Copertina di Francesco Delli Benedetti

A New Wave of Metal — Parte terza

1994–2017: breve storia di una grande rivoluzione

Matteo Sputore
La Caduta 2016–18
14 min readDec 27, 2017

--

Il panorama musicale si è impercettibilmente modificato. In questo ultimo approfondimento sulla storia degli ultimi 23 anni del più chiassoso dei generi trarremo le nostre conclusioni. Il metal sarà sopravvissuto alla burrasca?

Il Decennio breve

Ripercorrendo per sommi capi gli eventi più influenti dello sconfinato panorama musicale che viene generalmente identificato con il metal vagamente inteso, siamo oramai giunti ai nostri giorni. Tenendo particolarmente conto del fenomeno black, che è stata indubbiamente una delle correnti fondamentali per la “salvezza” di un genere che altrimenti sarebbe lentamente inabissato scomparendo a poco a poco, ci siamo posti la seguente domanda: ha ancora senso parlare di metal nel 2017? Per poter rispondere correttamente, e nel modo più chiaro ed esaustivo possibile, bisogna volgere lo sguardo agli eventi del passato più recente. Tra il 2010 e il 2017 qualcosa è irrimediabilmente cambiato. L’analisi fatta fin qui è dovuta essere necessariamente restrittiva per rendere il discorso più chiaro e coerente possibile e proseguirà seguendo questo criterio tenendo conto solo dei principali eventi che hanno interessato il nostro percorso.

Incominciamo dall’Europa. Dopo il lancio di Écailles de Lune i francesi Alcest sono stati impegnati in un’intensa stagione di live assieme alle band più svariate: questo grazie alla loro duttilità e alla loro propensione alla sperimentazione. Dopo il tour europeo è la volta degli Stati Uniti, seguiti dai maggiori paesi asiatici. I tempi sono maturi e dopo aver trascorso quasi due anni in giro per il mondo calcando palchi prestigiosi e non, la band si chiude nuovamente in studio. Neige decide di lasciarsi alle spalle il metal, nel nuovo disco le chitarre sarebbero state meno pesanti, il growl sarebbe scomparso quasi del tutto ritornando a quello che rese gli Alcest una anomalia nel panorama musicale. Consolidato il legame con Fursy Teysser (Les Discrets), Indria (basso) e Zero (chitarra) durante la stagione dal vivo Winterhalter e Nerige possono contare sul sostegno dei due musicisti per la realizzazione del nuovo album. Quindi nel 2012 viene finalmente distribuito Les Voyage de l’Âme, il terzo studio album del gruppo riscuote un grande successo. Caratterizzato da una struttura progressiva e da arrangiamenti più vicini al primo disco che al suo predecessore, si sancisce un distacco quasi totale da quello che poteva essere un percorso in chiave metal. Insomma dopo Écailles de Lune un po’ tutti si aspettavano un disco pur sempre progressivo, aperto e coinvolgente ma composto prevalentemente da metal. Beh, le uniche traccie, di metal nell’album si ritrovano proprio nel growl, per altro presente in sole due tracce. Insomma gli Alcest sembra che mettano in atto una svolta stilistica per ogni album, questo li rende intollerabili ai molti che li ritengono un gruppo senza meta, senza un’idea chiara di come mettere in atto il concept così ben descritto ad inizio carriera. Le voci e le critiche vengono amplificate dal seguente Shelter che in pratica è poco più che un disco shoegaze con sprazzi di dream pop qua e là. Nulli sono stati gli effetti delle grandi collaborazioni e della produzione marchiata Sundlaugin Studios, per altro di proprietà dei Sigur Rόs.

