808s & Prometazina: Droga, (t)rap music & social network
Con l’arrivo della trap music in Italia, il rap-game è entrato in confusione: cos’è davvero la trap? E cosa sta succedendo al rap italiano? Viaggio alle radici della musica del momento
Se ascoltando A Milli di Lil’ Wayne non vi spettinate i capelli, forse dovreste mettere le cuffie — e forse la maggior parte di chi malgiudica la trap music dovrebbe fare lo stesso… È probabile infatti che non abbiate casse abbastanza potenti da riprodurre le basse frequenze delle 808s, kicks gravissimi creati con la Roland 808. La drum-machine, creata negli anni ’80 e ripescata dal southern-rap degli anni 2000 per la sua carica esplosiva, è infatti diventata un must-have della trap degli anni ’10— assieme alla droga, al cantare invece di rappare e al conciarsi in maniera addirittura più ridicola del solito. Tra i tanti dubbi che ogni giorno nascono in seno al rap, solo una cosa è certa in questo genere: it’s gotta be bumpin’.
La trap music comunque non nasce ieri: viene alla luce come rap che parla della trap, cioè il posto dove vai a comprare la roba.
«If you don’t know what the trap is, that’s basically where drugs are sold.» — T.I., 2003
Dal 2010 però, con l’arrivo del producer Lex Luger delle sue 808s esagerate, hi-hats velocissimi e armonie cinematiche (al servizio di nomi come Kanye West & Jay-Z, Rick Ross e Waka Flocka Flame) il genere ha preso una piega molto diversa, e da una definizione culturale “trap music” ha cominciato ad indicare un genere vero e proprio. Artisti come Chief Keef, A$AP Rocky e Young Thug sono riusciti a cavalcare il nuovo rap degli anni ‘10 e ad ispirare centinaia di rapper da ogni parte del globo — dai compaesani Lil Uzi Vert, 21 Savage e Lil Yachty, ai francesi come SCH, alla coreana Underwater squad, fino ai nostri Sfera Ebbasta e Dark Polo Gang. Nonostante però in tutti i paesi normali la trap si sia affiancata pacificamente al rap (con qualche riserva su talento, argomenti ed autotune), in Italia è subito partita una guerra senza quartiere contro di essa. La crociata, indetta da Papa Inoki e appoggiata dalle oldheads di tutta Italia, si concentra soprattutto su un argomento: “la trap NON È RAP”.
Molto probabilmente l’odio della vecchia scuola contro la nuova è dettato dal classico luddismo di chi si vede superato e non capisce il perché, ma viste le tensioni nella scena urge una precisazione: nonostante tutto, la trap è davvero rap. Il fatto è che anche la grime è rap, che i Death Grips fanno rap, e che anche MattyBraps che canta di troie a 9 anni è rap — e se non riuscite ad accettarlo molto probabilmente il rap non vi piace davvero. Forse il problema è che in Italia non siamo abituati al droga rap: qua se lo fai, lo fai e basta, però nonostante mezza Italia viva ancora nel mito di un rap autarchico, sono sempre stati gli Stati Uniti il punto di riferimento — da SxM, che è il cugino italo-americano di The Chronic, a Mr. Simpatia, che è un taglia-e-cuci dei primi due dischi di Eminem. E in America la droga è sempre stata un argomento chiave del rap, nel bene e nel male — in primo luogo per mettere in guardia dal crack, vera epidemia per le comunità nere degli anni ‘80-’90. Nel 1984–85 infatti, nei quartieri peggiori di New York & Los Angeles si cominciava a cuocere la cocaina col bicarbonato di sodio: la coca si cristallizza e si ottengono sassi di crack, da fumare nelle pipe di vetro per avere un high da paura. Certa gente sta sveglia per giorni di fila a fumare senza dormire e mangiare, spiando dalle tapparelle aspettando che la polizia entri da un momento all’altro: se la cocaina ti fa stare lucido, il crack ti accende il cervello così tanto che è impossibile restare calmi. Il crack è la droga perfetta per chi la spaccia: facile da fare e facile da vendere, perché i clienti non mancano mai. Il motivo è semplice: il picco di dopamina dura una quindicina di minuti ed il low è così improvviso che ti sembra di passare dalle Bahamas a Berlino Est — e l’unica soluzione è fumarsi un’altra roccia. Creatosi un esercito di tossicodipendenti paranoici senza un soldo in tasca, le conseguenze furono disastrose: nel lustro ‘84–’89 il tasso di omicidi di ragazzi neri tra i 14 e 24 anni raddoppiò — ed il tasso di arresti per detenzione