Lettura di Corpi

Un’esperienza onirica nello psicodramma analitico

In questo breve scritto, ripreso da vecchi appunti, dimora il bisogno di rievocare le conoscenze, l’esperienza, le chiavi di lettura, gli strumenti e il desiderio di ricominciare a praticare il lavoro per il quale mi sento ancor oggi vocato: la cura delle persone e delle loro difficoltà esistenziali. Questi ultimi anni hanno scosso profondamente le radici del mio essere, del vivere e la capacità di sostentare la mia famiglia, hanno fratturato la continuità quotidiana e certamente hanno rimescolato il “mazzo delle carte”. Il timore e l’incertezza non sono alle spalle, ancora qualche venefico strale si insinua nelle difficoltà del vivere quotidiano, ma una luce si vede in fondo al tunnel: sono cambiato, siamo cambiati pur rimanendo coerenti alle nostre scelte. Dedico questo breve scritto a tutti i colleghi che hanno resistito, pagando duramente e affermando il proprio diritto alla scelta terapeutica, che altro non è se non il presupposto alle cure che proponiamo alle persone.

La lettura del corpo rappresenta un elemento fondamentale di alcuni orientamenti diagnostici in psicologia e psicoterapia. La sua forza descrittiva ed efficacia interpretativa è stata formalizzata da alcune correnti teoriche tra cui la bioenergetica di Alexander Lowen e ancor prima anticipata e radicata nel concetto di armatura caratteriale avanzato da Wilhelm Reich.

La lettura che propongo di seguito si riferisce alla suggestione che ricevetti durante la mia formazione in psicoterapia e psicodramma. Al termine di una lunga e sofferta sessione, durante l’analisi didattica, i protagonisti della scena che allora si stava svolgendo rimasero come sospesi in una posa che ricalcava la Pietà di Michelangelo. Lei era una bella e giovane ragazza, assorta nell’handling amorevole verso lui, giovane e forte, regrediti nel setting terapeutico in un reciproco bisogno di amore, cura e accudimento. L’immagine, per quanto tenera, rivelava un profondo sottofondo depressivo, il ricordo di una maternità negata e sofferta. Così la sospensione dell’attimo che poteva preludere alla catarsi terapeutica svanì nel tentativo di mantenere l’immagine in un contesto onirico, come se i due protagonisti non avessero voluto più svegliarsi da questo abbraccio. In quel momento mi sovvenne l’immagine della Pietà, di un profondo dolore legato alla morte o all’angoscia della perdita, che si lega alla sofferenza depressiva e ne diedi una lettura psicosomatica.

Nell’opera la sofferenza della morte è trasfigurata nel viso della Madonna, il peso del corpo senza vita del Cristo è sostenuto dal busto reclinato della donna, che si flette un po’ sul fianco come se dovesse resistere ad una spinta, che insieme al figlio la trae verso l’Ade. Soltanto il bilanciamento del capo, nel verso opposto, la trattiene, in un ancoraggio al reale e alla vita dato dal dolore, unica fonte di resistenza all’abbandono definitivo, disegnato da un’espressione rassegnata che definisce il lutto.

Ma al tempo stesso è il piede destro del Cristo che pur inerte poggia al suolo conferendo l’equilibrio e il sostegno al vacillare della donna vicino alla morte, al furto della vita e della maternità. Come se la morte fondasse la vita, unico appoggio visibile al dolore. Ciò che invece è nascosto dalle vesti e dal corpo inanimato del figlio è il ventre squarciato della madre, centro di gravità su cui poggia tutta la scultura, disassato dall’urto della perdita, sostenente la figura del morto e in continuità con il piede di lui, appoggiato.

La compenetrazione tra vita e morte, emendamento del lutto e disperazione, tensione al limite dell’umano sopportare, è qui rappresentata in una metafora della croce, che anche i corpi tendono a costruire nel loro intersecarsi e che si svela nelle linee di forza tuttavia sempre sostenute e culminanti nell’estremità podalica del morto.

Il significato religioso e quello psicologico si compenetrano. Il primo è evidente: il destino, voluto dal progetto divino travolge e obbliga questa donna giovane — che sembra ancor più giovane del figlio morto, il quale sembra padre mentre è figlio e al tempo stesso ormai Spirito Santo— a ricomporre l’entità trinitaria, coesa allo schema della croce. Meno lo è quello psicologico che qui propongo: è la morte che ha il compito di sostenere l’equilibrio delle due figure. Non sembra esservi nella rappresentazione nessuna allusione alla resurrezione del corpo. L’opera incarna il fatto umano della perdita per la quale si chiede pietà a Dio. Una mano della madre forte sostiene la schiena del figlio, ancoraggio alla ricerca di risorse per la sopravvivenza, mentre l’altra trattiene il corpo con il bordo ipotenare della mano, ribadendo che non è questa bensì è la certezza della morte a sostenere il peso della vita nel delicato equilibrio passivo dovuto al piede del Cristo, che impedisce ai corpi di scivolare. La mano sinistra della giovane è aperta in due sensi, nell’offerta del figlio all’uomo-Dio-padre e nella richiesta di un aiuto e di una nuova vita. Riuscirà il lutto a risanare il furto di maternità a cui è stata sottomessa la madre-bambina? Questa è la domanda alla quale siamo quotidianamente portati a rispondere in diversi contesti terapeutici…

L’incrociarsi dei significati psicologici, dell’asincronia temporale dovuta alle sembianze dei personaggi rappresentati e dei simboli religiosi disegna uno scenario onirico e mitologico al pari della scena psicodrammatica che ne ha suscitato l’associazione.

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Alessandro Campailla
LaTI® — Laboratorio Teatro d’Impresa

Psicologo, psicoterapeuta e fisioterapista. I miei campi di studio sono: il rapporto mente-corpo-società, nel suo sviluppo storico e in relazione alla clinica