Andrzej Wajda e la “Trilogia della guerra”

Analizziamo gli esordi di uno dei più importanti e influenti registi polacchi, recentemente scomparso

Michele Bellantuono
La Caduta 2016–18

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Andrzej Wajda, Roman Polanski, Andrzej Żuławski, Krzysztof Kieślowski. Questi sono forse i rappresentanti più universalmente noti del cinema polacco, ma la lista certo meriterebbe di essere più estesa, dato l’ampio e importante contributo dato da questa nazione alla settima arte, specialmente a partire dal decennio successivo alla fine della seconda guerra mondiale; un conflitto che, la storia ricorda, ha colpito la popolazione polacca in modo particolarmente spietato. In questo contesto post-bellico merita di essere quindi ricordato l’operato dei registi della vecchia Scuola di cinema polacca (Polska Szkoła Filmowa), gruppo nato intorno alla metà degli anni ’50 con la volontà di raccontare, con uno stile che si rifà a quello del neorealismo italiano, la storia della Polonia contemporanea. Questo significava primariamente dover ricostruire con la cinepresa quello che era stato l’inferno della guerra, raccontandone gli orrori e le drammatiche conseguenze subite dalla popolazione civile, ponendosi in particolare nella prospettiva dei soldati della Resistenza. Al centro delle grandi pellicole di questi registi ci sono quindi figure di eroi polacchi, uomini e donne impegnati con assoluta determinazione nella lotta al dominio nazista, durante la guerra, quindi nella opposizione alle subentranti pressioni sovietiche.

Qualche giorno fa, il 9 Ottobre, ci ha lasciati uno dei più importanti esponenti di questa coraggiosa corrente cinematografica, Andrzej Wajda. Nato nel 1926, figlio di una insegnante e di un ufficiale dell’esercito (ucciso nel malfamato massacro di Katyn), il giovane Andrzej ha militato nella resistenza contro i nazisti, durante la seconda guerra mondiale, un’esperienza che ha segnato profondamente le sue prime opere cinematografiche. Wajda in 90 anni di vita ha potuto assistere e, grazie alla sua cinepresa, documentare i grandi capitoli della storia della Polonia dal dopoguerra ad oggi, dedicando i suoi film più importanti (oggi omaggiati come opere seminali del periodo post-bellico) alle tappe più memorabili della storia di questo paese, ricordato per essere stato una delle principali vittime di quel secondo conflitto mondiale dalle cui ceneri è nato. E certo non gli è mancato neanche un certo coraggio e tanta determinazione: i suoi film sono stati spesso oggetto di pesanti tagli imposti dalla censura, a causa degli argomenti trattati con assoluta schiettezza e onestà (provocando dunque frequenti scontri con i censori influenzati dall’autorità sovietica) e della posizione politica anticonformista costantemente presa dal regista durante la propria carriera.

Andrzej Witold Wajda (6 marzo 1926–9 ottobre 2016)

La filmografia di Wajda è veramente vasta e molti sono i titoli che meriterebbero di essere nominati e commentati. Molti sono cronache di particolari avvenimenti storici riguardanti la patria polacca, diversi altri sono invece ispirati a opere letterarie, naturalmente di autori rigorosamente polacchi: il carattere nazionalista di Wajda, condito da un mai contenuto patriottismo, emerge anche in alcune trasposizioni di grandi opere della letteratura della Polonia (ricordiamo che ben tre opere del poeta e drammaturgo Jarosław Iwaszkiewicz sono state trasposte per il cinema da Wajda). Ma ci sembra specialmente giusto ricordare una celebre coppia di film (tematicamente affini) costituita da L’uomo di marmo e L’uomo di ferro (vincitore della Palma d’oro nel 1981): sono pellicole con le quali Wajda ha voluto esprimere il suo dissenso nei confronti della propaganda e politica sovietica, appoggiando apertamente la nascita del sindacato di matrice cattolica e anti-comunista Solidarność, rifiutando quindi i canoni imposti dal realismo socialista. Ne L’uomo di ferro fa una comparsa lo stesso Lech Wałęsa, fondatore del Solidarność e presidente polacco nei primi anni ’90: l’ennesima prova di quanto la vita ma soprattutto l’arte di questo regista siano profondamente legate al suo paese e alle tappe della sua storia, dalle prime opere, delle quali parleremo di seguito, sino alle ultime, tra le quali ricordiamo Katyń, film del 2007 dedicato alla strage di polacchi per mano sovietica avvenuta nella primavera del ’40, nella quale dicevamo perse la vita anche il padre di Wajda.

