A cent’anni dalla nascita, Natalia Ginzburg e la polivalenza della scrittura
“Natalia Ginzburg è l’ultima donna rimasta sulla terra. Tutti gli altri sono uomini: anche le figure di donne che vede aggirarsi intorno appartengono ormai al mondo degli uomini, al mondo di chi decide, sceglie, agisce. Lei — ossia le disincantate eroine in cui si riconosce — è sola fuori da tutto questo; per generazioni e generazioni le donne sulla terra non hanno fatto che aspettare e subire: aspettare d’essere amate, sposate, rese madri, tradite. Così le sue protagoniste.”
È con queste parole che ce la descrive Italo Calvino in uno scritto dedicato all’autrice di Lessico Famigliare, della quale ricorre oggi 14 luglio il centenario dalla nascita.
Natalia viene alla luce a Palermo da Giuseppe Levi, ebreo triestino, professore di anatomia comparata nell’ateneo palermitano, e da Lidia Tanzi, di origini lombarde e figlia di un avvocato socialista, Carlo Tanzi, caro amico di Filippo Turati, fondatore del Partito Socialista Italiano. Dopo il trasferimento a Torino e gli anni dediti all’istruzione classica si iscrive alla Facoltà di Lettere, senza conseguire mai la laurea. Tuttavia è proprio in questi anni che inizia a scrivere i primi racconti e ad ottenerne la pubblicazione presso riviste quali Solaria, Il Lavoro e Letteratura. All’età di ventidue anni sposa Leone Ginzburg, anche lui ebreo, studioso e traduttore di letteratura russa.
La vita della Ginzburg non è di certo fra le più semplici: quelli che si trova a vivere sono i travagliati anni della seconda guerra mondiale, esperienza drammatica e lacerante che strappa all’autrice le persone più care (il padre assieme ai fratelli, lo stesso Leone Ginzburg). È forse proprio riferendosi a tale orizzonte che Calvino parla di “ultima donna”, unica in grado ancora, pur nella drammaticità degli eventi storici, di volgere uno sguardo innocente, puro, a quei piccoli oggetti che nella loro plastica staticità, nel loro esserci in una presenza sì muta ma anche fissa ed immutabile, sanno costituire un fondamentale punto di riferimento, un appiglio necessario dinanzi ad una realtà che vorticosamente cade in frantumi trascinando con sé qualsiasi cosa trovi lungo la sua strada. All’irrazionalità e astrattezza di una guerra le cui dinamiche e motivazioni rischiano di restare per sempre inaccettabili e ripugnanti, se non addirittura incomprensibili, la Ginzburg contrappone un mondo fatto di piccole cose dalla cui concretezza si effonde un senso di affidabilità, di verità ed affettività. È da un impermeabile bianco, un fiume, un vestito da sera o un cammello di stoffa che fluisce un intero mondo: è il mondo della soggettività che si rifiuta di essere mera espressione della frustrazione e del senso di impotenza dinanzi alla dura legge storica che violentemente si impone dinanzi agli uomini e alle loro vite. È un mondo che nel suo tracciarsi e descriversi ricorda a tratti il woolfiano flusso di coscienza (pur con le dovute differenziazioni) per l’irruenza e la rapidità dell’esporsi. È un imperativo della soggettività, è la determinata volontà di opporsi drasticamente, o meglio di sfuggire e finalmente svincolarsi dalle costrizioni cui la Storia inesorabilmente sottomette l’uomo. Cosicché anche il rapporto con l’Altro non è più la relazione col diverso, col nemico di guerra, ma è semplicemente l’incontro con “l’Altro da sé per definizione”, come lo definisce Cesare Garboli, ovvero l’uomo, spesso il marito o colui col quale comunque si intesse un rapporto affettivo-sentimentale.
