Copertina di Francesco Delli Benedetti

A New Wave of Metal — Parte prima

1994–2017: breve storia di una grande rivoluzione

Matteo Sputore
La Caduta 2016–18
13 min readDec 13, 2017

--

Il termine “metal” ormai, oltre ad essere diventato di dominio pubblico, denota un insieme di filoni, idee e concetti musicali che spesso hanno davvero poco a che fare gli uni con gli altri. Nel peggiore dei casi vuole semplicemente indicare un modus operandi musicale stereotipato e inappetente, oltre che dei canoni di genere vecchi e superati ormai da anni. Ma al giorno d’oggi si può ancora parlare di metal con la M maiuscola? Se non si mastica molto il genere la risposta è molto scontata: “Certo, si può ancora parlare di metal nel 2017”. Tuttavia il senso critico, il gusto e l’orecchio direbbero l’esatto contrario. I generi “puri”, come l’heavy, il trash, il death e tutta la miriade di sottogeneri, sono saturi e la proposta tanto dei grandi nomi quanto delle nuove leve è diventata un’emulazione dello stereotipo. Tutti i pilastri portanti del metal sono ormai crollati sotto il loro stesso peso e ne sono testimoni gli ultimi lavori di band storiche a dir poco mediocri. Ma tra le macerie qualcosa ancora si muove e no, non è il mainstream.

Quando una specie animale è a rischio di estinzione spesso soccombe. In rari casi, però, essa si evolve adattandosi al nuovo ecosistema. È proprio questo che sta cercando di fare il metal: lasciarsi alle spalle anni e anni di manierismo per proporre qualcosa che trascenda i canoni classici. Stiamo comunque parlando di un genere molto malleabile e aperto a contaminazioni e fusioni, quindi, in un certo senso, stiamo indagando il naturale svolgersi degli eventi direte voi. In parte è proprio così. Il mutamento era nell’aria ormai da tempo e il primissimo germoglio del nuovo ecosistema del metallo sboccia tra gli ultimi anni novanta e gli inizi del nuovo millennio. Tanto per fare un esempio ed essere ancora meno equivocabile, gli Ulver vengono ritenuti una delle band maggiori del black metal norvegese, ma cosa rimane del Black dopo la pubblicazione di Themes From William Blake’s the Marriage Of Haven And Hell? Direi davvero poco. Dopo questo esempio, forse fin troppo banale, dovrebbe sorgere qualche dubbio sulla graniticità del genere in questione.

Fortunatamente i sintomi di questo mutamento sono molti e di grande qualità. Basti pensare alle ultime uscite di Sόlstafir, Pallbearer, Novembre e Alcest, che si fanno portabandiera di un’inversione di rotta in alcuni casi iniziata quasi un ventennio fa. Un cambiamento stilistico di cardinale importanza che ha ispirato e influenzato intere generazioni di giovani musicisti. Ma come spesso accade ai più meritevoli, agli avanguardisti e agli audaci non spetta loro la fama ed il successo di cui andrebbero ricoperti. Un esempio lampante lo troviamo a casa nostra. I Novembre con Wish I Could Dream It Again… (classe 1994) hanno reso il confine tra doom, gothic e black sempre meno percettibile ma non per questo vengono idolatrati nell’olimpo dei metallari — se non in rari casi. Ed ecco che dalla Scandinavia vengono a dar man forte i più fortunati Katatonia e Opeth, due mostri sacri della rivoluzione del metal più estremo. Il fenomeno non è quindi poi così recente ma, come anticipato prima, la frattura si fa più profonda con alcune uscite di questo sorprendente 2017: i Pallbearer ci consegnano un album sincero più maturo dei precedenti e con un sound che (soprattutto nell’ultima traccia intitolata A Plea for Understanding) sembra voler proiettare la loro musica oltre gli stilemi classici del doom metal. I Sόlstafir ci regalano un biglietto di sola andata che parte dall’Islanda e ci porta in chissà quale territorio musicale. Gli Alcest, reduci da un soggiorno in Giappone, ci donano un blackgaze sempre più etereo ed esotico, come a voler dimostrare che la loro formula ha ancora molto da offrire. I Rosetta ci offrono la loro personale visione di post metal, rimescolando gli elementi del genere come nessuno mai prima aveva fatto. Infine i mastodontici Ulver ci deliziano con un concept-album che si potrebbe definire vagamente elettro-pop, ma che in realtà è molto di più.

