Amare lettere amare

La liberilibri ripropone “Properzio, ovvero gli amanti di Tivoli” di Julien Benda, prezioso pastiche dall’anima delicata, da non tradire

Pier Francesco Corvino
La Caduta 2016–18

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Qualora si parli o si scriva di Julien Benda, ci si sente in dovere, quasi in obbligo, di riferire i suoi scritti, anche “minori” (se di scritti minori si può mai parlare, specie per autori di una simile stazza) alla Trahison des clercs. Quest’opera, questo manifesto, vorremmo dire, è stato considerato il suo capolavoro, così che tutte le opere debbano convenire dialetticamente in esso; ma l’opera di Benda, come forse quella di ogni autore, è ovviamente più della somma delle sue parti. Ecco perché, spesso, la prosa e il saggio bendiani vengono segnati dallo sguardo politico, da una dimensione del politico che presiede, immancabilmente, la sua critica letteraria, la sua scrittura tersa o la sua complessa inventio. Ammesso e non concesso tutto ciò, si permetterà una piccola finzione: quella della descrizione appassionata di una piccola rarità preziosa.

È stato recentemente detto (N. Bruno, Un caso di transfert: Julien Benda e Properzio, in «Aufidus» (64) 2008, 109–113) che il Properzio di Benda sia una forma sublimata di transfert “letterario”. È stato poi affermato, in seconda battuta, che questo transfert sia stato un processo stilisticamente carente, poiché inficiato da quel manierismo francese del primo dopoguerra, che stava riscoprendo l’ellenismo, a mo’ di un rigoglioso processo di detonazione. Posto che il simile conosca il simile, o meglio, che «similia similibus curantur» come diceva Paracelso, dovremmo ammettere che il filo-ellenismo francese derivi dall’aver riconosciuto, nella Grecia antica, tratti simili di una decadenza simile, e questo noi non vogliamo.

Cent’anni dopo la sua pubblicazione, la liberilibri di Macerata, ripropone al pubblico italiano Properzio, ovvero gli amanti di Tivoli, di Julien Benda. Un testo breve, molto agile, che può rappresentare, probabilmente al meglio, la matrice critico-letteraria, per non dire estetico-stilistica, della riflessione bendiana. Di contro a chi vede in quest’opera un piccolo cantiere in cui l’autore cerca di ostracizzare i suoi affetti, noi difendiamo l’idea che questo libretto sia la definitiva consacrazione dell’arte sulla vita. Un pastiche, in tre parti, che compongono una risposta complessa ad una domanda altrettanto sibillina: cosa significa conoscere veramente un autore?

Benda, «critico scientifico», si confronta d’improvviso con un maestro immaginario, diciamo pure con la tradizione, col mondo letterario — si confronta, cioè, col gusto francese del suo tempo, volontaristico; mondo del rapporto intimo, vivificante, con l’opera, con l’autore. La questione è chiara: la stilistica, la metrica, lo studio filologico sono pietrificanti, anabolizzanti, rimangono le ossa del poeta, ma la sua anima se n’è volata via. Ecco, qui nasce l’onta, la grave distanza del pensiero critico; il nostro, infatti, non si lascia impietosire da una reprimenda così languida e anzi egli rilancia: è la forma, e non il contenuto, che fanno dell’opera quella che è, che rendono l’autore quello che è diventato. Non si comprenderebbe diversamente quel fervore collettivo che il tempo trasforma in un genere, quella comunità di artisti che pone al centro la propria arte, sulla propria vita: l’anima diventa una conquista, è una scoperta, non un fatto.

Ben presto, però, il mondo scompare. Rimangono lo scrittore e la sua ricerca, in uno scenario onirico: è qui che Benda incontra Properzio. Nel sogno, Properzio è il poeta. Egli sa, oramai, che la sua Cinzia non fu nient’altro che una musa; non si può chiamare amante chi causa così tanta sofferenza, a fronte solo di una fama eterna. Si interseca a questo punto un colto battibecco, fra il nostro che cerca di riportare alla memoria del poeta i momenti di tenerezza che egli aveva cantato, fra Properzio stesso che non vuole saperne e, infine, con Cinzia, all’ultimo giunta. Ovviamente, Cinzia protesta contro Properzio «cuore di ferro», ella non si sentiva amata, specialmente quando le sue colpe richiedevano la gratuità del gesto amoroso. Oramai, però, e non a caso, Benda è completamente disinteressato ai bisticci amorosi dei due e li lascia in uno scenario di sogno: non è qui che l’anima cova.

Al centro Benda, Gide e Malraux al Congrès des écrivains pour la défense de la culture

Egli, infine, è di nuovo solo, solo nel suo raccoglimento, nella sua riflessione, davanti a libri aperti. Siamo da capo, alla ricerca del simile — ecco che il ridicolo chiama il ridicolo; grottesco come due anime liriche che hanno trapassato la storia, si ritrovino ora come due pallidi amanti in cerca di chiarimenti. Forse, però, è più ridicolo ancora chi nelle loro pagine si aspetta qualcosa di diverso, si aspetta la ricchezza delle parole, la ricchezza del testo. Eppure quest’ultimo grado della ridicolezza è cosa rara e meravigliosa, è come una risata spontanea che porta a galla il ricordo di quegli uomini che

«davanti alla luce del sole, non si emozionano che per sapere di quali metalli [il sole] è composto e qual è la sua velocità».

Vivere la vita di Properzio l’aveva resa banale, ora toccava allo spirito provare ad elaborarne le opinioni. Opinioni di genere, di ritmo, di rapporto; opinioni che indaghino le coordinate dell’anima di un’opera.

E allora adesso sta a noi smettere di vivere Julien Benda, smettere di darci da fare per scovarne il transfert intrinseco o le sue trame inconsce, e cominciare ad ispezionare l’anima secreta. Dobbiamo probabilmente rassegnarci, che l’amore d’altri, come in generale la morte o i sentimenti, anche se fosse roba (verghiana) di questo mondo, non è roba nostra; è cosa d’altri, di chi li sperimenta e a cui essi appartengono:

«essi non amano per me, io non amo per loro»

Alcuni riescono a darcene un’immagine, su cui sta scritto, però, almeno da Eschilo in poi, «non toccare capro, perché scotta». Come a dire che quest’essenza, quest’olio essenziale che traspare nell’opera, è una macchina della meraviglia; come a dire che lo studio appassionato delle sue parti rappresenti l’amorevole cura verso la sua grazia nascosta, una grazia che può solo essere apprezzata nella sua delicatezza, mentre i suoi ingranaggi possono essere rimessi a nuovo, modificati, tolti e rimessi. Se un’opera è come una noce, l’anima in essa riposa soltanto finchè il guscio non si apre.

Ma d’altronde: cosa c’è di più volatile dell’anima?

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