Tuttavia con tali righe non si vuol certo sminuire il peso che la scrittrice riconobbe all’attivismo politico (ricordiamo l’elezione al Parlamento nelle liste del Partito Comunista Italiano nell’83 o l’attività giornalistica svolta per l’Unità, quotidiano del partito) e alla lotta contro il nazi-fascismo alla quale partecipò con fervore l’intera famiglia di Natalia che vedeva nell’attività di resistenza una vera e propria necessità. In aggiunta a quello politico, un ulteriore quanto fondamentale elemento all’interno del processo di formazione della scrittrice fu senz’altro l’incontro virtuale con le Recherche di Proust, di cui Leone e Giulio Einaudi le commissionarono una traduzione, oltre a quello personale con numerose figure emergenti del panorama culturale del periodo, quali ad esempio Cesare Pavese, Sandro Penna, Italo Calvino, Elsa Morante ed altri. La sopra citata collaborazione con Einaudi e l’attività di redattrice all’interno dell’omonima casa editrice si protrarranno per oltre cinquant’anni (dal 1937 al 1990, anno precedente alla morte) pure in seguito alla consegna delle dimissioni da parte dell’autrice. Come emerso anche da uno studio sul carteggio editoriale della Ginzburg, oggi conservato presso l’Archivio di Stato di Torino, all’enorme mole di lettere editoriali non fa riscontro un altrettanto elevato numero di interventi da parte dell’autrice all’interno delle riunioni tenute dai più stretti collaboratori di Einaudi; non sarà superfluo sottolineare il fatto che fra questi Natalia fosse l’unica donna, per di più non laureata, e che si trovò dunque sola, nella condizione di confrontarsi con personalità della statura di Pavese o Calvino. Nonostante le iniziali difficoltà, l’autrice riuscirà a ritagliarsi uno spazio di sempre maggiore autonomia all’interno di tale contesto tutto al maschile, portando avanti contemporaneamente ed assiduamente l’attività di redattrice e quella di scrittrice, fino a riuscire ad ottenere nel ’49 la sovrintendenza alle collane di narrativa italiana e francese. E la perdita di tale autonomia, tanto faticosamente acquistata e dunque sempre più considerata come un valore irrinunciabile, comporterà la consegna delle dimissioni da parte dell’autrice proprio nel momento in cui — siamo ormai negli anni Ottanta — la casa editrice, dopo un periodo di profonda crisi economica, viene messa all’asta e acquistata da un’altra società (Accornero, Mauri e Unipol).
Natalia seppe dunque abilmente indossare le vesti di scrittrice, redattrice e commediografa, oltre che di saggista e attivista politica, rimanendo sempre fedele a se stessa, alle proprie origini, e tenendo sempre ben saldi quei valori che le erano stati trasmessi dalla famiglia. E di certo a renderla una delle più raffinate menti letterarie che il Novecento abbia mai visto contribuisce quella notevole abilità nel distanziare i due differenti ma complementari piani di azione — quello letterario e quello politico — impegnandosi ugualmente all’interno di entrambi, tanto assiduamente quanto faticosamente: “e anche finii col fare un po’ di fatica, la fatica di comporre e architettare una tenue storia, perché mentre scrivevo pensai che senza fatica non si fa nulla” (a proposito di È stato così nella nota comparsa per la prima volta nel volume Cinque Romanzi Brevi del 1964). L’attivismo politico trova infatti il suo contraltare proprio nell’attività saggistica e letteraria in generale, attraverso la grande versatilità e capacità dell’autrice di orientare l’indagine verso due differenti orizzonti, la cui fusione permette di offrire una descrizione polivoca e multifocale della complessità strutturale costituente l’essere umano. Nella realizzazione di tali progetti Natalia poté senz’altro contare, nonostante la forzata lontananza, sul sostegno e sul conforto del marito Leone, che con queste parole, direttamente dal carcere di Regina Coeli, la esortava ad avere coraggio e ad impegnarsi affinché riuscisse a prendere totalmente in mano la propria vita: “La mia aspirazione è che tu normalizzi, appena ti sia possibile, la tua esistenza; che tu lavori e scriva e sia utile agli altri. Questi consigli ti parranno facili e irritanti; invece sono il miglior frutto della mia tenerezza e del mio senso di responsabilità. Attraverso la creazione artistica ti libererai delle troppe lacrime che ti fanno groppo dentro; attraverso l’attività sociale, qualunque essa sia, rimarrai vicina al mondo delle altre persone, per il quale io ti ero così spesso l’unico ponte di passaggio”.