Da queste premesse abbiamo deciso di fare un lungo approfondimento, diviso in tre atti, per analizzare la cronistoria di questo scollegato movimento musicale, da noi denominato A New Wave of Metal. In questa prima parte analizzeremo il ceppo da cui l’evoluzione si è diramata: il black metal norvegese. Non un semplice sottogenere ma un fenomeno culturale discusso e controverso che ha influenzato irrimediabilmente la storia di due nazioni e della musica internazionale.

La sede dell’Inner Circle

Back to the ’90s: dove tutto ebbe inizio

Pensando agli anni novanta e al metal la prima cosa che viene in mente è la scena fatta propria dal black, non un semplice genere musicale ma un vero e proprio stile di vita, una vera e propria fede. Se queste affermazioni vi sembrano esagerate e intrise di fervore forse qualcosa vi sfugge. Tanto per cominciare, il dichiarato anticristianesimo dei padri del genere quali Bathory, Mayhem, Marduk e via dicendo si trasformò in una vera e propria guerra. No, non sto esagerando. I roghi delle chiese in Norvegia furono forse le azioni meno rilevanti della faccenda, furono numerose le aggressioni alle band rivali o semplicemente ai musicisti che non si rispecchiavano nelle idee dell’inner circle, una setta che fece sua una vera e propria persecuzione di cristiani, omosessuali e chiunque non rientrasse nella visione di una società depurata. Ma cos’era l’Inner circle? Fondato da Euronymous (storico chitarrista dei Mayhem) che ne rivestì anche il ruolo di capo assoluto, aveva sede nel suo negozio di dischi a Oslo: l’Helvete. Ne fecero parte praticamente tutti i massimi esponenti del black metal norvegese accomunati dall’odio per i cristiani, dal conseguente satanismo e un forte nazionalismo di matrice pagana. In pratica i componenti di questa cerchia avevano una vera e propria missione: rendere la Norvegia uno stato libero dalle congetture del cristianesimo, guidato da un nazionalismo che trovava fondamento nel paganesimo norreno. La faccenda agli inizi degli anni novanta era scottante, basti pensare che per identificare tutto questo fenomeno la stampa ha utilizzato per lunghissimo tempo l’appellativo di “Black Metal Mafia”. Di mezzo non c’era solo la musica dunque, ma una vera e propria ideologia politica. Insomma, quello del black è stato senza dubbio il fenomeno musicale più importante della scena metal non solo per via delle ripercussioni sociali, ma anche per le innovazioni musicali che ha introdotto. Il gusto per l’orrido, il putrido e il blasfemo vennero sviluppati non solo in maniera estetica, ma anche musicale, con suoni di chitarra zanzarosi, blast beat, produzioni volutamente pessime, l’utilizzo frequente di strumenti rotti o mal funzionanti. Anche gli atteggiamenti sul palco erano orridi e brutali: sono note le storie di animali uccisi durante i concerti, autolesioni da parte dei musicisti e violenze varie ai danni del pubblico stesso. Tutto era portato all’estremo e le conseguenze furono fatali.

