La visione di Basaglia: riflessioni sul presente

L’Organizzazione mondiale della sanità (OMS) ha definito la salute come uno “Stato di completo benessere fisico, psichico e sociale e non semplice assenza di malattia”, la salute viene considerata un diritto e come tale si pone alla base di tutti gli altri diritti fondamentali che spettano alle persone”. (1).

Perché partire da questa definizione per parlare del dottor Franco Basaglia e perché ricordarlo?

Non solo perché quest’anno ricorre il quarantennale della sua morte, a breve distanza dalla ricorrenza per l’istituzione della legge 180/1978, intitolata “Accertamenti sanitari volontari e obbligatori”, quella legge che porta il suo nome e che determinò la chiusura delle istituzioni manicomiali, integrata nel grande movimento di riforma sanitaria che sempre nel 1978, con la nota legge 883, istituì il Servizio Sanitario Nazionale, di cui in questi tristi giorni si celebrano fasti e miserie. Nemmeno per il fatto che siamo sempre “mediaticamente eccitati” dagli anniversari e dalle cifre tonde, per cui sembra giusto che anche questa ricorrenza abbia un suo spazio.

Nonostante questi motivi rattrista immaginare l’eventualità che i politici e le istituzioni, da qui ai prossimi mesi, saranno tanto impegnati da non ricordare uno tra gli interpreti politici e sociali principali di quel grande movimento che ci ha consegnato tale eccellenza (il SSN). Tuttavia in questo silenzio generale, in attesa della precisa ricorrenza e per aiutare l’opinione pubblica a prevenire amnesie, rimane spazio per alcune riflessioni:

La prima riguarda il fatto che i nostri dirigenti, salvo rari casi, potrebbero dimenticare di celebrare il pensiero di un uomo e di un professionista tanto coraggioso, illuminato e riformatore, perché probabilmente troppo impegnati a fronteggiare l’emergenza sanitaria in corso.

La seconda (ma già solo immaginandola non oso credervi) è che questa classe politica nuova, giovane e smart, in gran parte forse non conosce il personaggio, la sua levatura culturale e il ruolo strategico che ha ricoperto nel processo di riforma del sistema sanitario italiano. Nella faticosa e quotidiana economia del proprio sapere tecnico, i nostri amministratori potrebbero non avere spazio per la storia delle istituzioni e senza di lei non sappiano annoverare questo importante evento che ricordi chi è stato e cosa abbia rappresentato Franco Basaglia per il movimento di crescita e cambiamento della psichiatria e della sanità pubblica in Italia e fuori di essa.

La terza, ma sono certo che non sia questo il caso, paventa la possibilità che se ne possano dimenticare volontariamente, in un momento tanto complesso e delicato per le sorti del nostro sistema sanitario, proprio per non fomentare la critica e la riflessione che il suo pensiero, oggi più attuale che mai, potrebbe sollevare nelle persone che amano farsi domande.

Il motivo che mi porta a ricordare Franco Basaglia, a quarant’anni dalla sua morte, riguarda la possibilità e l’impegno di utilizzare uno spazio informale e a largo uso, quale può essere un blog, proprio perché è uno spazio personale, pubblico e “democratico” ad un tempo e questo mi rende la misura della libertà e dell’evoluzione raggiunte dall’uomo, le stesse che questo esempio di medico e intellettuale avrebbe certamente apprezzato e difeso.

Inoltre, non meno secondaria motivazione riguarda la classe dirigente del Nostro Paese la quale, mai come oggi, è chiamata ad esercitare la responsabilità e il dovere di difendere questo e altri spazi — ovvero di tutelare il diritto alla dignità della vita delle persone che a lei si affidano; il dovere di curare attraverso le istituzioni e la scelta degli strumenti più idonei e meno pericolosi per la loro salute; di difendere oppure limitare le libertà dei singoli attraverso l’applicazione delle leggi in ottemperanza al fine di riabilitare chi sbaglia e proteggere chi viene aggredito; di istruire e formare i bambini e i ragazzi ai principi della difesa della verità, della libertà di pensiero e della conoscenza — e pertanto si vede direttamente interessata dalla critica politica e sociale che il pensiero di Basaglia, di sua moglie, Franca Ongaro Basaglia, e dei tanti medici e intellettuali artefici di quel grande cambiamento che fu la chiusura dei manicomi, rivolsero alle istituzioni e ai suoi tecnici.