d’arma da fuoco e possesso di droga schizzò alle stelle, mentre le famiglie si sgretolavano per gli omicidi, le tossicodipendenze e la galera. L’amministrazione Reagan, impaurita dalla criminalità senza confini e dalle storie tristemente sempre più comuni di crack-whores e crack-babies replicò con l’Anti-drug abuse act dell’86: chiunque fosse stato preso con 5 grammi di crack sarebbe stato sentenziato a una pena minima di 5 anni di prigione — mentre, in un rapporto di 100:1, era necessario avere mezzo chilo di cocaina per ricevere la stessa condanna! L’atto è stato abolito solo nel 2010 dal presidente Obama, con 24 anni di ritardo e con troppe vite distrutte da un’ingiusta War on drugs che ha incarcerato un milione di americani all’anno dalla sua entrata in vigore — e ovviamente la maggior parte proveniva dai quartieri neri. Ovviamente capirete quanto la crack-cocaine sia stata importante nella storia del rap, dai primi messaggi contro la vita a cui tutti sembravano destinati nel ghetto (tra cui la più importante canzone rap di sempre, The Message di Grandmaster Flash), fino ad arrivare al gangsta rap, che di vendere il crack e di sparare sui poliziotti se ne vantava, in un clima di esasperazione sempre più teso. Basta ascoltare tracce come Straight Outta Compton, Fuck tha Police, The Day the Niggaz Took Over” o il giorno dei contrari It Was a Good Day per sentire quanto la gente che viveva nei projects popolari fosse stanca di arresti, violenza e polizia — mentre le presidenze Reagan e Bush Sr. riuscivano a malapena a tenere la situazione sotto controllo e le gang stavano iniziando a diventare sempre più diffuse.
A un certo punto il crack era diventato un affare di tutti i giorni per la comunità: che male c’era allora nell’usarlo per poter dare una vita decente alla propria famiglia? Alla stregua di Walter White, nemmeno Notorious B.I.G. o Jay-Z si facevano tanti problemi a sostentare la propria famiglia o le proprie spese appoggiandosi sulla sofferenza e sulla disperazione di altre persone. Ma, se Ezra Pound diceva “Tu non puoi fare una buona economia con una cattiva etica”, è anche vero che è difficile avere una buona etica in una cattiva economia.
“I know how it feel to wake up fucked up,
Pockets broke as hell, another rock to sell” — Notorious B.I.G.
Il crack aveva avuto effetti disastrosi sulla comunità, ma poteva anche diventare una fonte di reddito cospicua per chi sapesse come muoversi: invece che consumatori era meglio trovarsi venditori, e molte storie di rapper sono cominciate così, con la voglia di non trovarsi dalla parte sbagliata della linea. Dagli anni ’90 poi, un’altra droga aveva cominciato a prendere piede dalla zona di Houston, in Texas: la purple drank. La droga nasce come un miscuglio di sciroppo per la tosse e bevande gassate, che rilassa e intorpidisce. I principi attivi del lean sono codeina e prometazina — quindi mettete giù il Bisolvon che avete trovato nell’armadietto dei farmaci, vi servirà la prescrizione per questa roba. Infatti la prometazina è un antistaminico/antipsicotico, e la codeina è un oppiaceo (es. morfina, oppio, eroina) che serve a fermare la tosse. Ovviamente bevendone troppa smetterete di tossire così tanto che smetterete anche di respirare (R.I.P. Pimp C & A$AP Yams) — ma al contempo, se state provando a fare un beverone casalingo italiano con Sprite, Tachidol e Coefferalgan, vi consiglio di lasciar perdere: per la codeina di mezzo lean potreste bervi il paracetamolo di dieci Tachipirine (e questo è male). Comunque la lean è sempre rimasta una presenza fissa nel southern hip hop Americano, da DJ Screw agli UGK, fino alla ribalta del sound negli anni 2000 con Ludacris, Lil Jon, Rick Ross ed il grandissimo Lil’ Wayne — ma ha cominciato a fare le headlines dei giornali americani con i ricoveri di Wayne in seguito ad un paio di overdosi. Ultima notizia davvero importante sul tema è stata la decisione di Gucci Mane di disintossicarsi, dopo 10 anni di dipendenza di cui ricorda poco e niente. Da quando è uscito dal carcere, Gucci è rinato a nuova vita: si è rimesso più che in forma, pubblica un disco al mese e sembra molto più lucido di prima, quindi bambini ricordate: dite no alla droga e sì alla palestra se volete diventare come il Gucci di sotto.