Winterhalter e Neige

Le scelte intraprese e perseverate da Neige e Winterhalter risultano incomprensibili e per certi tratti incoerenti, purtroppo, anche per i molti fan che non vedono più nel progetto d’oltralpe quella ventata di freschezza in un panorama sempre più stantio. Gli anni seguenti diventano cruciali per le influenze orientali che vengono metabolizzate in particolar modo da Neige, che incomincia a comporre ispirato da quel mondo così diverso e distante. Si inizia così a lavorare a Kodama, che riesuma le sonorità di Écailles de Lune abbinandole a strutture riconducibili a Les Voyage de l’Âme. L’influenza dell’oriente, in particolar modo del Giappone, non è da attribuire al solo titolo in quanto la pressoché totalità dei riff che compongono il disco sono scritti sulla base di alcune scale cromatiche Giapponesi. Il drumming di Winterhalter segue perfettamente la direzione indicata dalle chitarre. Il risultato è un capolavoro. Kodama riesce a far risorgere la band da un momento di incertezza e di sperimentazione fine a sé stessa. Finalmente dopo una carriera altalenante il talento e lo stile degli Alcest è indubbio. Il fenomeno di allontanamento dal metal è ormai realtà, naturalmente non sono stati i primi a cimentarsi in una simile fatica (basti pensare agli Ulver). rimane indiscutibile però la centralità, non solo degli Alcest, ma dell’ intero filone francese che vanta tra le sue fila nomi del calibro dei Les Discrets e dei sempre più dimenticati Amesoeure. A Kodama va il merito di aver riportato gli Alcest alla ribalta e conferma un fenomeno che era facile osservare già da almeno un decennio: il metal sta cambiando.

Negli Stati Uniti sono sempre più frequenti reinterpretazioni in chiave moderna di generi canonici. In particolar modo saranno il black e il doom ad ispirare maggiormente una nuova generazione di musicisti. Gli Agalloch, diventati ormai fulcro centrale del fenomeno in America, ebbero un ruolo fondamentale nella maggiore espansione black negli USA anche senza ricoprire necessariamente il ruolo degli ispiratori. Due band americane sono state l’esempio palese di una nuova generazione di musicisti che faceva tesoro del recente passato: la prima risponde al nome di Deafheaven. Il quintetto fondato nel 2010 riscuote uno smodato successo dopo la pubblicazione di Roads to Judas, disco controverso ma molto amato. Marcatamente blackgaze il disco viene ricoperto di recensioni più che positive. Tutto viene replicato nel 2013 con Sunbather che ancora una volta viene ricoperto di elogi. Mai nessuna sfumatura del black era stata così luminosa: naturalmente le critiche dei conservatori del TRVE CVLT non tardarono ad arrivare. Ma accantonando le critiche bisogna spendere almeno due parole sul disco: sicuramente tra le numerose fonti di ispirazione ci sono stati gli Emperor e la scena simphonic black, tuttavia il sound è inedito e pur rimanendo legato al low-fi del black (prevalentemente per quello che riguarda le chitarre distorte) sfrutta intervalli, scale ed escamotage compositivi tipici dell’alternative rock e dello showgaze per far respirare le tracce e renderle abbaglianti. La brutalità di uno scream violentissimo non stona per nulla con il tappeto di suono creato dai chorus e dai deelay delle chitarre.

copertina di Sunbather

Sunbather rompe molti di quei canoni legati al metal che si pensavano imprescindibili; effettivamente parlare di uno dei generi più marci e pesanti nel panorama musicale e definirlo “luminoso” e “dilatato” potrebbe far storcere il naso. Il punto è che i Deafheaven non possono essere definiti un gruppo metal, non possono essere definiti shoegaze, non possono essere definiti nemmeno alternative (che vuol dire tutto e non vuol dire nulla), il progetto nel corso degli anni ha assunto una forma inedita slegata dall’immaginario comune permettendogli di creare il veicolo dalla forma più indicata per far sì che il loro messaggio potesse arrivare il più chiaro possibile. Naturalmente, come accennato prima, insieme alle lodi sono piovute critiche mosse prevalentemente dagli ascoltatori più conservatori che hanno giudicato il loro operato hipster. Il punto è che il mondo dell’underground musicale è pieno di ignoranti e di invasati, quindi tali critiche dovrebbero essere ignorate e non alimentate. Di fronte ad un lavoro valido e rinnovatore è inaccettabile saltare a conclusioni affrettate, spesso ci vuole tempo a metabolizzare rivoluzioni fulminanti come in questo caso, un paio di ascolti non bastano a trarre delle conclusioni coerenti.