Burzum e Euronymous

Negli anni il gruppo crebbe e con lui anche la scia di violenze, vandalismi e morte si faceva più lunga. L’evento culminante avvenne nel 1993 quando il carismatico Euronymous venne brutalmente ucciso nel suo appartamento da Varg Vikernes, meglio conosciuto come Burzum. Cosa portò uno dei più grandi e noti componenti dell’Inner Circle ad uccidere il suo mentore è tuttora poco chiaro. C’è chi dice che, a causa delle sue origini lapponi, Euronymous venne ritenuto indegno di guidare il movimento da Burzum. C’è chi invece afferma che Varg fosse geloso del ruolo ricoperto da Euronymous, ritenendo inoltre molte delle sue idee incompatibili con l’Inner Circle. Oppure, come sostiene lo stesso Burzum, era lo stesso Euronymous a volerlo uccidere. Essendo venuto a sapere il tutto da altri suoi compagni ai quali il pilastro della Black Metal Mafia aveva confessato le sue intenzioni, Vikernes agì, a suo dire, secondo una personalissima forma di “auto difesa”. Le voci, le leggende e le dicerie sull’argomento si sprecano. Fatto sta che dopo tutto questo trambusto si aprirono le indagini e Burzum venne condannato per omicidio. Dalle indagini emerse la triste verità. I componenti dell’Inner Circle erano i responsabili di roghi, vandalismi e omicidi. Vennero arrestati anche Samoth e Bård Faust (componenti degli Emperor) per omicidio e incendio doloso. L’era della Black Metal Mafia era finita.

In seguito all’incarcerazione di Faust e Samoth, il bassista Mortiis fuggi in Svezia per paura di essere coinvolto nella fitta rete di arresti. Tutto questo accadeva mentre gli Emperor avevano già avviato le registrazioni di In the Nightside Eclipse. La band sembrava aver raggiunto il capolinea. Invece i componenti mancanti vennero rimpiazzati e l’album venne pubblicato nel 1994, un anno centrale nella nostra breve storia che risulta essere quanto meno produttivo.

Gli Emperor in una foto del 1994

Gli Emperor fecero delle caratteristiche linee di tastiera, che contribuivano ad infondere un’atmosfera solenne e sinistra in tutto il disco, il loro marchio di fabbrica, scostandosi, anche se di poco, dal black metal delle origini. Questo piccolo passo, forse dettato proprio dalla fitta rete di arresti che vide coinvolta la gran parte della old school, rese possibile una progressione stilistica molto rapida nella seconda metà degli anni novanta e non solo. Le influenze di questa commistione di sinfonia e brutalità segnarono il percorso di band come Dimmu Borgir e Cradle of Filth che resero possibile la nascita e lo sviluppo del genere più violento e controverso di sempre: il symphonic black, ultimo baluardo del black nudo e crudo.

Nello stesso anno una band praticamente sconosciuta esordisce con un album profetico che anticiperà cronologicamente tutte le maggiori svolte musicali del genere nei dieci anni seguenti. Il disco s’intitola Wish I Could Dream It Again… dei mitici Novembre.

Una delle introvabili copie di Wish I Could Dream It Again…

Il disco viene prodotto da Dan Swanö che collaborerà anche con Opeth, Katatonia, Bloodbath e moltissime altre band spesso fondate e dirette da lui stesso. I fratelli Carmelo e Giuseppe Orlando (fondatori dei Novembre) riuscirono a mescolare generi, suoni e testi apparentemente incoerenti con una spontaneità disarmante. In brani come Night / At Once sono presenti tanto le componenti più evidenti del black quanto quelle più lente e disperate del doom arrivando persino ad anticipare il blackgaze. Inoltre le parti acustiche e il frequente uso della voce pulita creano un’atmosfera nostalgica e malinconica che, col passare del tempo, è diventata un vero e proprio biglietto da visita per la band. Così nel 1996 i Novembre pubblicano il loro secondo disco che, a ragion di merito, viene ritenuto il capolavoro indiscutibile del metal italiano. Le sonorità si fanno ancor più dilatate e malinconiche, come se osservando il Mediterraneo in tempesta ci si renda conto che non si può far nulla, che infondo è tutto vano, qualunque cosa si faccia. Il disco in questione è Arte Novecento che porta i canoni imposti da Wish I Could Dream It Again… alla massima espressione. Vengono indagati ancora più nel profondo i punti forti del precedente lavoro: l’atmosfera nostalgica e distesa, il sapiente uso di voci pulite e growl, le composizioni a tratti violente, a tratti pure ed eteree. Tutto ciò non farà altro che ridefinire i canoni di un genere ormai alla deriva. l’intuito fece notare ai giovani musicisti che il black esalava il suo ultimo respiro e che di conseguenza tutto era lecito. In parole povere due dischi nostrani sublimi e troppo spesso dimenticati.