Torniamo all’Italia però. Finita la golden-age dei ’90 con l’uscita di 3 Mc’s al cubo delle Sacre Scuole, la decisione di Universal Italia di affidare tutto il rap italiano nelle mani di Fabri Fibra e dei Club Dogo aveva avuto i suoi pro: finalmente il rap poteva uscire dai centri sociali e dalle sue imitazioni/limitazioni — confrontandosi commercialmente con generi verso cui (teoricamente) non aveva niente da invidiare. E anche se il rap mainstream aveva un output molto ristretto, d’altra parte era pur vero che interpreti che potessero rivaleggiare con i campioni non ce n’erano — e se proprio ce n’erano, preferivano esibirsi in sfide masturbatorie come il 2theBeat o il Tecniche Perfette piuttosto che entrare nel gioco e vendersi alle logiche di mercato. La parola-chiave del rap degli anni 2000 infatti era diventata una e solo una:
Appena qualcuno ce la faceva ad ottenere un minimo di visibilità e riusciva a trasformare la sua passione in lavoro, apriti cielo, tutta la scena si faceva compatta: era un venduto. Sembrava che chiunque avesse fatto una minima concessione al mercato o alle orecchie degli ascoltatori (un ritornello, un featuring, un beat orecchiabile) sarebbe stato messo al muro — come Fabri Fibra che per anni ha dovuto convivere con l’odio di molti per la decisione di firmare con una major. E quando sembrava che l’ascesa di Fibra, DogoGang e del nuovo talento Marracash fosse sul punto di fermarsi, nel 2010 uscì Tranne te a scombinare di nuovo le carte in tavola. Il pezzo era un classico esempio di hip-house (con cui l’idolo grime di Fabri, Dizzee Rascal, stava ri-decollando da un paio d’anni), ma l’intro della canzone ed il video erano un grande insight sulla situazione dell’industria musicale contemporanea — e riuscivano a nobilitare una tamarrata di cui la scena non poteva accettare l’esistenza: per principio, certo, ma low-key anche per paura che potesse diventare uno standard accettabile di come fare rap in Italia.
Le previsioni purtroppo si avverarono. La canzone ebbe un successo S-T-R-E-P-I-T-O-S-O e non c’era una sola persona in tutto lo stivale che non avesse sentito la canzone o formulato la propria opinione su di essa: mentre i conservatori impazzivano di rabbia e di invidia (il testo-la musica-ma questo è rap secondo te?) l’Italia era culturalmente pronta per l’entrata a gamba tesa del rap nella scena mainstream. In pochi anni, gente che prima si esibiva al Tecniche Perfette per cacciare la rima preparata più fresca di tutte, si trovava a fare centinaia di migliaia di visualizzazioni su YouTube oppure a cantare in TV da Maria De Filippi — mentre il turnover nell’underground sostituiva Inoki, Kaos One e Noyz Narcos, con Salmo, Murubutu, Mecna e tanti altri. Ed è qui che cominciò la lotta tra vecchia e nuova scuola, che in realtà si configurava, al solito, come una lotta tra l’ex-nuova scuola e la nuova-nuova scuola. Il dibattito è sempre serpeggiato silenzioso, ma quando Inoki ha cominciato pubblicamente a parlare male delle nuove leve è degenerato fino ad assumere una valenza pubblica: Fabiano detto Inoki, invece che altri quindici minuti di fama, si è ritrovato contro un bulldozer di rime — non efferate quanto il tentato omicidio di Vacca in Niente di personale/Fatti da parte — ma perfettamente in grado di esprimere quello che in tanti si pensava già da un pezzo.
Credi in una cultura che adesso non c’è,/
sai perché? E’ stata uccisa dalla gente come te,/
che fa la stessa merda da dieci anni:/
mettiti una corda al collo e dopo facci bungee jumping!