Questo forte legame con il proprio paese è certo ancora più evidente nei suoi primi, fondamentali lavori, generalmente condensati, per evidenti affinità tematiche e per prossimità della collocazione cronologica dei rispettivi intrecci, in una trilogia: parliamo di Generazione (1954), I dannati di Varsavia (1957) e Cenere e diamanti (1958). Oggetto di questi tre film, che si collocano proprio agli esordi nella filmografia di Wadja, sono gli eventi contemporanei e immediatamente successivi al controllo nazista della Polonia durante la seconda guerra mondiale, con un occhio rivolto nel dettaglio all’attività dei partigiani appartenenti all’Armia Krajowa, l’esercito di resistenza nazionale.

Generazione rappresenta un classico esempio di film realista della Scuola polacca e fornisce un buon punto di partenza per capire gli elementi fondamentali dello stile personale di Wadja: la preferenza per racconti di storie individuali su cronache di natura più ampia (e dunque meno vicine ai singoli casi umani), l’esaltazione dei fenomeni di buon “eroismo polacco” (la più evidente costante all’interno della trilogia), la rappresentazione di partigiani moralmente virtuosi, contrapposti al male nazista. In questa rappresentazione non manca certo l’elemento drammatico, costituito dalle continue difficoltà della resistenza polacca alle prese con i ben più equipaggiati tedeschi e da una delle più infami vicende legate alla storia di Varsavia: la deportazione degli Ebrei dal ghetto della città. La trama ruota attorno ad un gruppo di giovani lavoratori (tra i quali riconosciamo un giovanissimo Polanski) ed al loro primo contatto con le forme di resistenza polacca, ancora in una precoce fase di reclutamento. Allo stesso tempo, vengono introdotti alla nuova prospettiva del comunismo, percepito come un’ulteriore forma di resistenza al dominio nazista. Il film racconta il percorso di maturazione di questi giovani, contrapponendo in particolare due personaggi dalla personalità contrastante (scelta narrativa che tornerà in film successivi): Stach, ragazzo ingenuo che si lascia coinvolgere dall’organizzazione anti-nazista grazie all’influenza di una giovane ragazza, Dorota, già immersa nell’ideologia comunista; Jasio presenta invece un carattere più ambiguo, si definisce comunista ma non sembra voler appoggiare il loro operato in termini pratici, ma alla fine si dimostra capace di saper uccidere per la causa polacca, assassinando un tedesco e aiutando alcuni ebrei a fuggire dal ghetto. Questi personaggi e questa rappresentazione, stilisticamente vicina al neorealismo (con l’aggiunta di una ironia di fondo velata ma sempre presente), fa di Generazione uno dei film cardine di questa “nuova onda” del cinema polacco, un’opera viva, dal vivace carattere romantico (e Wajda infatti ha certamente preso a modello i testi del romanticismo polacco per la costruzione dei suoi eroici partigiani), che evidenzia il coraggio dei suoi giovani protagonisti, allontanandosi quindi dallo sterile canone rappresentativo propugnato dal realismo socialista, che non si addice alla sensibilità di un regista patriottico e espressionista come Wajda.

Pokolenie (Generazione)

Secondo titolo della trilogia è costituito da I dannati di Varsavia, titolo meno significativo dell’originale polacco: Kanał (“fogna”). Il film racconta la vicenda di un gruppo di partigiani polacchi durante la rivolta di Varsavia nel ’44: si tratta dell’iniziativa più importante presa dall’esercito di resistenza nazionale, che nell’Agosto del 1944 decise di insorgere contro i tedeschi con lo scopo di riprendere il controllo della capitale, in attesa di ricevere appoggio dall’Armata Rossa (appoggio che in realtà non venne mai fornito). La rivolta si risolse in circa 60 giorni, con la sconfitta dei partigiani. I dannati di Varsavia ci pone direttamente nel cuore dell’assedio: ancora una volta, i personaggi principali sono molteplici ma ognuno costruito con una propria personalità, Wadja risulta abile, come già in Generazione, nel dare vita a personaggi molto umani, concreti, capaci di attirare l’empatia dello spettatore (la cinepresa resta sempre il più vicina possibile ai protagonisti). Le loro storie si intrecciano per poi dividersi nel labirinto delle fognature di Varsavia, luogo nel quale i partigiani si devono rintanare per fuggire dai tedeschi; la battaglia per la capitale è già persa, il film altro non è, in sostanza, che la cronaca di una disperata ritirata. Rispetto a Generazione, il regista qui accosta la cinepresa ancora di più agli orrori del conflitto e le cupe fognature della città, inquinate dai miasmi dei gas tossici rilasciati dai tedeschi, costituiscono un ambiente propriamente infernale, nel quale la speranza non può sopravvivere (significativamente uno dei partigiani associa gli scuri cunicoli all’Inferno dantesco). È un film dall’impatto forte, uno dei più belli di Wadja certo anche dal punto di vista stilistico (il film fu onorato col Premio della giuria a Cannes assieme a Il settimo sigillo di Bergman): la cinepresa del regista si muove con maestria all’interno dei cunicoli creando inquadrature suggestive in senso claustrofobico, stando appresso ai personaggi, trasmettendoci la loro sofferenza ma allo stesso tempo mostrandoci la loro incredibile tenacia, la loro spinta a non abbandonare la speranza nonostante le avversità, che è caratteristica di questo popolo («Proprio da buon polacco» replica il tenente Zadra in risposta al «Non ci faremo prendere vivi» di un partigiano).

