Annientamento, o della morte del kolossal fantascientifico

Per una destrutturazione del significato e ricostruzione di un linguaggio artistico, tra sperimentazione e tradizione.

La Caduta
La Caduta 2016–18

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Il regista Alex Garland è tanto abile nell’ingannare i suoi spettatori quanto lo è nel confondere i suoi finanziatori. Questo valeva per l’interessante Ex-Machina, film d’esordio audace ed elegante, esempio di hard sci-fi confezionata con un prezioso lavoro formale e assolutamente non priva di suspense. Eppure ancora di più vale per il suo ultimo lavoro Annihilation, film che in effetti ha fatto discutere ancora prima della sua uscita a causa di alcune controversie distributive: pare che il film non abbia passato il test screening della Paramount, risultando come una visione troppo “intellettuale” e “complicata”. Arrivati a questo punto il produttore ha richiesto alcuni ritocchi della trama, in particolare riferiti al personaggio protagonista di Lena (la biologa interpretata da Natalie Portman) e ad alla conclusione del film. Garland si è rigidamente rifiutato di apportare queste modifiche e, grazie all’appoggio del produttore (che già dopo alcune difficoltà trovò al regista i finanziamenti per Ex-Machina), è riuscito ad ottenere uno speciale compromesso, offerto da un patto combinato tra la Paramount e i giganti dello streaming, ovvero Netflix: Annientamento è così distribuito regolarmente nelle sale statunitensi e in Cina, mentre nel resto del mondo la visione è possibile solo sulla celebre piattaforma di streaming.

Alex Garland

Questo film nasce così proprio come prodotto “ibrido”, un’opera visivamente concepita dal suo autore per il grande schermo ma destinata infine ad approdare anche sui piccoli schermi degli abbonati Netflix. Annientamento raggiunge così un pubblico potenzialmente più ampio, presentandosi come uno dei film di fantascienza più interessanti del momento, nonché uno dei più discussi; la trama del film va al di là dello standard del genere al quale ci siamo abituati ma che Garland vuole oltrepassare, inseguendo una necessità autoriale di approfondimento concettuale e di analisi introspettiva (dalla quale la fantascienza contemporanea si è un distaccata rispetto i modelli del passato) già evidente nel precedente Ex-Machina. Annientamento traccia la storia della spedizione di un gruppo di specialisti (un gruppo tutto al femminile costituito dalla biologa Lena, una psicologa interpretata da Jennifer Jason Leigh, un paramedico, una fisica ed una geologa) all’interno di un’ampia area avvolta dal Bagliore, fenomeno inspiegabile e distruttore, pericolosamente in continua espansione. Chi entra nella zona non vi fa ritorno; l’unica eccezione è costituita da Kane, il militare compagno della protagonista, che rientra a casa in stato confusionario e sulla soglia della morte. Il film parte da questo essenziale nucleo narrativo per condurre lo spettatore in un viaggio cinematografico che è stato definito allucinatorio, onirico, bizzarro.

La trama del film è ispirata liberamente all’omonimo primo romanzo (vincitore del Premio Nebula nel 2014) della Trilogia dell’Area X di Jeff VanderMeer, il solo letto da Garland durante la preparazione di Annientamento. Il tocco personale del regista è però evidente e la trasposizione è, per Garland, solo l’occasione per raccontare una storia secondo la propria sensibilità estetica e la propria poetica autoriale, offrendo così allo spettatore un ampio numero di chiavi di lettura possibili (libertà di speculazione che si ottiene solo con la fantascienza di più alto livello). Cerchiamo di capire alcuni degli elementi e richiami che fanno di questo film un ottimo punto di partenza per lo sviluppo del genere in direzioni nuove e più stimolanti, in anni nei quali la creatività sembra un valore dall’ardua conquista più che una base dalla quale partire.

