatto, nell’insegnamento di tutti i giorni, per muoversi nella direzione delle mete che si sono dichiarate.[1]

La cosa curiosa è che l’accusa di mancare di “pensiero critico” viene rivolta sempre a qualcun altro (lo sto facendo anch’io, evidentemente, in questo momento). Noi siamo naturalmente dotati di senso critico e quindi siamo in grado di capire e di individuare chi non ce l’ha!

La prima cosa che salta agli occhi è che per alcuni il “pensiero critico” è una dotazione naturale che non usiamo per akrasìa, per debolezza della volontà, o perché dovrebbe essere stimolata (e sviluppata) e non lo è, o che perdiamo a causa dell’educazione, della scuola, della politica o per il troppo uso delle tecnologie digitali; per altri è qualcosa che si acquisisce naturalmente con la cultura in senso generale (più sai, più conoscenze possiedi, più sei attrezzato criticamente); per altri ancora è semplicemente un atteggiamento, che consiste nell’essere “sospettosi” nei confronti di ciò che ci viene detto e insegnato, ecc. — anche se, in realtà, il pensiero critico insegna ad essere sospettosi, sì, ma prima di tutto nei confronti dello stesso pensiero, e del modo in cui noi “naturalmente” pensiamo.

Ora, quello che dal dibattito emerge è che tutti abbiamo in testa un’idea diversa e molto approssimativa di cosa è un “pensatore critico” e di cosa significhi possedere “pensiero critico”.

Nella dotazione di base che dovrebbe avere un pensatore critico, alcuni ci metterebbero certe cose, altri ce ne metterebbero altre; alcuni enfatizzerebbero certi aspetti, altri si focalizzerebbero su altri.

La confusione su ciò che è si riverbera, naturalmente, sulla comprensione di ciò che manca; e questo rende difficile la comprensione delle cause per cui manca; da cui consegue l’impossibilità di mettersi d’accordo sulle possibili soluzioni al problema.

Il “Pensiero critico”: una definizione

Per capire cosa si intende per “Pensiero Critico” in senso tecnico, occorre preliminarmente uscire dalla vaghezza e dall’ambiguità. Due dei maggiori esperti di Critical Thinking, Michael Scriven & Richard Paul, hanno dato la seguente definizione:

Il pensiero critico è il processo intellettualmente disciplinato di concettualizzare, applicare, analizzare, sintetizzare e/o valutare attivamente e abilmente le informazioni raccolte da, o generate da, osservazione, esperienza, riflessione, ragionamento o comunicazione, come guida alla credenza e all’ azione. Nella sua forma esemplare, si basa su valori intellettuali universali che trascendono le divisioni disciplinari: chiarezza, accuratezza, precisione, coerenza, pertinenza, evidenza solida, buone ragioni, profondità, ampiezza ed equità.

L’aggettivo “critico” attaccato al sostantivo “Pensiero” sta ad indicare, come si può intuire, una forma di pensiero “lento”, meditato, riflessivo, attivo, razionale che si contrappone al pensiero “veloce”, intuitivo, immediato, emotivo, irriflessivo, irrazionale e passivo.

In breve, essere pensatori critici comporta il fermarsi prima di dare un giudizio o prendere una decisione ed esaminare razionalmente prove, evidenze, ragioni, pro e contro linee di azione; il pensare a ipotesi e possibili linee di azione alternative e, infine, valutarle.

A tal fine, un pensatore critico dovrà cercare di essere il più possibile “informato” o capace di ricercare, trovare e valutare le informazioni necessarie prima di esprimere un’opinione, dare un giudizio o prendere una decisione; dovrà essere capace di giudicare in modo obiettivo e corretto le opinioni e i ragionamenti propri e altrui, individuandone punti di forza e punti di debolezza. E, per fare tutto ciò, dovrà essere consapevole di come ragioniamo, degli impedimenti di carattere psicologico (egocentrismo, sociocentrismo, Bias) e delle possibili trappole logiche (fallacie) che possono impedirci di ragionare e, più in generale, pensare correttamente.