Nel frattempo al nord qualcosa continua a muoversi. Gli Svedesi Katatonia nel 1993 pubblicano il loro primo LP Dance of December Souls che venne accolto positivamente dal pubblico e dalla critica. Il disco presentava delle evidenti influenze doom e black dettate prevalentemente dall’influenza dell’album Gothic dei Paradise Lost e dalla scena black metal svedese. La risposta positiva di critica e pubblico portò la band scandinava a firmare un contratto con l’italiana Avantgarde Music che li svincolò dalle pressioni della No Fashion Records (storica etichetta svedese che pubblicò numerosi dischi storici del genere) la quale spingeva affinché le loro produzioni tendessero ad un black metal più classico.

Questo portò nel 1996 alla pubblicazione di Brave Murder Day con il quale i Katatonia mettono a nudo per la prima volta tutto il loro potenziale, senza vincoli o regole da seguire. Il risultato è un concept struggente, tormentato e sincero che riesce a trattare con schiettezza la tematica del suicidio e della depressione. Le prime tre tracce, che compongono il nome dell’album, caratterizzate da un riffing lento ed una batteria quasi totalmente in 4/4, sono senza dubbio il trampolino di lancio non solo della band ma di uno stile nuovo che non è totalmente riconducibile né al black né al doom. Non è questa la sola svolta che i Katatonia effettueranno nel corso degli anni, ma forse è quella che ha avuto la risonanza maggiore. Mentre i Novembre esploravano nientemeno che la melanconiacon fare sognante e riflessivo, i Katatonia affrontavano il tormento e la depressione della modernità in maniera schietta e rabbiosa. le due band partirono da una semplice intuizione condivisa che li portò ad indagare le due facce della disperazione.

Come abbiamo imparato ormai da anni la Scandinavia non è dunque solo la regione degli Abba ma anche del metal estremo. E i Katatonia naturalmente non solo l’unico esempio della progressione musicale che è nata nella seconda metà degli anni novanta. Sarebbe quanto meno assurdo non parlare degli Ulver, band che in più di venti anni di carriera ha dimostrato una creatività che trascende totalmente qualunque classificazione. Il loro esordio nel 1995 fu una vera e propria rivoluzione interna allo scenario black. Bergtatt, pur attingendo profondamente dai canoni del black old school, inserì armonizzazioni tipiche del folklore nordico nelle composizioni che, avvolte da un cantato in parte pulito, donarono un respiro molto ampio al disco. Sembrava quasi che il black metal, quello vero, quello old school, fosse tornato alla ribalta scremato di tutti i fronzoli e di quelle estremizzazioni che ormai non facevano più scalpore ne scandalo. Lo dimostrano tracce come I Troldskog Faeren Vild, che pur mantenendo suoni glaciali e ritmi frenetici concedono spazio ad una linea vocale audace e solenne. Con Bergtatt forse non era tutto finito, uno spiraglio di speranza si diffondeva in un genere destinato al declino più totale. La storia tuttavia ci dice dell’altro. Nel seguente Kveldssanger le sperimentazioni si spostano per un primo momento sul folk norreno condito da cori maschili e linee di chitarra acustica gelide e tenebrose, molto vicine ai primi lavori dei Novembre ma riempite con archi e linee vocali che non potevano essere concepite fuori dalla gelida Norvegia, magari sul ciglio di un fiordo. Forse i giovani Ulver riuscirono meglio dei loro predecessori a raccontare la Norvegia e la notte artica, naturalmente la vera Norvegia, quella cioè dei fiordi, dei ghiacci, dei paesini rurali, non certo l’utopica Norvegia filo-pagana di Burzum & co. Ma nel ’97 la band ritorna al black più brutale, l’album è in pratica un vero e proprio disco black senza compromessi ma con alcune finezze. Nattens Madrigal — Atte Hymne Till Ulver I Manden è prima di tutto cantato completamente in danese antico, inoltre si tratta di un concept album in cui i poliedrici musicisti Norvegesi esplorano il rapporto tra l’uomo e la bestia. Questa trilogia aveva il compito di raccontare la Norvegia in tutte le sue sfaccettature, doveva raccontare la natura e l’uomo, il loro rapporto, il ghiaccio e la gioia del disgelo, l’aspro e il fecondo della terra. A venti anni di distanza si può tranquillamente dire che l’audace progetto è andato a buon fine.

