Altered Carbon: un neon noir che coglie l’eredità del primo Cyberpunk

La serie Netflix tratta dall’omonimo romanzo cyberpunk combina intrattenimento al cardiopalma a uno scenario degno di “Black Mirror”

Michele Bellantuono
La Caduta 2016–18

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C’è sempre grande attesa attorno alle nuove e grandi produzioni Netflix, specialmente quando queste vanno a toccare generi molto popolari e impegnativi come la fantascienza. C’è poco di che discutere, quando nel terzo millennio si lavora con la sci-fi bisogna davvero sporcarsi le mani e avere una sufficiente garanzia di finanziamenti per poter dare vita ad un prodotto quantomeno degno di essere presentato sullo schermo. Ragionamento che oggi vale non solo per il cinema, ma evidentemente anche per il piccolo schermo. Ciononostante il mondo del cinema e quello dei giganti dello streaming come Netflix seguono naturalmente politiche diverse, perché radicalmente diversi sono i “rischi” dovuti a investimenti sbagliati. Per Netflix, dunque, investire su una serie come Altered Carbon, creata da Laeta Kalogridis e tratta da un apprezzato romanzo cyberpunk di Richard K. Morgan (nell’edizione italiana Bay City, vincitore del Philip K. Dick Award nel 2003), significa innanzitutto avvicinare alla propria piattaforma distributiva quel pubblico che esige qualche effetto speciale in più, qualcosa che lo sappia condurre dalla comoda poltrona a mondi e realtà future, un po’ come sa fare il cinema di genere ad alto budget. Per il binge-watcher affamato di fantascienza a portata di telecomando Altered Carbon è dunque la serie ideale?

Partiamo dal considerare la trama, direttamente ispirata al romanzo di Morgan. In 10 puntate la serie ci conduce in un mondo futuro visivamente ispirato dalle opere canoniche del cyberpunk (è naturale che torni in mente quel classico del cinema che è Blade Runner, dal quale la corrente è stata profondamente ispirata). Nella metropoli di Bay City, ex-San Francisco, un uomo si sveglia in un laboratorio, emergendo da una busta piena di liquido che lo ha accolto per ben 250 anni. La coscienza di Takeshi Kovacs, ex-soldato speciale di un gruppo di militari addestrati a combattere in condizioni eccezionali chiamati Envoys (“Spedi” nella versione italiana), è intatta, conservata perfettamente all’interno della pila corticale, un oggetto inserito nella nuca di ciascun essere umano a partire dal primo anno di età. Nel mondo di Altered Carbon infatti si può inserire la propria coscienza (e con essa la memoria) in qualunque “custodia” umana; i membri più ricchi della società, i Matusalemme, possono addirittura sfruttare questa tecnologia per inserire una copia di se stessi in costosissimi cloni del proprio corpo originale, ottenendo di fatto una sorta di immortalità artificiale. Diversamente, i ceti inferiori pur potendo accedere a questo tipo di servizio si devono accontentare di corpi casuali, diversi per età e sesso e suscettibili di invecchiamento. C’è poi una particolare fetta di popolazione costituita da cattolici che, per il loro credo, si rifiutano di indossare nuove custodie, lasciando cogliersi così dalla “vera morte”.

Quellcrist Falconer

Il nostro Kovacs originariamente era membro di un gruppo di soldati addestrati al fine di adattarsi a qualunque corpo per scopi di combattimento. Al suo risveglio, lo slavo-giapponese si trova dunque a indossare un corpo non suo, quello del poliziotto deceduto Elias Ryker. Kovacs, ucciso assieme agli altri membri della sua squadra speciale — in seguito alla decisione del governo di sbarazzarsi dell’unità divenuta troppo potente e fuori controllo (anche a causa degli scomodi ideali della leader Quellcrist Falconer) — apprende quindi il motivo dell’interruzione della sua sospensione: il potente multimiliardario Bancroft ha deciso di affidargli nuovamente un corpo per portare a termine una cruciale missione riguardante il suo presunto omicidio. Bancroft, uno dei Matusalemme, ha infatti accesso ad un archivio di coscienze che gli permette di vivere virtualmente per sempre, ma una di esse ha subito la vera morte per mano di un misterioso omicida. Compito di Kovacs, al quale viene promessa la libertà di porre fine al suo esilio per tornare a vivere nel mondo fisico, è quello di trovare il colpevole. Parte così un’investigazione che costituisce in realtà solo una di molte linee narrative incrociate, che garantiscono in 10 episodi una generosa dose di azione al cardiopalma, mistero e intrighi politici degni della più dinamica letteratura cyberpunk, il tutto condito dalla presenza di molto sangue, torture virtuali e scene di nudo. Una sorta di Trono di Spade in versione noir e in salsa fantascientifica, come ha suggerito qualcuno.