I Deafheaven non sono stati gli unici a sconvolgere il panorama del metal, non dimentichiamoci che gli Stati Uniti sono stati fortemente influenzati dal doom metal e conseguentemente dallo stoner e dallo sludge. Numerosissime sono le band statunitensi fondamentali per questi generi. Ma nel 2008 in Arkansas, più precisamente a Little Rock, nascono i Pallbearer da un’idea di Brett Campbell e Joseph D. Rowland. Nel 2010 la prima demo autoprodotta fa drizzare le orecchie ai più attenti che incominciano a nutrire un forte interesse per la band. Il primo full lenght della band viene rilasciato due anni dopo dalla Profound Lore Records e viene inserito nei dischi migliori da Pitchfork. Il disco, intitolato Sorrow and Estinction, catapulta il quartetto ai vertici del panorama underground. Il sound ispirato agli anni settanta fa in modo che l’ascolto risulti fruibile anche per chi non è abituato a sonorità pesanti e cadenzate. Il drumming è quasi totalmente estraneo al metal, privo di doppio pedale e blast beat accompagna basso e chitarre elegantemente, senza strafare, senza ammorbare. Le strutture dei brani sono inedite come il risultato finale. Nonostante si intuisca l’influenza dei Paradise Lost e Candlemass non si assiste mai a fenomeni di emulazione, i Pallbearer hanno dimostrato sin dagli esordi un grandissimo carisma e doti compositive fuori dal normale che non necessitavano di grossi capisaldi per essere messe all’opera. Ci troviamo ancora una volta di fronte ad un esempio di evasione dal genere, il forte legame al doom delle origini è evidente ma non immediatamente riconducibile al prodotto finale. Queste idee vengono portate avanti anche nel seguente Foundation of Burden ma non ancora riescono ad assumere una forma ben precisa facendo suonare il disco ancora impercettibilmente frammentario. Bisogna aspettare tre anni per ascoltare il terzo studio album dei Pallbearer che riesce non solo a soddisfare le richieste di ascoltatori e critica ma a superarle creando un’opera completa e coinvolgente.

La ricetta rimane più o meno quella dei predecessori, totale assenza di scream e growl, drumming ispirato agli anni settanta e riffing potente quando serve. L’equilibrio di Heartless è senza pari nella carriera del gruppo, un lavoro estremamente maturo e complesso che in poco tempo riesce ad incantare una grande fetta di appassionati. Soprattutto nella fine del disco balza all’orecchio un totale distacco dal genere di derivazione, tanto nella titletrack che in A Plea for Understanding ogni riferimento al doom e al metal più canonico svanisce, fatta eccezione per le chitarre distorte ed il sound aggressivo non c’è nessun collegamento diretto con un genere preciso e non si sta parlando di un disco volutamente sperimentale ma (finora) della punta di diamante della band, dell’album che meglio descrive i Pallbearer. In sostanza Heartless è uno dei dischi più potenti e rivoluzionari degli ultimi dieci anni, dove il rock dei Kansas si mescola con il doom Dei Paradise Lost in una soluzione omogenea e stupendamente bella. Il disco in questione segna una svolta totale nel panorama del metal, ma lo fa in sordina, con eleganza e spontaneità. Evitando i trucchetti della provocazione e dello stravagante riscrive una piccola pagina di storia della musica contemporanea.

Proprio gli Stati Uniti forse sono stati l’incubatrice del mutamento, tutta via anche in Europa possiamo assistere ad un fenomeno che si è prolungato per circa venti anni ed ha portato a risultati altrettanto esaltanti. Incominciando al nord i Sόlstafir replicarono il successo di Köld con Svartir Sandar, un doppio disco composto da un totale di dodici brani inediti che da molti sono ritenuti i migliori dei Cowboy dei ghiacci. L’esordio ormai distante sembra appartenere ad un’altra band. Nella realizzazione tanto di Svartir Sandar che di tutti i dischi che lo seguiranno l’atmosfera ispirata alla magica Islanda diventa la scenografia inconfondibile che fa riconoscere al primo ascolto i Sόlstafir.

i Sόlstafir nella loro attuale formazione

Una band del genere non poteva formarsi e maturare che tra i ghiacci e i geyser Islandesi, il legame alla propria isola è tastabile ormai. Le meraviglie naturali e uno stile di vita impensabile in un’altra parte del mondo sono diventati una vera e propria fonte di ispirazione per il quartetto. Tanto da divenire il concept di Ótta che descrive un viaggio di ventiquattro ore nella amata isola dei Cowboy dei ghiacci. L’album non riscuote il successo di Svartir Sandar ma in esso si trovano tutti gli ingredienti del nuovo percorso stilistico della band. Tanta atmosfera, l’utilizzo massiccio del piano e di archi ci trasporta a zonzo tra ghiacciai, cenere e foreste. Ormai definire la band post metal non è più corretto, le forme ipnotiche dei brani sono più simili al rock psichedelico ma non ancora del tutto slegate dal metal. Il vero e proprio punto di rottura arriva proprio quest’anno con Berdreyminn che catapulta i Sόlstafir in un nuovo percorso intuibile già dal disco precedente. La psichedelia e le atmosfere raggiungono un livello superiore rispetto ad Ótta mostrandoci gli stessi paesaggi suggestivi ma in chiave onirica liberi dal legame con un luogo. La band non vuole raccontarci più la loro terra ma come possa far sognare.

