La iatrogenesi medica, sociale e culturale: tra medicina e malattia c’è posto per la psicologia?

Part 1|Part 2

Il termine iatrogenesi, dal gr. ἰατρός (medico) e Γένεσις (origine), indica i danni alla salute derivati da una possibile reazione avversa ad un farmaco, dall’errore medico o da cause legate a pratiche mediche che possono risultare nocive. In questo contributo, seguendo la definizione che ne ha dato Ivan Illich (1974) (1), si farà il tentativo di descriverne alcuni esempi riscontrati nella mia esperienza clinica di psicologo e fisioterapista, a cui seguiranno alcune considerazioni che possono estendersi alla ricerca e alla pratica clinica dello psicologo.

[…] La iatrogenesi è clinica quando il dolore, la malattia e la morte sono il frutto di cure mediche; è sociale quando le politiche sanitarie rafforzano un’organizzazione industriale che genera malessere; è culturale e simbolica quando un comportamento e una serie di illusioni promossi dalla medicina restringono l’autonomia vitale della medicina insidiando la loro capacità di crescere, di avere cura l’uno dell’altro e di invecchiare, o quando l’intervento medico mutila le possibilità personali di far fronte al dolore, all’invalidità, all’angoscia o alla morte. (Ivan Illich, 1976)

Introduzione: la iatrogenesi culturale

Partirò da un’esperienza. Nel corso dell’esercizio delle mie professioni ho avuto modo di incontrare teorie diverse, alcune mi hanno convinto, altre meno, altre ancora hanno operato su di me vere e proprie rivoluzioni e cambiamenti di prospettiva, tra queste sicuramente annovero la Medicina Tradizionale Cinese (MTC), la Psicoanalisi, la Bioenergetica e la PNEI (Psiconeuroendocrinoimmunologia). Qualche anno fa ebbi la fortuna di ascoltare il fisico Emilio del Giudice, durante un convegno sul tema “Psicologia e medicina quantistica”, tenutosi a Bologna con l’organizzazione dell’ AIREMP (Associazione Italiana di Ricerca sull’Entanglement in Medicina e in Psicologia)(2). Fin dall’inizio dei miei studi universitari ero già entrato in contatto con i temi presentati in quell’occasione e le interessantissime conferenze dei relatori esercitarono su di me ulteriore impatto e curiosità. Ciò che andavo cercando erano le chiavi di connessione tra “l’insieme delle cose del mondo”, di cui l’uomo è parte e sebbene la fisica non fosse proprio il mio forte, la semplicità e la chiarezza con cui l’armonia della natura e della salute, nella loro complessità, venivano spiegate da questi studiosi, aprì diverse prospettive sulla possibilità di cogliere la risonanza della materia vivente, dai suoi strati molecolari fino ai fenomeni biologico-fisici e psicologici macroscopici.

Erano anni in cui il mio impegno nella riabilitazione con malati oncologici mi aveva posto di fronte ad alcune evidenze. Attraverso il tentativo di sedare il dolore in persone definite terminali e il ripristino di funzioni essenziali, si stava facendo strada in me la consapevolezza che la speculazione economica e farmaceutica nel campo della salute e delle sue pratiche istituzionali, quindi aspetti “di sistema” e non strettamente tecnici, potessero inibire le migliori potenzialità di riparazione dell’organismo di questi malati. Mi riferisco alla politica protocollare e impersonale della cura, parte di quell’insieme di fenomeni che Ivan Illich (1974) ha definito iatrogenesi culturale.

Le malattie che incontravo erano ad un tale stato di degenerazione che in nessun caso sarebbe stato possibile pensare ad una guarigione. Erano anche gli anni in cui stavo per conseguire la mia seconda specialità, in psicologia, proprio stimolato dallo studio dell’organizzazione psicosomatica, dall’evidenza che già la diagnosi di cancro inibiva, eccettuati pochi casi, qualsiasi risposta attiva delle persone che la subivano e che tale depauperamento motivazionale non veniva soltanto dall’effetto della malattia, ma da fattori legati all’organizzazione della “cura” e al suo potere di inibire una risposta attiva alla sofferenza.