E, difatti, ciò di cui l’autrice in più situazioni di vita personale — ed anche di racconti — sembra mettersi alla ricerca è proprio un riscatto, che sia rispetto a un regime politico o ad una situazione familiare alienante. È una tenace volontà che esprime la convinta determinazione a vivere e a scrollarsi di dosso la monotona ripetitività e apatia di una vita alla quale si impara col tempo, per inettitudine o impossibilità, ad adattarsi, finendo poi col conformarsi e sovrapporsi completamente ad essa. Sapientemente la Ginzburg ricorre a tale sentimento — o meglio meccanismo — in una pluralità di racconti/romanzi, senza tuttavia scadere mai nella prevedibilità e nella scontatezza. Così se ne La strada che va in città tale desiderio di emancipazione va esprimendosi in buona metà del racconto attraverso le episodiche fughe della giovane protagonista Delia in città, vista quest’ultima come oasi di benessere e di ricchezza, in È stato così è la sopportazione a prevalere, una sopportazione dettata dall’amore (o forse da una non più tollerata solitudine) che giungerà però ad un punto di non ritorno solo al termine della storia, un improvviso colpo di scena, inaspettato e terribile insieme (seppur rivelato sin dall’inizio al lettore, che avrà modo di conoscere solo in seguito tutta la storia attraverso un lungo flashback). In tal modo la Ginzburg si presenta come la perfetta indagatrice, e quindi descrittrice, di tutto quel vasto quanto variegato campionario di relazioni umane contraddistinte da una radicale instabilità. La complessità di tali legami è rivelata dal fatto che difficilmente permangono inalterati dall’inizio al termine della narrazione; questi conoscono al contrario un vero sviluppo (da intendersi non necessariamente nel senso di un miglioramento) attraverso il quale l’autrice traccia sapientemente la psicologia dei suoi personaggi, rivolgendo una particolare attenzione a quelli femminili, come anche Silvio Benco osserva riferendosi proprio al romanzo del ’47: “Non può essere scritto che da una donna, tanto c’è dentro tutta la donna, con le ossessioni lente della sua nevrastenia, con l’elaborazione d’un suo piano psicologico d’insofferenza che, divenuto incubo, può solo essere distrutto da uno scatto che sopprime un uomo e in lui il tormentoso fantasma creatosi dalla donna infelice”.
È proprio quest’ultima la vera, sola, protagonista indiscussa: la donna infelice, la cui figura sempre emerge all’interno dei racconti in maniera più o meno esplicita, attraverso personaggi principali, protagonisti della storia, o di secondaria importanza, la cui silenziosa presenza si inserisce remissivamente all’interno della cornice narrativa. Cosicché se, come sostiene Paolo Serini, non possiamo mai realizzare una completa identificazione tra la biografia della Ginzburg e i fatti da quest’ultima narrati, vero è anche che qualcosa dell’autrice deve tradirsi dietro alla ricorrenza tanto sistematica di un certo tipo di personaggio dalla cui descrizione affiora un senso di noia, insofferenza o solitudine che va a frantumare l’involucro del tutto particolare di caratteristiche e contingenze ben definite ad esso assegnate dall’autrice. E questo qualcosa è una sofferenza del tutto personale, imposta da una vita penosa e tormentata, dinanzi alla quale ci si rifiuta di assumere un atteggiamento di pura non renitenza, quella condizione di disincantata accettazione dello stato attuale delle cose di leopardiana memoria. L’alternativa che viene contrapposta a quella prima soluzione è costituita non tanto dalla soppressione o indifferenza del dolore, quanto dalla lucida constatazione della sua presenza e dal tentativo di agire per lasciare un segno nonostante tutto.
Per concludere con le parole della stessa Ginzburg: “Non si trattava per me di diventare meno infelice, ma di riuscire a scrivere a malgrado della mia infelicità e senza curarmene, senza lasciare che intorbidasse e ammalasse le cose che scrivevo. Ma per riuscire a questo è necessario che l’infelicità non sia in noi un’interrogazione lagrimosa e ansiosa, bensì una consapevolezza assoluta, inesorabile e mortale”.
Originariamente pubblicato via Facebook Notes il 14 Luglio 2016 sulla nostra pagina Facebook.