Che una società aperta e democratica abbia bisogno di cittadini informati, capaci di prendere decisioni e fare scelte ponderate ça va sans dire! Altrettanto scontato è che tale compito formativo dovrebbe essere proprio della Scuola. Quale potrebbe essere il compito della scuola, infatti, se non quello di “informare” sull’universo mondo (cosa che bene o male fanno le discipline studiate a scuola), ma anche di insegnare a ricercare, selezionare e valutare in modo competente le informazioni rilevanti per affrontare una situazione e/o un problema, sfruttando tutte le risorse che abbiamo a disposizione (libri e Rete su tutti)? A maggior ragione, se vogliamo formare individui dotati delle competenze necessarie per affrontare la vita e il mondo del lavoro, capaci di ‘pensare con la propria testa’ (come spesso si sente dire, anche a sproposito — perché non è detto che uno con la propria testa pensi sempre bene: un giro per i Social è meglio di qualsiasi argomentazione a sostegno di quanto dico!), ma, anche, in modo corretto ed efficace, evitando quanto più possibile di cadere vittima di pregiudizi, manipolazioni ed errori logici.

Educare al ragionamento ed all’argomentazione

Non si può essere “pensatori critici” se non si è capaci di ben ragionare e argomentare e di comprendere e valutare ragionamenti e argomentazioni propri e altrui.

Riprendiamo quanto già esposto in un altro post (più specificamente indirizzato all’insegnamento filosofico).

Il «ragionamento» è il motore dell’apprendimento umano (e come potrebbe essere diversamente essendo l’uomo ciò che è: un essere dotato di Ragione). Non c’è conoscenza vera senza comprensione, ma comprendere non si può se non si ragiona su quanto si apprende, o se non si intende il ragionamento che fonda, giustifica l’affermazione, la tesi, la legge scientifica, ecc., che viene proposta dall’insegnante o che ci viene data dal libro. Dove non c’è questo processo di rimasticazione personale, di rielaborazione, di analisi del ragionamento sotteso ad ogni affermazione o ad ogni tesi, e proposto esplicitamente (pensiamo a una dimostrazione matematica o sperimentale) o implicitamente (pensiamo a certe spiegazioni storiche); dove non c’è consapevolezza del valore delle prove o della concatenazione logica che porta a quelle determinate conclusioni, non ci può essere vero apprendimento ma mero nozionismo.

Ora, se la Scuola non vuole più essere un luogo dove si trasmette solo un sapere consolidato ed indiscutibile, ma un luogo dove si imparano anche abilità e, in particolare, dove si sviluppa il pensiero critico, dovrebbe prima di tutto preoccuparsi di insegnare ad esercitare la propria capacità di pensare con metodo e di ragionare correttamente: insegnare “come pensare” piuttosto che “cosa pensare”.

Se si ritiene, inoltre, che la Scuola (a maggior ragione quella pubblica) debba essere, fra le altre cose, scuola di «democrazia», in cui si impara ad apprezzare il valore del dialogo intersoggettivo, dell’opinione non imposta ma argomentata, in cui si impara il valore della convivenza e quindi del rispetto dell’altro, e quindi del rispetto delle sue opinioni quali che esse siano (il che significa non semplicemente e con spirito superficialmente relativistico e ipocritamente tollerante che «ognuno può pensarla come vuole», quanto il ritenere tutte le opinioni degne di esame e discussione). Se si ritiene che il compito educativo della scuola debba essere anche quello di formare cittadini criticamente più avvertiti, più “competenti”, allora bisogna cominciare proprio dalla presa di coscienza e dalla conoscenza delle pratiche argomentative e delle tecniche logiche e retoriche; dal riconoscimento dei trucchi argomentativi e dalla consapevolezza degli errori che possiamo commettere o che non possiamo fare a meno di commettere (i cosiddetti tunnel cognitivi) nei nostri ragionamenti.