Non può essere allora considerato anacronistico — in un tempo in cui è emersa una nuova dimensione di guerra, quella dell’informazione e del consenso, che viene veicolato passivamente e docilmente attraverso i mezzi volgari e monopolisti dell’informazione di massa: la televisione, i giornali, i social media — parlare nuovamente del ruolo del tecnico e di come questo, anche inconsapevolmente, possa diventare asservito agli interessi di poteri economici più o meno evidenti. Non è nemmeno anacronistico riferirsi alle masse come oggetto di sfruttamento per la sopravvivenza di tali interessi, poiché proprio di masse si tratterebbe, sebbene non più organizzate e non più motivate secondo i tradizionali principi rivendicativi della loro originaria identità, in quanto non più soggetto di appartenenza politica oppure oggetto di segregazione istituzionale, come fu nel caso dei manicomi, delle fabbriche o delle carceri; bensì oggetto e vittima dell’annullamento della possibilità di scelta e autodeterminazione nella gestione della propria salute, nel rispetto del prossimo e della comunità, e quindi delle libertà fondamentali delle democrazie:

[…] La posta in gioco è ora il rapporto tra il tecnico, la scienza e la sua pratica di cui le masse sono l’oggetto, una volta che il tecnico — in particolare quello delle scienze umane — abbia riconosciuto che il suo ruolo, in questo sistema sociale, è quello di manipolare il consenso attraverso le ideologie che egli stesso produce e mette in atto. […] (2)

Così scriveva Basaglia nel 1975 in un volume collettaneo, curato insieme a Franca Ongaro Basaglia, intitolato “Crimini di pace”, dove auspicava la presa di coscienza da parte del tecnico e dell’intellettuale rispetto al suo ruolo di protezione degli interessi di classe. E in effetti il ruolo del tecnico, l’organizzazione della sua formazione e il controllo burocratico ed economico dei suoi compiti istituzionali, si mantengono ancor oggi elementi determinanti al fine di presentare e trasmettere il concetto di salute come bene supremo, a cui tutto deve soccombere, anche la vita stessa.

[…]Tale processo (la divisione e la iperspecializzazione del sapere nelle scienze umane e mediche n.d.r.) ha dato origine a una serie di corpi culturali che codificano e determinano i comportamenti, passano sotto silenzio i bisogni primari, ne creano di artificiali, insegnano agli uomini il significato della loro nascita, cosa sono, quale deve essere la loro vita, quale è il rapporto da instaurare fra di loro, quale deve essere e quale forma deve assumere la loro morte” (ibid).

Ne abbiamo avuto un drammatico esempio nel caso della dolorosa frattura determinata in numerosi casi, dal ratto dei defunti per Covid-19 alle loro famiglie, in nome di un criterio istituzionale preventivo (post-mortem) non dimostrato e non più dimostrabile che ha cancellato in un colpo solo la funzione antropologica e terapeutica del rito funerario e del cordoglio.

È facile comprendere, in tal senso, come e perché la salute sia stata trasformata in un diritto, o perlomeno come si voglia travestire un bene, la cui tutela è principalmente un dovere dello Stato, dei suoi tecnici e del singolo, in un elemento di rivendicazione in termini di legge. Ancor più: l’ambivalenza che vuole conferire a tale dovere collettivo il rango di diritto del cittadino, non mostra il fatto che laddove agisce la legge e vige il diritto, non vi è più la possibilità di esercitare una scelta ma si è soggetti a una coercizione normativa, nell’illusione di esercitare o di godere di un privilegio.