Ma la Svezia non ha finto di sparare le sue cartucce. Sempre nel 1995 la Candlelight Records lancia sul mercato un disco di nuovo prodotto da Dan Swanö: stiamo parlando di Orchid.

Opeth nel 1995

La band in questione risponde al nome di Opeth, i cui membri al tempo erano presso che sconosciuti e reduci da un radicale cambio di formazione a causa di divergenze stilistiche. La band, infatti, era stata fondata nel ’90 ma col passare degli anni abbandonò il canonico genere del death metal svedese, a favore di qualcosa di nuovo e personale. Pur rimanendo piuttosto evidenti le influenze death e black, queste vengono rielaborate in un’ottica progressive: il sound rimane per gran parte del disco composto da chitarre distorte e veloci e le linee di basso non seguono in maniera ridondante le chitarre, come spesso si sentiva nei dischi tanto black quanto death. Mikael Åkerfeldt alla sua prima esperienza alla voce si dimostra un validissimo cantante, rivestendo così un ruolo da frontman. Nel disco non è rara la presenza di tastiere e piano: nel complesso l’influenza del prog degli anni ‘60 e ‘70 è davvero palpabile. Basta osservare la durata delle tracce stesse, tutte comprese tra i 6 e i 13 minuti, per capire che non si tratta solo di brutalità e scompiglio. La fusione di progressive rock, black metal e death è una novità assoluta e fondamentale per la scena musicale di 22 anni fa. Il disco non passa assolutamente inosservato e fa guadagnare agli Opeth le luci della ribalta. La progressione musicale della band risulta inarrestabile e l’anno seguente viene rilasciato Morningrise che risulta marcatamente e sfacciatamente progressive. Viene posta maggiore attenzione per gli arrangiamenti puliti della chitarra e per le linee di basso: si rinsaldarono così le fondamenta gettate da Orchid. Negli anni seguenti continuarono le pubblicazioni. Alle soglie del 1999 la band a causa di numerosi attriti con la Candlelight Records decide di firmare per la Peaceville Records, insieme all’etichetta vengono sostituiti alcuni membri della band per far sì che il progetto di Mikael Åkerfeldt tendesse ancor più verso il prog rock ed il jazz. Il bassista Martin Mendez ebbe un ruolo fondamentale nella stesura del nuovo disco che riuscì meglio dei predecessori a fondere generi musicali apparentemente incompatibili. Sempre nel ’99 vede la luce Still Life, caratterizzato da assoli di chitarra ispirati al jazz, linee di basso articolate e studiate alla perfezione e il massiccio uso di chitarre acustiche e voci pulite: il nuovo concept-album va ad unire tutte le sfumature che gli Opeth avevano sperimentato negli anni precedenti ma con un sound del tutto nuovo che verrà definito negli anni seguenti, appunto, “Opeth sound”.

Insomma tra il ’94 ed il ’99 è successo un po’ di tutto: dalle ceneri del black e del death sono sorte nuove band che non si sono accontentate di omologarsi, di entrare a far parte di un genere destinato a morire, che hanno preferito rischiare, guardare oltre e dire la propria. Ciò che è stato seminato nei tetri ’90 verrà raccolto nel nuovo millennio sia da chi con cura e perseveranza ha gettato i semi, sia da chi per la prima volta si avvicina al rigoglioso campo. Intorno al primo decennio del 2000 orbitano nuove idee che doneranno un rinvigorito respiro alla scena metal. E in questo frenetico turbinare i primi germogli incominciano a schiudersi.

--

--