Il mestiere della cura: solo vocazione?

Cosa spinge un giovane a scegliere il percorso formativo che lo porterà ad esercitare un lavoro di cura? Medico, Infermiera o Infermiere; Psicoterapeuta, Assistente di base, Educatore. Propongo qui una lettura interpretativa attraverso un mito fondativo che ha l’obiettivo di comprendere il sottofondo psicologico ed emotivo che potrebbe accompagnare la scelta di diventare terapeuti, in qualunque ambito si orienti questa scelta.

Il mito che narra della nascita di Asclepio, semidio greco, figlio di Apollo, considerato in epoca classica il fondatore mitologico dell’arte medica, rievoca in prima istanza il rapporto che intercorre tra medicina e morte.

Evocata da Pindaro in uno dei suoi “Voli”, nella III Ode Pittica, la storia narra del semidio fondatore mitologico dell’arte medica greca. A lui venivano consacrati gli asclepiei, templi adibiti a luoghi di cura in età classica.

Il mito narra della bramosia di Apollo per una giovane mortale, Coronide figlia di Flegias, re dei Lapiti. Apollo seduce e possiede la bella Coronide, con la quale concepisce un figlio, Coronide tuttavia è innamorata di un giovane mortale, Ischi, con il quale consuma il tradimento del Dio già gravida. Apollo, oltraggiato per l’offesa ricevuta e cieco di rabbia, decide la morte dei due giovani, che effettivamente, senza rimorso, infligge. Il pentimento sorge solo quando il cadavere di Coronide è posto sulla pira e prossimo alla cremazione, allora, mosso a pietà per la sua divina prole, Apollo decide di salvare in extremis il piccolo Asclepio. Strappato dal ventre materno e dalle fiamme, questi verrà poi consegnato dal padre al centauro Chirone, progenitore e modello di “guaritore ferito”, perché insegni ad Asclepio a curare le malattie degli uomini.

Interpretazioni diverse del mito hanno identificato in Chirone l’archetipo del “guaritore ferito”, afflitto da una freccia conficcata nella spalla verso la quale deve rivolgersi continuamente e curarla per poter accedere all’arte di sanare e guarire. Nella rivisitazione che qui viene proposta Chirone assume un’altra veste pur essendo “ferito”, condizione comune anche al suo discepolo, che pure langue di un dolore diverso che potremmo definire un dolore dell’anima. Oltretutto il centauro è un essere mitologico che non ha alcun contatto con la dimensione dell’uomo, si colloca in un universo astratto paragonabile ad un corpus di regole e precetti, molto vicino a quello identificato da Foucault: una scienza, ovvero un sistema organizzato di idee posto in un platonico cielo iperuranio, a distanza di sicurezza dall’uomo.

La nostra attenzione è quindi rivolta ad Asclepio, l’uomo, che pure ha un rapporto diretto con Dio essendone figlio e che rappresenta il trait d’union tra questo corpus superiore, quasi divino, rappresentato da Apollo, Dio della Medicina, e l’elemento umano: le malattie. A lui è dato il compito di affrontare la sofferenza degli uomini perché nasce da una donna mortale in circostanze che configurano uno scenario di sofferenza incomparabile, verso il quale forse nemmeno l’iniziato può volgersi senza soccombere, schiacciato dal peso della consapevolezza. La potenza evocativa del mito riassume, estremizzandola, l’esperienza della deprivazione narcisistica del bambino, futuro terapeuta.

Se utilizziamo il mito come guida di questa riflessione, vediamo che Asclepio porta su di sé diverse stigmate: nasce dal cadavere materno, quindi dalla morte; è figlio del ratto perpetrato da Apollo e quindi dell’invidia e della rabbia, se non anche della propria stessa paura; infine è orfano due volte, prima dell’incolpevole madre, poi del padre, che lo affida a Chirone.

La medicina, incarnata nel semidio Asclepio, seppur trasmessa per eredità paterna, è tuttavia profondamente improntata dalle circostanze della sua drammatica nascita e dal rapporto con la morte, identificata nella fine violenta di Coronide che in un certo senso le è madre. Tuttavia, è proprio con la madre simbolica, la morte, che Asclepio deve ingaggiare la sua eterna sfida. Nel mito nascita e morte sono indissolubili, sono due eventi simultanei a configurare la stessa tensione che la medicina deve continuamente affrontare: da una parte la vita e la sua difesa, anelito e missione dell’arte medica, dall’altra il morire a cui è avvinta: Asclepio è nato da una madre morta.

A questo punto è possibile comprendere come gli isomorfismi rintracciati nel mito tra madre e morte, tra Asclepio e medicina, configurino la difficile posizione che richiede al terapeuta di conciliare il paradossale conflitto che in questo caso si stabilisce tra morte e medicina: madre verso la quale il figlio è costretto a rinnovare in eterno l’omicidio simbolico dal momento che assume in sé la missione di sconfiggerla.

Su un piano individuale ne ricaviamo le incertezze affrontate dai professionisti dell’aiuto in questo difficile e quotidiano compito, identificabili nell’incapacità di rivolgere lo sguardo con leggerezza a tale “orrore”. In assonanza al mito di Edipo, il rischio di essere privati dello sguardo coincide, infatti, con la difficoltà e il conseguente rifiuto di guardare il trauma della propria nascita vocazionale.

Su un piano pratico e sociologico potremmo invece rintracciare gli echi di questi “fallimenti dello sguardo” clinico negli accanimenti terapeutici, nella delega eccessiva della cura al farmaco, nell’assimilazione del paziente alla sua malattia, nell’ascolto distratto, nella eccessiva burocratizzazione che coinvolge anche le prassi di cura, nelle prescrizioni inutili o eccessive di esami o di farmaci, nell’abbandono degli anziani e dei malati psichiatrici e in altri problemi ancora o “sottoculture” che ancora potremmo impersonare più o meno inconsapevolmente nella nostra pratica clinica. Ma al tempo stesso il mito ci indica una via per iniziare a comprendere l’origine difensiva di questi atteggiamenti. La storia di Asclepio può servire allora come modello per aiutare a svelare e risolvere aspetti ambivalenti inscritti nella scelta di formarsi e praticare una professione d’aiuto.

La psicologia cognitiva ha identificato due macrotipologie di medico: il medico caldo e il medico freddo, constatando che il primo è più efficace del secondo. In realtà potremmo riformulare questa definizione in medico ferito e medico guarito. Il medico guarito può essere più efficace nella relazione e garantire al paziente quel contesto necessario al paziente per accettare il percorso di cura e per guarire innanzitutto nell’anima.

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Alessandro Campailla
LaTI® — Laboratorio Teatro d’Impresa

Psicologo, psicoterapeuta e fisioterapista. I miei campi di studio sono: il rapporto mente-corpo-società, nel suo sviluppo storico e in relazione alla clinica