Divine invasioni

Annientamento parte dalla consapevolezza del Nulla. Il grande nulla che governa l’esistenza, il “non so” che come un mantra si ripete ad ogni inquadratura, scandito dalle parole della protagonista, dai comprimari e da una trama dalle molteplici chiavi di lettura. Un matrimonio, un amore sentito che nella stabilità trova l’oblio. La lontananza di Kane da Lena scatena solo l’inevitabile, un processo di redenzione e condanna perpetua. Il mobile e l’immobile assumono nella pellicola un’identità sempre nuova e indefinibile: un’ibridazione di stati lineare e caotica. Il tempo, scandito da un montaggio per analessi, è una variabile in divenire. Apparentemente un film di fantascienza, apparentemente un film sulla disfatta di una relazione. Non c’è spazio per analisi e misurazioni, tutto inevitabilmente è inspiegabile e mostruoso. Una mostruosità che diventa carne e sangue nella perfetta imitazione di Kane, che in quel rapido scambio di battute finali lascia intravedere la fine di un percorso e l’inizio di un altro, migliore, misterioso, in cui la fede assume un ruolo centrale. L’alieno è un dio naufrago, venuto a portare, un po’ per caso un po’ per sfida, il suo verbo rivisto e corretto in funzione del creato. Nella nuova fatica di Alex Garland ogni scelta finalmente ha una conseguenza diretta e puntuale sulla sopravvivenza del singolo individuo. Nel Bagliore i personaggi trovano se stessi e un terrore senza nome di lovecraftiana memoria, e nell’ibridazione forzata la ragion d’essere. Non arriva subito, si fa attendere, non si ferma ad una comprensione superficiale. Non esente da errori, forse di calcolo e tempi stretti, Annientamento brilla sporco: la sequenza dell’attacco a Sheppard risulta incoerente con la posizione dell’attrice in scena, accompagnata ad un comportamento piuttosto forzato delle superstiti; stesso discorso per il ciondolo in penombra e la reazione di Radek allo svelamento, impossibile distinguere una qualsiasi figura in quelle condizioni di scarsa luminosità; la partenza fugace della dottoressa Ventress, lasciata a poche e improvvisate parole, così drammatiche da richiedere un’elaborazione che non possiamo permetterci.

Mancava da un po’ questo modo di fare cinema e forse Netflix non è, dati le recenti e pessime produzioni originali sci-fi, la piattaforma più adatta per questo genere di sperimentazioni. In Ex-Machina trovavamo un’intelligenza artificiale conscia del proprio potere sul Creatore, che decide di ribellarsi e rivendicare una posizione di dominio, di libertà, di scelta: la nascita dell’individuo e la cacciata dal Paradiso (è Dio però ad essere esiliato). Questo grado assoluto di consapevolezza viene a mancare in Annihilation, sostituito dal dubbio di non essere all’altezza del Mistero. Ogni organismo, dai vegetali agli essere umani, dalle creature bizzarre all’alieno, vivono di una curiosità infantile che, come una forza incontrastabile, porta ad un’entropia diabolica e sublime. I “non può essere vero”, “non è scientificamente possibile”, i “chi sei?”, ”chi sono?”, spingono verso uno straniamento “da sguardo nell’abisso” che non risponde a domande, bensì le distrugge. Nessun appagamento, nessun piacere, come lo possiamo intendere noi consumatori bulimici: un indefinito laboratorio a cielo aperto, in cui l’essere umano è un tool qualsiasi, un codice da riscrivere e perfezionare; per gioco, per istinto, per necessità: non possiamo saperlo. Un annientamento, una minuziosa frammentazione delle parti, della verità, che come una cascata lava e purifica. L’acqua nel bicchiere, contaminata dalle deformate mani dei coniugi Kane nelle scene iniziali, diviene limpida e “viva” in conclusione, con un dettaglio interminabile della mdp. Uno degli aspetti forse più interessanti è il non sapere chi sia il nemico, e se questo sia effettivamente tale (nell’accezione di “opponente”). Prossimi al terzo e ultimo atto, Jodie rivela “tu e la dottoressa volete da una parte capire — affrontare — questo fenomeno e dall’altra combatterlo, io non so cosa voglio”, per poi finire inghiottita dalla fauna. In questo breve ma risolutivo intervento c’è il messaggio principe dell’opera, poco valorizzato da un finale didascalico (piuttosto che lasciare la chiusura al dettaglio dell’iride avrei considerato il totale di un abbraccio, dopo il rifiuto della Portman di rispondere alla domanda “sei Lena?” — con tanto di stacco al nero).