Il momento dell’incontro con persone tanto debilitate si accompagnava ad ulteriori evidenze: la prima mostrava che il dolore nella persona con cancro è un dolore totale, in cui la componente fisica e la sofferenza psicologica si fondono strettamente ad amplificarne il disagio, le sensazioni e la persistenza; la seconda, conseguenza della prima, si traduceva nell’incessante richiesta di farmaci contro il dolore al sorgere di un qualsiasi sintomo, raffreddore, algia muscolare o disagi psicologici diffusi e algogeni; la terza riguardava l’abbondante incetta che gli ammalati potevano farne senza particolari indagini o interviste sulla natura del dolore stesso. Era sufficiente il lamento o le parole “ho male” per scatenare spesso una massiccia controffensiva farmacologica. Non mi si fraintenda, mai ho pensato che la richiesta delle persone ammalate fosse illegittima o pretestuosa e nemmeno che questi avrebbero dovuto mostrare chissà quale abnegazione davanti al dolore; ciò che mi contrariava era la gestione tecnica-organizzativa del problema, ben lontana dal fornire una risposta alla soggettività di ognuno. Alla contromisura medica, di tanto in tanto seguivano indagini statistiche, condotte da altre figure professionali, infermieri o psicologi, volte ad una definizione quantitativa del dolore, spesso impostate sulla risposta a test di tipo analogo-visivo — nell’ultimo periodo in cui lavorai in quel contesto andavano di moda le “faccine” — sulla base dei quali costruire scale di percezione soggettiva e di risposta farmacologica mirata su base statistica.

Non serve un medico per comprendere che l’approccio statistico non avrebbe potuto funzionare bene, dal momento che la risposta al dolore è il fenomeno più soggettivo e culturalmente adattabile che l’essere umano manifesta. Oltretutto, si capisce che in tal senso la formulazione di protocolli di intervento si fondava su un’informazione parziale che “rimbalzava” da un esaminatore ad una stima statistica, probabilmente una media e da qui veniva poi riferita a vari stadi di una malattia prototipica. Per quello che ho potuto constatare, nemmeno i medici sembravano persuasi, nella pratica, dell’utilità del metodo (effectiveness): o si davano il tempo per comprendere il dolore soggettivo o applicavano un principio di “cautela”, somministrando dosi sempre maggiori di analgesici.

Nel corso della pratica riabilitativa, potei notare che a volte il dolore si presentava superficiale e ottundente, simile ad un dolore influenzale o parainfluenzale, un dolore della pelle e delle articolazioni; altre volte si presentava profondo e difficilmente trattabile anche con i farmaci. Questi ultimi, i più insidiosi, erano spesso il segno di un imminente peggioramento o fine della vita. I dolori più superficiali si attenuavano con tocchi delle mani commisurati alla fragilità del corpo, ormai troppo ammalato, ma anche suscitando la capacità di affidarsi ad una cura paziente e lenta, come anche quella di lasciarsi andare al sonno. Infatti le persone ammalate di cancro perdono il sonno, forse per la paura di non risvegliarsi più, che fa da sentinella alla possibilità di concedersi un riposo ristoratore. Tante volte il mio unico obiettivo era proprio quello di aiutarli a dormire un po’, rassicurandoli sul fatto che ci sarebbe stato risveglio. In sostanza, in senso tecnico il mio intervento consisteva, il più delle volte, nel tentativo di alleviare i dolori e di rilassare la persona che si affidava alle mie cure, altre volte nel tentativo di godere ancora per qualche tempo di funzioni motorie che sembravano perdute e che invece non lo erano del tutto, o non lo erano affatto.

I rapporti terapeutici ai quali la persona veniva sottoposta erano talmente tanti e diversi — medico, infermiere, terapista, psicologo, nutrizionista, assistente di base, assistente sociale, assistente spirituale — che si poteva “sentire” come la frammentazione della tecnica terapeutica risuonasse perfettamente con la frammentazione della personalità di quell’individuo e non di meno con la disgregazione del suo corpo, colpito in primis dalla malattia, aggiogato alla cura e alla totale delega verso la promessa illusoria della medicina di prolungare la vita. Oltretutto l’approccio “plurispecialistico” sommava senza risultato sei o sette interpretazioni diverse dei problemi di quella stessa persona, in una gestione che non prevedeva l’unità psicosomatica ma unicamente la risposta sintomatica in ognuno dei campi di intervento. I trattamenti che praticavo, anche in chiave simbolica, toccando tutto il corpo della persona, erano volti al ricomporre questa incontenibile fuga entropica. E non vi è dubbio, in tanti casi il dolore era obiettivamente alleviato, almeno per un pò. Vi è il sospetto che il personale medico non abbia quasi mai considerato questi risultati come possibili informazioni integrabili, a vantaggio del differente bisogno soggettivo delle persone che curavano.