Takeshi Kovacs e Poe (l’intelligenza artificiale che lo aiuta nel corso dell’investigazione)

La carne al fuoco, che sia virtuale o reale, è dunque davvero abbondante: la storia non è delle più lineari e l’intreccio sposta la narrazione in direzioni sempre diverse, allontanandosi di frequente dalla vicenda principale (l’investigazione del caso Bancroft) per inquadrare personaggi nuovi e approfondire la loro storia “personale”. Non si tratta tuttavia di una struttura contorta. La complessità della trama è al servizio del meccanismo della tensione, non suo ostacolo, come è dimostrato dal fatto che l’intrecciarsi di varie storie parallele si risolve infine in un percorso narrativo coerente con le sue premesse: non si lasciano domande in sospeso e ogni elemento o personaggio sul quale ci si è soffermati nel corso delle dieci puntate è chiamato in causa al concludersi della storia; l’idea (davvero molto apprezzabile) consiste proprio nella meticolosa progettazione di ogni episodio e del suo contenuto. Questo avviene di solito quando ci si poggia su una sceneggiatura solida, che non presenta buchi significativi, cosa ormai non troppo scontata nel mondo della serialità — specialmente se parliamo dell’offerta dei servizi streaming, che possono permettersi di puntare su prodotti seriali di qualità assolutamente mediocre. Altered Carbon è sicuramente un’eccezione. In tempi in cui la fantascienza prende pieghe non sempre felici, rifugiandosi nel citazionismo visivo dei grandi classici del genere e proponendo trame che potrebbero provocare frequenti déjà vu anche nello spettatore meno accanito, serie come questa (realizzata dalla Kalogridis sceneggiatrice di Shutter Island e produttore esecutivo di film di fantascienza come Avatar e Terminator Genisys) meritano attenzione.

Al contempo, scenari come quello che fa sfondo alla storia di Altered Carbon possono offrire qualcosa al di là del puro e semplice intrattenimento a suon di sparatorie. L’ingrediente più importante di gran parte delle storie cyberpunk, come quella ideata da Richard K. Morgan, è in realtà proprio l’ambientazione stessa, al di là del plot in sé. Se guardiamo alle origini letterarie del genere (partendo dunque dal lavoro di William Gibson e Bruce Sterling, per citare i nomi degli autori delle opere più seminali) notiamo un tipo di letteratura che prevede non poca azione, assieme alla speculazione. Lo stesso Neuromante è di fatto la storia di un’investigazione, un thriller ben costruito il cui valore è insito in ciò che viene premesso e approfondito nel corso della storia, nella descrizione, cioè, del mondo in cui è ambientata la vicenda: ad essere innovativa è la concezione di una società pienamente globalizzata, in un mondo diviso tra realtà e virtualità in cui elementi distopici convivono con la presenza di nuovi paradisi artificiali.

L’essenza della prima letteratura cyberpunk, a partire proprio dalla trilogia dello Sprawl gibsoniana, è sostanzialmente questa, lo studio di un contesto futuristico (ma soprattutto futuribile) e delle sue norme. Il futuro immaginato da questi autori implica ad esempio l’introduzione di una nuova concezione della morale, e la ridefinizione di molti altri aspetti della vita umana: dalla immediata realtà quotidiana (l’innovazione tecnologica al servizio della vita di tutti i giorni), ai concetti universali come quello della morte. Altered Carbon, anche in virtù della sua matrice letteraria, è in definitiva più vicina a questo tipo di fantascienza più presa dal cyber che dal punk, in grado di sollevare questioni di spessore: la possibilità della vita eterna attraverso varie declinazione in base al proprio ceto sociale; l’utilizzo della tortura virtuale come nuovo esempio di violazione di diritti umani; l’omicidio e abuso come nuova perversione o “sport”, naturalmente riservato a chi può permetterselo; la diffusione capillare di nuove droghe sintetiche.

Il quadro offerto da Altered Carbon nell’incedere della sua trama è variegato. L’atmosfera umida e crepuscolare da film neon-noir rievoca le scenografie dei due Blade Runner con l’aggiunta di una ricorrente nota macabra, ma l’elemento visivo incornicia una storia non priva di spunti di riflessione, per molti versi più vicina alla distopia di Black Mirror ed al mondo di Ghost in the Shell (la pila corticale inserita nel corpo/custodia ricorda strettamente il concetto di guscio sintetico abitato da coscienza descritto da Shirow e Oshii). In un mondo di simulacri per piccoli e grandi schermi creati al fine di attirare l’occhio dello spettatore ed ingannarlo — trascinandolo in narrazioni nella sostanza poco stimolanti — Altered Carbon può forse emergere come un prodotto televisivo assolutamente degno di essere considerato nella sempre più caotica e mediocre (oltre che abbondante) offerta di Netflix.

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