Calzante cambio di ritmo, con transizioni nette dall’azione adrenalinica a digressioni visive sul meraviglioso, come la critica ad un certo cinema da multisala. Mi spiego, o almeno ci provo: un colossale omaggio alla fantascienza russa, un attacco diretto alla spettacolarizzazione dell’immaginario, simulacro di un retaggio culturale, letterario e cinematografico. È come se Garland lanciasse una pesante accusa alla merce da intrattenimento, rimanendo umile e fedele al lavoro da regista: quel “non so cosa stia capitando e nessuno lo sa”, che é il leitmotiv del film, lo pone in una condizione di ozio riflessivo sull’arte. Questa terra promessa e dilaniata alla Stalker é metafora di una condizione autoimposta di riscoperta simbolica di un cinema che non c’è più. La sua diventa quasi un’utopia da grido d’aiuto, quando ad una dimensione urbana e statica (il trionfo dei sensi e del dialogo, il razionale) si sostituisce una Natura bifronte e frenetica (tra colonna sonora e fotografia, l’irrazionale). La corruzione genetica tocca l’intera categoria dei linguaggi narrativi. L’uomo in tuta che interroga Lena, accompagnato da un folto pubblico di scrutatori, non rappresenta che lo spettatore ansioso di ottenere risposte: risposte che non avrà. L’annientamento è radicato, e con una velocità imperscrutabile all’occhio della camera modifica il concetto stesso di stage. Dove siamo? La famosa Area X è un non-luogo della mente, dove si continua a studiare per arrivare una soluzione che spalanca orizzonti scientifici ancor più tetri. Il bersaglio di questa ricerca senza fine è l’uomo e il suo instancabile desiderio manipolatorio. E’ un gioco di specchi, il nemico è da individuarsi in quella cronica propensione alla razionalizzazione, alla categorizzazione, all’uso sconsiderato dell’elemento logico/matematico per uno scopo accessorio e ritualistico: capire non significa necessariamente dominare. Il Bagliore e la sua cupola-prigione squarciano il velo dell’illusione, costringendo i suoi detenuti ad un destino di sopravvivenza e/o integrazione. Un labirinto senza Minotauro, un penitenziario senza secondini. Insomma: scoprire, riscoprire e riscoprirsi sono le sole costanti di questo new weird, che andrebbe analizzato come un prodotto in continua trasformazione-rigenerazione; un genere che tutto é tranne mainstream.

Giacomo Alessandrini

Lo strano visitatore dallo spazio profondo

Ammi guardava inebetito la costellazione del Cigno dove il colore sconosciuto si era dissolto nella Via Lattea […] Era un colore, niente di più. Ma un colore che non apparteneva al nostro mondo.

Annientamento non è un film di fantascienza convenzionale. Non lo è dalle sue premesse e si può dire che ancor meno lo sia nello sviluppo della trama, tutta rivolta all’esplorazione di un’Area X nella quale si è insediata una presenza aliena, arrivata da chissà quale distante angolo di spazio. Il contatto con l’organismo alieno è dunque il punto di arrivo della narrazione, non il fulcro attorno al quale si svolge il plot. Siamo lontani quindi da una storia sulla diplomazia tra terrestri e alieni alla Arrival, ma anche dal classico modello “bellico” costituito da La guerra dei mondi di Wells: la fantascienza ci ha spesso abituati ad una rappresentazione manichea dell’alieno, alla sua caratterizzazione o come invasore schiavista e crudele, intenzionato a sterminare la razza umana, oppure come potenziale alleato.