Ma che fine hanno fatto Ulver, Katatonia, Novembre ed Opeth? Ogni band ha deciso di andare ad esplorare il proprio cardine stilistico che le ha rese grandi. Mikael Åkerfeldt decide di incidere un disco che possa omaggiare le band del progressive rock. Così vede la luce Heritage, decimo studio album della band. Affiancato dall’amico Steven Wilson il frontman registra le dieci tracce sotto la supervisione di Jens Bogren. Il disco spacca la produzione degli Opeth in maniera netta creando non poco scompiglio. Heritage è una raffinata reinterpretazione del rock degli Yes dei Grentle Gigant e del filone prog rock degli anni settanta. Questa produzione così inaspettata smuove la critica musicale in maniera confusa, il lavoro viene definito tanto un capolavoro raffinato quanto una schifezza superata e scontata. Ma gli Opeth sembrano non curarsi delle critiche e procedono nel loro percorso di esplorazione del passato. i seguenti Pale Communion e Sorceress non aggiungono molto alla svolta. Si può notare soltanto un inspessimento del suono in Sorceress. Mikael Åkerfeldt evidentemente giunto ai vertici del panorama musicale si è sentito libero di comporre la propria musica seguendo il suo personale gusto non curante delle critiche come per dire: metallari, questa non è roba per voi.

Gli Ulver invece riescono a rimanere coerenti alla svolta elettronica con Shadow of the Sun lanciato nel 2007. Con la sua pacatezza e i suoi suoni suggestivi il disco acquisisce un aura zen, mentre in Perdition city l’ansia e il malessere erano serviti su di un piatto di argento, nella nuova opera si mostra il rovescio della medaglia. I suoni eterei e le atmosfere abbaglianti verranno mantenute nelle uscite seguenti. Ma la sperimentazione è il vero motore della band che non si accontenta di strabiliare con composizioni che vanno dal trim-pop all’ambient, l’esempio più calzante è Messe I.X-VI.X realizzato in collaborazione con la Tromsø Chamber Orchestra.

O ancora l’alternative rock di The War of the Roses. Si potrebbe parlare all’infinito della duttilita e del sorprendente talento degli Ulver. Forse proprio loro sono l’esempio calzante del fatto che la musica non dovrebbe essere relegata ad un genere ma, molto semplicemente, dovrebbe essere solo un veicolo per gli artisti. Come la tela per il pittore la musica dovrebbe essere apprezzata in quanto tale e per ciò che riesce a trasmetterci. Legarsi ad un genere fino a diventare la caricatura del genere stesso non porta a nulla, potrà magari assumere la forma di una effimera fama, ma non far diventare magicamente musicisti dei fenomeni da baraccone. E tutto ciò è confermato da The Assassination of Julius Cesar che sublima un po’ tutto ciò che è presente negli Ulver dal rock all’elettronica sperimentale senza creare fratture nella produzione o ribellioni da parte dei fan. Perché se si ha dei saldi canoni estetici e un buon messaggio tutte le congetture del mercato musicale, delle label e soprattutto dei generi sono superflue. E forse l’affermazione profetica di Kristoffer Rygg non è poi così assurda alla luce degli eventi: La musica del futuro è il silenzio.

Insomma la coerenza di un progetto musicale è totalmente sdoganata da quello che può essere un banalissimo genere musicale come, nel nostro caso, il metal. Spesso portato avanti più per una sorta di nostalgia che per vera necessità. Non a caso i Katatonia dopo il lancio di Night is new Day si sono sempre mantenuti in equilibrio tra alternative metal e doom fino al 2015 quando si vedono costretti ad un cambio di formazione. Per motivi personali Sodomizer (storico chitarrista della band) e il batterista Daniel Liljekvist lasciano la band. Prontamente sostituiti da Daniel Moilanen e Roger Öjersson la band capisce che è il momento di cambiare. Dopo una serie di dischi coerenti e omogenei si apprestano a dare libero sfogo alla maturità acquisita negli anni mantenendo comunque le tematiche tetre e depressive tipiche del progetto. La ventata di freschezza portata dai nuovi membri induce i Katatonia ad un’evoluzione.