Ebbene sì: nel 2012 il rap vecchia scuola aveva ufficialmente stancato. E con l’ascesa dell’underground e la trap che in America aveva definitivamente preso il suo spazio, i grandi nomi stavano vivendo la calma prima della tempesta, tra chi giocava a Pes e chi aveva gioco facile ad usurpare una corona vacante, con il solo Fabri Fibra a trovare il coraggio di fare dischi futuristici come Guerra e pace e Squallor. Ma quando nel 2015 uscì XDVR di Sfera Ebbasta la situazione iniziò a farsi chiara: era giunto il vento del cambiamento, ed il terreno era fertile. Maruego e Ghali erano già germogliati — ispiratisi alla fiorente scena trap francese — e quando dopo Sfera fecero il loro ingresso Dark Polo Gang, Rkomi, Tedua, Laoïung, Achille Lauro, Enzo Dong et cetera, vennero tutti a dimostrare che il rap italiano non era finito — semplicemente aveva bisogno di cambiare pelle. Ed è ancora presto per storicizzare, ma probabilmente la cosa peggiore che rimarrà di questi anni ’10 non saranno l’autotune e gli occhiali da donna, ma le litigate su Instagram di Marra/Gué con Fedez & J-Ax. Quindi nessuno vuole obbligarvi ad ascoltare la trap, e nemmeno a farvela piacere — ma prima di continuare il dibattito sui meriti e demeriti del genere è necessario che chiunque dica di apprezzare il rap metta su le cuffie e si ascolti questo album.
Succo di Zenzero è la luce che sfonda gli infissi e fa capire che è giorno, il momento magico in cui la modernità entra ancora nel rap italiano, mostrando tutte le potenzialità della trap music. Il disco è la chiave di volta per capire la DPG, ma per comprenderne appieno il percorso bisognerà cominciare da Full Metal Dark, primo mixtape e perfetta fusione tra rap americano e lezione nostrana, con i beat del grande Sick Luke a servizio di un rap ancora italiano — prima di diventare linguaggio alieno.
FMD è una meraviglia assolutamente da recuperare, e nonostante sia stato con i ritornelli di Cavallini che la Gang ha cominciato a prendersi il proprio spazio, la visibilità vera ha cominciato ad arrivare grazie a Instagram e alle loro vite sopra le righe: dare del “negrodimmerda” a Bello Figo (e poi tatuarsi la pace in faccia per scusarsi), dire che Carlo Cracco è un buffone, zittire quel “barbone” di Inoki— tutti pezzi di quello che piano piano ha cominciato a rivelarsi come un grande puzzle multimediale.
Perché ormai dovrebbe essere chiaro quanto sia impossibile parlare di sola musica nell’ambito pop — e, nonostante questo trend si vada concretizzando da più di sessant’anni, la non comprensione di questo concetto sembra essere ancora un grande scoglio verso l’apprezzamento del prodotto che la Dark Polo Gang offre. Perché ciò che vende la crew romana non è la musica, ma è l’esperienza multimediale del vederli, sentirli e seguirli: cinema, moda, cultura, tutto quello che prima era solo accessorio al prodotto album che si vendeva nei negozi, ora è diventato una parte fondamentale di esso da cui non può prescindere. La Dark Polo Gang infatti, ponendo video, balletti, canzoni, live-streamings e interviste sullo stesso piano, si configura come un’esperienza totale — ed è forse per questo che non hanno ancora sentito il bisogno di una casa discografica, che effettivamente non saprebbe come commercializzarli secondo i vecchi criteri del mercato musicale. La cosa che più spaventa della Dark P. Gang quindi non è come si veste, né di cosa parla né come ne parla; è il modo in cui quattro sbarbatelli siano riusciti a mettere alle corde i veterani del rap, lasciando tutti a bocca aperta e inaugurando un nuovo corso della musica italiana: uscire senza etichetta, mettere i dischi in free download, creare una sottocultura online divisa tra fans ed haters, infine riuscire a costruire un prodotto trans-mediale completamente digitale che sta in piedi da solo. E questo, ragazzi miei, è il futuro della musica.
Il modello utilizzato dalla DPG funziona — e si pone nella scia di una musica solo in streaming (già sfruttata dai Soundcloud rappers e dalla vaporwave e concretizzata commercialmente in The Life of Pablo — primo disco di platino completamente digitale) che sta vedendo l’ascesa di servizi come Apple Music e Spotify — ultima spiaggia del mercato discografico e grande passo che prelude alla fine della musica in formato fisico. Volenti o nolenti, qui si sta facendo la storia: quindi ok che “non le chiudono”, ok “ma come ballano?”, ok “i-contenuti-la-metrica-il-flow”… Ma, dopo tutto quello che abbiamo detto, chiedetevi: potevate davvero farlo anche voi?