In Annientamento la sequenza introduttiva, con l’arrivo del corpo alieno sulla Terra in una suggestiva cornice balneare, esclude qualsiasi scenario di questo tipo, calando la storia nella dimensione dell’inquieto, ovvero di quell’indefinito che in quanto tale sfugge alla nostra comprensione e alla nostra scienza. Quest’ultima presenta infatti immediatamente i suoi limiti nel film di Alex Garland: il misterioso shimmer (bagliore) tinge di mille colori l’aria che racchiude, espandendosi lentamente, inesorabilmente ma soprattutto senza alcun apparente motivo. La sua presenza mette in crisi ogni metro scientifico possibile: biologia, geologia, fisica e medicina diventano armi inutili. La minaccia è di natura ignota; questa caratteristica è fondamentale e permette di riallacciare questo film ad una tradizione di genere alla quale il cinema fa raramente riferimento.

Garland in effetti sembra con queste premesse cogliere a fondo il peso di due grandi autori del passato (più e meno recente) che hanno saputo trovare all’interno della fantascienza un proprio spazio, nel quale hanno sviluppato importanti correnti trasversali di questo genere. Grazie ai loro racconti e romanzi il canone si è arricchito di nuove presenze, complice la loro peculiare sensibilità nel cogliere le derive più estreme di un genere che per definizione dovrebbe sempre tentare di illustrare il superamento dei confini. Il riferimento qui è alla letteratura di Philip H. Lovecraft e di James G. Ballard.

Da un lato troviamo dunque il maestro americano dell’orrore cosmico e pioniere della weird fiction, dall’altro uno dei principali esponenti della narrativa postmoderna. Non è nello stile di Garland il perdersi in un appariscente citazionismo, eppure il suo Annientamento sia a livello narrativo che visivo dimostra di volersi riallacciare a queste correnti e, nello specifico, a due opere degli autori che abbiamo chiamato in causa. In primo luogo, Il colore venuto dallo spazio di Lovecraft; questo racconto breve dello scrittore di Providence è anche uno dei suoi migliori, nonché un vero capolavoro della fantascienza. La sua grande intuizione è stata quella di immaginare un invasore alieno secondo criteri davvero extraterrestri, lontani dal metro di comprensione della specia umana. Nessun mostro verde dotato di antenne o umanoide dalla pelle flaccida e dal cranio allungato: la presenza giunta dallo spazio nel bellissimo racconto di Lovecraft non ha una natura definibile per l’osservatore umano.

Esso è semplicemente un “colore” mai visto, vivo e indescrivibile: la sua natura ci sfugge e nulla del suo essere o comportamento è comprensibile per la mente umana. Il concetto di ignoto come nucleo della natura aliena e la poetica della soglia lovecraftiana sono sicuramente tra gli elementi rievocati in Annientamento. Garland ha tratto il suo film da una serie di romanzi firmati dallo scrittore contemporaneo Jeff VanderMeer, ma è facile una volta colta la suggestione l’individuazione di punti comuni tra film e racconto lovecraftiano. Lo stesso Bagliore nel film è rappresentato come una sorta di barriera cangiante che riflette molteplici colori, descrizione che rimanda allo strano “colore” del meteorite nella storia di Lovecraft.

Era quasi malleabile; possedeva calore, magnetismo e luminosità; si raffreddava un poco con alcuni potenti acidi; aveva uno spettro sconosciuto; si volatilizzava a contatto dell’aria; intaccava i composti di silicio che distruggeva e che lo distruggevano; ma, all’infuori di queste caratteristiche, non presentava alcun particolare atto alla sua identificazione e, al termine dei loro esperimenti, gli scienziati furono costretti a riconoscere di non poterlo classificare. La meteorite non apparteneva a questa terra; era un frammento del cosmo, dotato dunque di proprietà inspiegabili e soggetto a inspiegabili leggi. (da “Il colore venuto dallo spazio”, H.P. Lovecraft)

Non solo la natura del fenomeno del Bagliore, ma anche la sua azione ricalca l’attività decompositiva dell’alieno lovecraftiano: l’Area X agisce sull’ecosistema circostante in modo simile alla “landa folgorata”, corrompendone la natura. In Annientamento si assiste ad una sorta di mutazione della struttura genetica degli organismi inglobati all’interno dell’atmosfera aliena, fenomeno dai risultati affascinanti ma di fatto letale (nell’Area X il team di scienziate trovano i corpi di uomini ibridati con piante e animali).