È con The Fall of Hearts che la band si getta a capofitto in un prog metal inedito che non fa vanto di tecnicismi o enormi capacità strumentali. L’album è legato più all’idea di prog riferita al rock degli anni sessanta e settanta che alla postmoderna trasposizione in chiave metal. Ciò porta una carica emotiva fortissima sin dalla prima traccia, e malgrado la pesantezza dei suoni e la batteria martellante, il metal del passato viene trattato con maggiore maturità e perde la centralità che aveva in precedenza. Nonostante la grande perdita di Sodomizer la band riesce a tirarsi su, in particolare la Jonas Renkse appare più capace ed espressiva che mai. E se i Katatonia nel 2017 hanno avuto il coraggio di intraprendere una strada tortuosa è forse proprio perché i generi, a lungo andare, vanno stretti. L’influenza del black si è dissolta nel tempo, non appartiene più ad un progetto che riesce a divulgare il verbo della tristezza e del tormento in tutte le sue forme.

E di nuovo ci tocca porre la stessa domanda: e i Novembre? Dopo l’ultimo disco il silenzio ha avvolto il progetto per nove anni, nessuno riusciva a capire se le voci avessero un fondamento, i Novembre si erano sciolti? I fratelli Orlando avevano nutrito dei dissapori così forti da non poter far procedere il progetto? Si riponeva la speranza nella mancata dichiarazione stampa, nessuno si esprimeva chiaramente sul futuro della band. Solo nel 2015 qualcosa inizia a muoversi, le voci parlano di un album in lavorazione e la conferma arriva direttamente da Carmelo Orlando che precisa di aver continuato a produrre materiale negli anni riprendendo brani incompiuti e dandogli una forma matura. Oltre ai vecchi brani finalmente ultimati Carmelo scrive canzoni del tutto inedite grazie all’aiuto del fedelissimo Massimiliano Pagliuso che viene reinserito nelle fila dei nuovi Novembre. Purtroppo solo lo storico chitarrista entra a far parte della reunion, se così può chiamarsi visto che a tutti gli effetti la band non si è mai sciolta. Ma i due amici sono determinati e in breve tempo arruolano nuovi musicisti per ultimare le registrazioni del nuovo album. Il disco esce l’anno seguente con il titolo di URSA, un chiaro riferimento alla fattoria degli animali di George Orwell su cui viene basato il concept del album. Nonostante i Novembre si siano ridotti a tal punto da diventare un duo, il successo è straordinario. I fan che avevano aspettato quasi dieci anni sono entusiasti del lavoro che rimane secondo solo a Materia con cui condivide le strutture dei brani e l’equilibrio sonoro.

URSA però ha il merito di essere oltre che il ritorno in pompa magna di una delle band più amate della nazione un manifesto stilistico. Anche se non può vantare la verve del già citato Materia, e la potenza di The Blue, risorge dalle ceneri create dalla combustione degli errori, delle incertezze e dei ripensamenti del passato. Un divampante ritorno a chi è difficile muovere critiche. Molto vicino concettualmente a The Fall of Hearts degli amici Katatonia precede gli svedesi nell’esplorazione della musica progressiva, forse avvantaggiati dalla fortissima cultura progressive rock Italiana.

Si può ancora parlare di metal nel 2017?

Come potrete dedurre la risposta è no, non si può parlare più di metal. Il canto del cigno del genere è stato il black, tutto quello che è seguito si è ispirato alle sperimentazioni degli anni ottanta e novanta ma non risponde più ai criteri, ai canoni, allo stile che può essere ricondotto a questo genere. Ciò non toglie che ci sia stato un lento e inesorabile appiattimento dei sottogeneri che ormai saturi si sono ripiegati su sé stessi incapaci di reagire. Oppure, peggio ancora, il metal è stato reso un fenomeno di massa fruibile ai più perdendo senso e credibilità. Banalizzando e stereotipando si è realizzata una malsana amalgama di metal e pop. Ma allora il metal è morto? Non proprio, come una farfalla che nasce dalla crisalide ha subito un processo di incubazione, è mutato in qualcosa di più grande che spesso è persino difficilmente riconducibile a sé stesso. Il futuro della musica non può essere segregato nello sgabuzzino di un genere, la chiave che apre le porte per la musica futura è il mutamento.

--

--