Kanał (I dannati di Varsavia)

Chiude la trilogia bellica una delle opere più importanti del regista, un film annoverato oggi come tra i più alti risultati del cinema post-bellico dell’Est europeo e un ottimo esempio di cinema neorealista (omaggiato anche da registi del peso di Scorsese e Coppola): Cenere e diamanti, tratto dal romanzo omonimo dello scrittore polacco Jerzy Andrzejewski. Il film, fedele alla sua fonte, si focalizza sulle azioni di una coppia di ex-soldati dell’Armia Krajowa nell’immediato dopoguerra, nei giorni seguenti la resa nazista. Questa fu una fase estremamente delicata per la Polonia, caratterizzata da grande instabilità politica e continui scontri tra i partigiani e i sovietici, una sorta di nuova minaccia per il popolo polacco. I russi tentarono di esercitare sul Paese la propria influenza politica attraverso la forza, naturalmente secondo l’uso staliniano che prevedeva di eliminare ogni forma residua di resistenza e opprimere il ceto dirigente e militare dei paesi sotto la propria sfera di influenza. Fulcro del film sono due personaggi in particolare: il giovane partigiano Maciek, sopravvissuto alla rivolta di Varsavia, e l’obiettivo che è incaricato di eliminare, l’influente comunista polacco Szczuka. Wajda sapientemente sceglie di caratterizzare con cura entrambi i personaggi, stando attento a non operare una netta distinzione morale tra i due uomini, appartenenti a diverse sfere ideologiche ma in fondo entrambi polacchi, alla ricerca di una possibilità di rinascita per il proprio Paese: il giudizio su di loro è sfumato, volutamente non definitivo, a trasmettere il senso di deriva e caos che regnava in Polonia nei giorni successivi alla resa tedesca. Il lato umano di questi personaggi è ciò che viene messo in risalto e questa peculiare attenzione è ciò che caratterizza tutti i protagonisti/eroi/antieroi dei film di Wadja. Di Szczuka è portato in primo piano il rapporto col figlio, allontanatosi da lui per inseguire la causa dei nazionalisti anti-sovietici. Maciek appare invece nel film come figura di contrasto, un personaggio vestito “alla James Dean”, dotato di uno stile quasi anacronistico che attira l’attenzione e, dietro le righe, rivela l’intenzione di Wadja di costruire un eroe ambiguo e moralmente instabile, determinato nel perseguire la causa partigiana ma, al contempo, tentato dalla possibilità di condurre una vita diversa, lontana dalle continue battaglie condotte dalla resistenza («Voglio solo una vita normale. Tornare a studiare. Magari al Politecnico.»), spinto a simili ripensamenti dall’incontro con la giovane e bella cameriera Krystyna.

Popiół i diament (Cenere e diamanti)

Il film è girato con maestria e visivamente è intrigante, vicino dicevamo al canone realista ma ricco inoltre di tutta una serie di simboli che riflettono una peculiare sensibilità di Wadja: il cavallo bianco come immagine della Polonia, le fiammelle accese sui cicchetti di vodka a rappresentare i partigiani morti, il grande crocifisso capovolto nella cappella distrutta dai bombardamenti. Significativa e particolarmente suggestiva è inoltre una scena, ambientata proprio in questa cappella in rovina, nella quale Maciek e Krystyna leggono i versi di una poesia (del poeta polacco Norwid) incisa sulle pareti della chiesa, un richiamo letterario che rimanda al titolo:

Quando le fiamme ardenti escono da te / Come da una fiaccola / Non puoi sapere se le fiamme avranno libertà o morte / O se tutto quello che ti appartiene sparirà / Se resteranno solo cenere e confusione / O se si troverà sotto la cenere un diamante stellato / La stella mattutina di un’eterna vittoria.

Sono pochi i film di guerra capaci di far sentire lo spettatore così umanamente vicino ai suoi personaggi come questo ironico, poetico e infine inevitabilmente tragico capolavoro del cinema polacco, uno dei più importanti lasciti del compianto Andrzej Wadja.

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