Il diritto di poter usufruire del bene comune delle cure garantite, per quanto possibile, da un sistema di sanità pubblico non è sinonimo di salute, lo è, tuttalpiù, di diritto ad un trattamento sanitario adeguato ad un mantenimento dignitoso della vita e della sua condizione di terminalità. Per salute possiamo intendere un costrutto più complesso che attinge i suoi significati da domini pratici, preventivi-igienico-etico-pedagogici, sia individuali che collettivi, che chiamano in causa principalmente la responsabilità,oltre che la tecnica della terapia. Prima di tutto dovrebbe essere il risultato di una scelta individuale maturata attraverso l’educazione, che coinvolge ognuno ad esercitare il dovere di rispettare se stessi, il proprio corpo e i propri pensieri e che investe gli altri di questo stesso dovere, nel rapporto con la collettività. In quest’ultimo caso, per esempio, possiamo scegliere di esercitare il dovere alla salute quando cresciamo i nostri figli nel rispetto delle norme igieniche-preventive che non siano dannose all’equilibrio del loro sviluppo; ma anche nel vivere le relazioni che intratteniamo con i nostri simili nella quotidianità, nel luogo in cui viviamo e che condividiamo e che non è nostro o soltanto nostro; nei luoghi in cui si lavora, rispettando e tutelando le norme che l’igiene prescrive, oltretutto rese eccezionali nella nostra attualità per fornire una risposta sanitaria all’epidemia da Coronavirus. In veste di tecnico mi sento di affermare che tale dovere si esercita innanzitutto nel promuovere una vera prevenzione, non delegata soltanto alla diagnostica precoce di screening, di cui si riconosce peraltro l’enorme efficacia, e nemmeno alla farmacotecnica, bensì basata sull’igiene: dei cibi, dell’ambiente, del movimento e delle relazioni.

Parafrasando ancora le parole di Basaglia, allora non è possibile considerare la salute un bene assoluto e quindi un diritto, come lo sono l’acqua, il sole, l’aria, la casa, il lavoro o la libera circolazione: dal momento che non esiste salute senza malattia, anche in un singolo organismo. Non esiste la preservazione della vita in opposizione alla morte, la salute e la malattia non sono nettamente demarcati da una linea divisoria asettica, i due principi invece si compenetrano “dalla culla alla tomba” e noi operatori sanitari o delle scienze umane, psicologi, psichiatri, infermieri e medici, lo sappiamo bene. Rimane allora un atto di onnipotenza considerare la salute come uno stato di “completo benessere”, o se proprio vogliamo salvare il concetto proposto dall’OMS che apre questa lettura, potremmo considerarlo come una “tendenza al limite”, un criterio guida. A mero titolo di esempio: come si concilierebbe in tal senso la definizione di portatore sano con la definizione di “completo benessere”? Di “[…] non solo assenza di malattia”? Se il portatore sano è la nuova minaccia alla salute pubblica, in barba a Pasteur, ai suoi successori e al concetto di immunità di gruppo, in che modo il sistema sanitario e i suoi fedeli esecutori realizzeranno la tanto agognata “assenza di malattia”? Qualche dubbio sorge da più parti.

Credo che se Franco Basaglia fosse qui oggi, e con lui i tanti intellettuali che hanno trattato il tema dell’uso politico e repressivo delle istituzioni totali e dei tecnici del consenso, come Michel Foucault, Erving Goffman; Ronald Laing, Noam Chomsky (vivente), per citarne solo alcuni noti nel campo della psichiatria, vedrebbe riattualizzarsi tante delle sue più suggestive e veritiere analisi.

Credo che come tecnici e intellettuali abbiamo il compito e la responsabilità di fare molta attenzione e di non considerare un sistema economico globalizzato non più ideologico soltanto perché apparentemente liberato dai blocchi contrapposti del pensiero rivoluzionario e controrivoluzionario otto e novecentesco. Quelle ideologie hanno attraversato una metamorfosi e un annullamento recente sotto la spinta della globalizzazione capitalistica, la quale non è meno potente in chiave ideologica dei movimenti di massa che è riuscita a distruggere, con l’esito che a differenza di quei movimenti, che furono in grado di muovere e costruire una coscienza, di classe ma non solo, a vantaggio di un ampio strato di persone povere e sfruttate, ha invece distrutto ed evaporato la capacità dei gruppi di riunirsi, organizzarsi e difendersi. Come ha scritto recentemente il filosofo Giorgio Agamben:

“È importante non lasciarsi sfuggire che una comunità fondata sul distanziamento sociale non avrebbe a che fare, come si potrebbe ingenuamente credere, con un individualismo spinto all’eccesso: essa sarebbe, proprio al contrario, come quella che vediamo oggi intorno a noi, una massa rarefatta e fondata su un divieto, ma, proprio per questo, particolarmente compatta e passiva” (3).