“Il Bagliore è una prigione che rifrange ogni segnale, non solo luce e onde radio. DNA animale e vegetale. Ogni tipo di DNA.”

Dall’altro lato, il meteorite alieno di Lovecraft agisce sul terreno e sugli esseri viventi con una più evidente (e decisamente meno spettacolare) azione corruttrice, che porta alla decomposizione degli organismi ed alla malattia mentale di uomini e animali che vivono a stretto contatto con la presenza, come i protagonisti del racconto.

Poco tempo prima, i quattro cavalli erano scappati. Misteriosamente risvegliati durante la notte, si erano messi a nitrire e a sgroppare con estrema violenza. Sembrava che non ci fosse assolutamente niente da fare per calmarli. […] Frattanto la vegetazione continuava a polverizzarsi. Anche i fiori dalle tinte bizzarre volgevano a poco a poco al grigio, e così i frutti raggrinziti e insipidi. Grigie le dalie; grigia la vite vergine; tutto grigio, innaturale, deforme. Nelle aiuole davanti alla casa, le rose, le zinnie e la malvarosa erano uno spettacolo così orrendo che Zenas, il figlio maggiore di Nahum, le tagliò senza pietà. (Il colore venuto dallo spazio”, H.P. Lovecraft)

Presi in considerazione questi punti di incontro tra le due opere, film e racconto, possiamo spingerci a dire che quella di Garland è a proprio modo una speciale, e assolutamente libera, trasposizione de Il colore venuto dallo spazio. Il contenuto originale ha contesto, plot e personaggi diversi, sicuramente inoltre resta legato alla filosofia del cosmicismo lovecraftiana, eppure il film restituisce la stessa idea di un’entità aliena a tutto tondo, impossibile da analizzare secondo criteri umani. Così come è difficile comprenderne le intenzioni; in Annientamento siamo molto distanti ad un confronto diretto tra specie diverse, come avviene nella gran parte dei racconti o film fantascientifici sul tema (pensiamo ancora all’Arrival di Villeneuve): la scienza umana cozza qui contro un comportamento alieno nel senso stretto del termine, ovvero diverso, altro anche nel suo agire, nel suo annientare inesorabile.

(VENTRESS) Non è come noi. È diverso. Non so cosa vuole. O se vuole qualcosa. Ma crescerà fino a inglobare ogni cosa. Corpi e menti si frammenteranno in pezzi minuscoli finché non ne resterà nessuno. Annientamento.

Il bizzarro Bagliore si studia dunque come fenomeno, come accadimento, tolta ogni possibilità di interazione. Questo tipo di approccio, unito a quel concetto al quale accennavamo di “rifrazione del DNA” espresso nel film dalla fisica Josie, rievoca non solo il muto orrore galattico lovecraftiano, ma anche il puro mistero e il surrealismo di certi racconti di Ballard. Annientamento in particolare ricorda molto strettamente uno dei romanzi più bizzarri dello scrittore britannico, Foresta di cristallo. Alla base della trama è posto un fenomeno assurdo, la cui origine resta del tutto ipotetica: la graduale cristallizzazione di luoghi e organismi biologici all’interno di un’area del Camerun. Un processo lento ma inarrestabile, al più temporaneamente inibito dalla presenza di pietre preziose che ne rallentano l’azione, venendo di conseguenza distrutte. Il protagonista Edward Sanders, medico inviato a Port Matarre per raggiungere alcuni colleghi nel lebbrosario locale, si ritrova ad affrontare e descrivere gli strani eventi che avvengono nell’area.