Tuttavia, malgrado le lamentazioni sui ragazzi che non sanno giustificare le loro affermazioni (anzi che non sentono la necessità di farlo), o che imparano senza capire, o che scrivono da cani («non sanno l’italiano» si dice, ma, come diceva Sciascia, «l’italiano non è l’italiano, è ragionare»!); malgrado il riconoscimento, oramai generale, dell’importanza di perseguire lo sviluppo delle capacità logico-argomentative, il nostro sistema scolastico ritiene che l’imparare a pensare e a ragionare correttamente, non debba essere oggetto di un apprendimento specifico, quanto piuttosto una sorta di «riverbero», di effetto secondario dell’apprendimento di determinate materie e contenuti; e perciò non dedica tempo alla cura di queste particolari abilità; come se, aristotelicamente o cartesianamente, si presumesse ancora che la capacità di ragionare sia una dote naturale, innata negli uomini, che funziona naturalmente bene e correttamente. Ma, come ormai ci attestano le scienze cognitive, questo non è vero: ragionare o pensare è un’arte che come tutte le arti va appresa!

Questo punto è stato messo bene in evidenza da @Daniele Massaro [D. Massaro (a cura di), Metodologia e didattica del testo filosofico, Paravia, Torino 1998]:

Pensare in modo corretto, secondo le regole della logica formale, e argomentato, secondo le ragioni del dialogo tra persone costituisce dunque un obiettivo primario dei sistemi formativi. Infatti, per quanto il pensiero rappresenti il fattore essenziale e distintivo dell’uomo, tuttavia il suo corretto esercizio non è un dato spontaneo e naturale, ma è un’arte che si apprende e che, quindi, richiede una didattica adeguata.

Quale sia su questo fronte la situazione in Italia lo possiamo evincere da quanto è scritto in una Sintesi del Rapporto sulle Prove Invalsi per le V Superiori di qualche anno fa :

“le maggiori debolezze dei nostri ragazzi si hanno quando viene loro richiesto di argomentare, spiegare, motivare le proprie affermazioni; molte difficoltà derivano dalla incapacità di leggere, comprendere, decodificare adeguatamente testi di varia natura”. (cit. in P. Bassani, Il problema dei test Invalsi? I nostri ragazzi non sanno più pensare)

Ora, non voglio unirmi al coro di quelli che si lamentano del fatto che i nostri studenti non sanno più ragionare [@Marco Lodoli], ma è sotto gli occhi di tutti il fatto che i ragazzi hanno sempre più difficoltà a leggere e comprendere in modo adeguato testi e, aggiungiamo noi, a produrre testi (e discorsi) articolati e coerenti (oltre che corretti).

Al di là delle cause e delle responsabilità (su cui il dibattito è vivace, ma poco utile ai nostri scopi) il problema che, come formatori, noi insegnanti dobbiamo porci è: esiste un modo, esistono delle strategie e strumenti che possono aiutarci a migliorare la situazione?

Il “pensiero critico” non lo si insegna facendo lezioni di psicologia cognitiva o di logica matematica, ma mettendo gli studenti in situazione e costringendoli a scontrarsi con i limiti del proprio apparato cognitivo, facendogli fare errori e rendendoli consapevoli degli stessi; fornendo, infine, strumenti per cercare di supportare la propria mente nell’impostare, affrontare e proporre soluzioni ai problemi; costruendo abitudini, nel senso aristotelico, una disposizione mentale “scientifica” (senza che ciò debba far scandalizzare gli umanisti).

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Pietro Alotto
La Scuola Che Non C’é

Scrivo di scuola, di filosofia, argomentazione, critical thinking e argument mapping (su cui ho scritto l'unico libro pubblicato in Italia).