Agamben sottolinea così il paradosso di un’esistenza arresa e illusoria della socialità, una sorta di fantasma la cui effige è la massa, una massa anestetizzata e passiva, ancora massa e ancora compatta, ancora capace di identificarsi in un principio egemone, paradossalmente disgregante: la paura di toccarsi, avvicinarsi e scambiarsi l’umore nero della pestilenza. Una sorta di “zombie sociale” al quale non è stata espropriata l’identità di massa, bensì l’anima pulsante, ovvero il principio solidaristico della fiducia e dello scambio affettivo. A ben vedere questo processo non è stato determinato dall’epidemia, questo drammatico evento ne rappresenta soltanto il suggello.

A corollario di quanto detto finora non dobbiamo dimenticare che il potere economico, fin dalle origini della sua organizzazione capitalistica, ha controllato la medicina e i suoi strumenti. Così scrive lo storico e medico Giorgio Cosmacini:

“Nel Cinquecento, la sifilide attenuava la sua virulenza per mutazione del suo “genio epidemico”, non certo per la mutazione dei comportamenti e dei costumi umani; né tantomeno per gli effetti del mercurio e del guaiaco (pianta americana ritenuta efficace nella cura della sifilide, n.d.r.), quest’ultimo in grande auge cinquecentesca, fatto oggetto di uno smercio vastissimo, detenuto quasi in esclusiva dai Fugger, potenti mercanti-banchieri di Augusta, cassieri dell’imperatore Carlo V. La medicalizzazione multinazionale della società europea era senza dubbio un lucroso affare (4).

Non possiamo allora ingenuamente assumere che sistemi di potere economico, già attivi agli albori dell’era moderna, siano semplicemente mutati in società filantropiche, amorevoli e preoccupate per il libero destino delle persone e delle masse. Non vederlo sarebbe un opera di rimozione sociale e psicologica molto preoccupante.

Franco Basaglia, e con lui un intero movimento culturale e politico, aveva identificato e compreso il ruolo degli intellettuali e dei tecnici a difesa di sistemi di potere analoghi, che hanno portato nei secoli alla definizione e all’isolamento di categorie di “devianti”, identificandole con il povero, il negro, il folle, l’emarginato, l’omosessuale… e lo ha spiegato. Credo che oggi uno dei compiti principali di intellettuali e tecnici che abbiano a cuore la salute e il futuro delle persone, sia quello di continuare quella rivoluzione culturale con i propri mezzi, ognuno nella propria dimensione, cercando interlocutori e alleanze allo scopo di sostenere il dubbio, quale che sia: etico, morale, filosofico, tecnico, dell’informazione. Se non saremo capaci di assumere questa posizione potremmo bere tutti alla fonte dell’oblio e dell’asservimento a nuove, ma non così tanto, logiche di sfruttamento del corpo, delle paure e dei bisogni del genere umano.

Grazie per la lezione Dott. Basaglia (Venezia, 11 marzo 1924 — Venezia, 29 agosto 1980).

Riferimenti Bibliografici

  1. https://it.wikipedia.org/wiki/Salute
  2. Basaglia F., Ongaro Basaglia F. (1975). Crimini di pace, Ricerche sugli intellettuali e sui tecnici come addetti all’oppressione. Baldini e Castoldi Ed., Milano.
  3. https://www.quodlibet.it/giorgio-agamben-distanziamento-sociale?fbclid=IwAR3tFZW9Gk67bYFnTl8J3p9RLD-1s1N4UkpJPTPYNwA6maEA0GGInn2iTXk
  4. Cosmacini G. (1997). L’arte lunga, Storia della medicina dal’antichità ad oggi. Editori Laterza, Bari.

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Alessandro Campailla
LaTI® — Laboratorio Teatro d’Impresa

Psicologo, psicoterapeuta e fisioterapista. I miei campi di studio sono: il rapporto mente-corpo-società, nel suo sviluppo storico e in relazione alla clinica