Mentre cercava di mettersi a sedere, Sanders vide che il semicerchio di marciapiede levigato non c’era più. Adesso giaceva su un letto di aghi appuntiti. Le efflorescenze si erano sviluppate più rapidamente sull’entrata del deposito, e ora il suo braccio destro era incastonato in un ammasso di speroni cristallini lunghi una decina di centimetri che gli arrivavano fino alla spalla. Dentro quella guaina fossilizzata, quasi troppo pesante perché riuscisse a spostarla, le sue dita erano un intrico di arcobaleni. (“Foresta di cristallo”, J.G. Ballard)

In questo racconto si assiste ad un vero e proprio fenomeno di annientamento totale: esseri viventi e oggetti privi di vita sono entrambi vittime della cristallizzazione. Tentando di riportare in una missiva una suggestiva spiegazione scientifica, Sanders propone come causa il subentro dell’anti-tempo, conseguenza della scoperta dell’antimateria nell’universo. Questa nuova presenza in teoria provocherebbe un “esaurimento del tempo disponibile nei materiali del nostro sistema solare”. La cristallizzazione sarebbe dunque spiegabile in funzione di questa nuova lacuna temporale come naturale evoluzione della materia.

Proprio come una soluzione ipersatura si scarica in una massa cristallina, così l’ipersaturazione di materia nel nostro continuum la fa ricomparire in una matrice spaziale parallela. E via via che il tempo “cola” fuori il processo di ipersaturazione continua, gli atomi e le molecole originari producono repliche spaziali di se stessi, sostanza senza massa, in un tentativo di restare aggrappati alla loro esistenza. (“Foresta di cristallo”, J.G. Ballard)

Tornando quindi al film, possiamo notare avvicinandoci al finale che un processo di cristallizzazione è anche presente in Annientamento (alberi “di vetro” circondano il faro che ospita l’entità aliena). Leggendo qualche intervista, scopriamo che Alex Garland in effetti non ha nascosto il suo interesse nei confronti di Ballard, citando in particolare come testo di riferimento (chiamiamola pure una delle fonti d’ispirazione per il film) proprio Foresta di cristallo. Questa la sua dichiarazione, tratta da un podcast di The Geek’s Guide to the Galaxy (l’intervista si può ascoltare qui):

Non è in nessun modo ispirato ad altro, questo romanzo, anzi è davvero una storia a parte, ma mi ha dato sensazioni simili a quelle che ho provato leggendo Il mondo sommerso o Foresta di cristallo, romanzi di Ballard che partono da un bizzarro concetto di fondo e poi proseguono attorno ad esso, ad esempio il mondo che diventa di cristallo. C’è una sorta di aspetto onirico in tutto ciò che ho trovato incredibilmente affascinante e ipnotico, e credo che sia questo aspetto ad avermi spinto verso Annientamento.

Quelli di Ballard e Lovecraft sono due esempi di una letteratura fantascientifica che ha saputo andare davvero oltre la soglia, per utilizzare un termine in effetti piuttosto lovecraftiano. L’idea di una Zona all’interno della quale valgono leggi diverse da quelle terrestri è poi a sua volta già presente nel fertile ambito della letteratura fantascientifica sovietica; ne ha saputo cogliere l’essenza un gigante della settima arte come Tarkovskij, che ha tratto il suo celebre Stalker (nel quale appunto si racconta di una spedizione molto particolare all’interno di una speciale “Zona” che ospita un luogo in grado di soddisfare i desideri degli uomini) da un romanzo dei fratelli Strugackij, tra i principali esponenti del genere. Garland con il suo Annientamento si riallaccia a questa tradizione, che al cinema non si può certo dire abbia avuto particolare fortuna. Annientamento è dunque vicino a quel tipo di fantascienza proiettata non tanto nel futuro quanto nell’introspezione, nella quale il concetto stesso di alieno è rivalutato secondo criteri oggettivamente più credibili. Un’esplorazione nell’ignoto e nell’inesplicabile (l’impotenza della scienza nel comprendere gli strani fenomeni che avvengono in questi racconti è un punto di partenza comune e necessario), un balzo in un cuore di tenebra che ha il potere di affascinarci, facendo vibrare assieme le corde dell’inquietudine.

Michele Bellantuono

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