Tante volte ho sperato che il paziente imparasse a riconoscere i suoi sintomi, a definirli per ordine di gravità, intensità, colore, timbro e transitorietà o stabilità, che trovasse la forza di affrontare quelli affrontabili e a chiedere aiuto per quelli non sopportabili e invero ho sempre stimolato un’educazione a questo riconoscimento. Ma questo non avveniva facilmente perché culturalmente il dolore del paziente oncologico terminale diventa uno e uno solo, senza sfumature e senza differenze e la soluzione è a senso unico: l’oppiaceo. Così la persona, atterrita, veniva risucchiata da pratiche mediche impersonali e direttive nella delega totale di ogni aspetto della sua malattia.

Sia chiaro, l’adozione del palliativismo (3) è stata una sofferta e coraggiosa conquista per la cura delle persone con cancro in fase terminale, ma a fronte di una tale frammentazione degli interventi la persona stessa viene deprivata della possibilità di attivare risorse proprie che potrebbero innestarsi positivamente nella cura. Gli stessi professionisti non medici che lavorano in questi campi, per diversi motivi, spesso devono far leva sulla propria compassione e sull’ideale terapeutico, abdicando al vedersi riconosciute le loro competenze di osservazione e conoscenza dei problemi e delle persone che curano, diventano così scarni esecutori di pratiche e manovre tecniche, esponendosi a sicuro burn-out. Se emergesse la capacità, da parte della cultura medica, di integrare informazioni diverse da quelle formulate nel loro unico linguaggio, potrebbero aprirsi prospettive collaborative e terapeutiche nuove e inimmaginabili.

Una elementare retorica bellica, che interpreta la cura come lotta contro la malattia, definisce il cancro come bersaglio e le medicine il carro armato, trascurando il dettaglio che il bersaglio sta appeso alla persona. Tale retorica si adatta bene alle priorità della cultura politica, per la quale non è un caso che industria militare e industria sanitaria ricoprano la maggior parte del fabbisogno economico degli stati occidentali, a discapito dell’istruzione, dell’assistenza sociale, delle politiche di comunità, in un termine: a scapito della vera prevenzione su scala sociale.

Le risposte positive che il malato avrebbe potuto avere nel rapporto terapeutico con il suo infermiere o con il suo fisioterapista o con il suo psicologo avrebbero dovuto integrarsi, perché parlavano della risposta del paziente alla cura, di una risposta che indicava la via del sollievo, mentre l’intervento tecnico riduceva la cura soltanto alla risposta di un tessuto ad una sostanza. Altre interazioni, e le eventuali interazioni tra queste e la cura farmacologica, non erano ammesse, anzi malviste quando non proprio osteggiate. Qualche anno è passato da quando questa mia esperienza si è conclusa, chissà che le cose non siano nel frattempo cambiate…

Part 2

Bibliografia

  1. Illich I. (1976). Nemesi medica, l’espropriazione della salute. Bruno Mondadori, Milano (Ed. It., 2004).
  2. Medicina, psicologia e fisica quantistica: la crisi delle certezze e l’umanizzazione della cura. Bologna, 19–20 novembre 2011, Savoia Hotel Country House. Organizzato da AIREMP.
  3. Saunders C. (2008). Vegliate con me. Hospice: un’ispirazione per la cura della vita. EDB, Bologna.

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Alessandro Campailla
LaTI® — Laboratorio Teatro d’Impresa

Psicologo, psicoterapeuta e fisioterapista. I miei campi di studio sono: il rapporto mente-corpo-società, nel suo sviluppo storico e in relazione alla clinica