Appunti intorno a Fuoco fatuo di Drieu La Rochelle

Romanzo-testimonianza ispirato alla morte cruente dell’autore, nonché vivida immagine di un momento particolarmente torbido della storia, Fuoco Fatuo è uno dei capolavori di La Rochelle; disponibile, da qualche tempo, nella pregevole edizione SE.

La Caduta
La Caduta 2016–18

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Quando un uomo è infelice, è nel futuro
(Iosif Brodskij)

In Fuoco fatuo, tutto è fondamentalmente assenza. Non ci sono attimi da cogliere; il tempo è una velata sfasatura, lo spazio è un buco e un filtro, mediante cui ci ostiniamo a spiare il fantasma che risponde al nostro nome. Il futuro è già accaduto, “il grugno dei giorni peggiori è già dipinto a grandi linee”; il presente ne prende atto, ma continua.

Maschere di cera, caricature della vita, vólti posticci e dipinti, i personaggi di Drieu La Rochelle li vediamo intrappolati in un lucido dormiveglia, in una bellezza che, appassendo, non sa sfiorire.

Alain, ad esempio, è la resa dei conti. È la dimensione estetica portata alle sue estreme conseguenze, il suo destino radicale. Negazione del senso e del pensiero, la follia di Alain ha un solo imperativo: “vivere su un solo piano”, fare della vita un gesto immediato, liquidare l’idea nel sensibile.

D’altra parte, Alain è troppo ironico per aderire fino in fondo alla propria follia. Rimane sempre una lucidità di troppo, un occhio residuo, che manda all’aria la follia e il suo categorico imperativo, costituendo un secondo piano. Da quel piano, egli si guarda e sa che “la sensibilità è una sofferenza come un’altra”, che vivere e basta è una prigionia impossibile, che “anche non far niente è una professione”, che sempre da capo tornano le parole.

Alain è dunque un possibile esito dell’ironia — ironia intesa, anzitutto, come distacco e negazione del dato. Il primo dato da negare è la borghesia. Alain le oppone un duplice rifiuto: una sistematica pigrizia, che lo esula da ciò su cui la borghesia si fonda: il lavoro. E la critica semantica che ne sbattezza il nome: “borghesia”, per Alain, è mero flatus vocis, un soffio che non indica nulla, o, al più, una parola tanto vuota quanto ciò che intende indicare.

Il secondo dato è il misticismo. Alain, drogato disilluso, conosce le analogie che confondono droga e religione. (Non esiste droga che non implichi un rituale. Le passioni su cui la droga attecchisce sono perfettamente religiose: la paura e sua sorella — la speranza. L’entusiasmo — quel sentirsi pieni di un dio, di un qualunque dio — accende e snerva le giornate del fedele tanto quanto quelle del tossicomane). Alain ha trent’anni e il misticismo ormai gli appare per ciò che realmente è: una noia e un pretesto per parlare, il postulato di una realtà altra e inesprimibile, attraverso cui si pretende di riscattare la realtà che ospita ed esprime la nostra miseria. Tra misticismo e borghesia, l’opposizione è falsa. Due maschere ed un medesimo carnevale, che si celebra nei mille cuori dell’ ipocrisia.

Soltanto la scrittura può bucare il carnevale, sgonfiare le arie che ci diamo, le pose del nostro successo e gli ebeti entusiasmi in cui, drogati o no, vagheggiamo un aldilà. Ma la scrittura è labor e fatica, affrancamento dai deittici, dal “qui ed ora”. La rovina di Alain — e con lui di tanto novecento — è l’assolutizzazione dell’immediato, nient’altro che immediato. Ciò che, entrando nel linguaggio, entra in una mediazione infinita che precede da secoli oratori e scrittori, gli appare per ciò stesso corrotto e menzognero, rappresentazione fasulla di una inafferrabile e supposta gratuità. “Credeva che tutto potesse essere rapido, effimero, senza domani: una scia luminosa che scompare nel nulla”. Ma la parola del nulla è il silenzio. Così Alain rimane muto, chiuso in quell’afasia che tanto ha fatto parlare nel secolo scorso, giacché anche afasia e silenzio hanno retoriche ben organizzate. “Invocazioni fuggevoli”, tutt’al più, brandelli di discorso che affiorano e dissolvono, che testimoniano l’esistenza delle cose e muoiono nell’atto stesso del testimoniare, perché comunque il nulla è un’assurdità — e le cose bussano anche a chi in esse non crede.

“È troppo tardi”, la giovinezza è quasi andata, la sua promessa tradita. Sopravvive ibernata in forma di vizio. Alle cinque del pomeriggio è il vizio di cui ci crediamo liberati. Due ore dopo rieccola — severa e irrevocabile come un peccato originale cui non si può non obbedire. Contro di essa, il fuoco è fatuo.

Ma è comunque troppo tardi. L’ironia di Alain è inscindibile da questa perenne percezione del ritardo, di essere entrati in scena proprio quando è quasi ora di sbaraccare. Alain, senza esplicitarlo, ci dimostra che l’ironia è ritardo o anticipazione, un non esserci mai del tutto, un pensarsi da altrove, un partecipare di sbieco alle cose, un’obliquità. Per questo, il tempo, in Drieu La Rochelle, è essenzialmente sfasatura. Ed è tale sfasatura a fare dei suoi personaggi ombre e fantasmi, ironie della propria sorte.

È difficile pensare un vitalismo che non nasconda in sé un’adorazione della morte. Un’esigenza di bruciare. Il fatto di togliersi la vita non è che un aspetto — una cronaca nuda — del suicidio. Quando la vita è un imperativo e una febbre, quando l’esistenza è eroicamente e individualisticamente intesa, quando anche l’amicizia è subordinata ad una cieca volontà di sedurre, capita che un uomo si uccida per immortalare la propria vanità nella memoria degli altri, per compiere un atto, per “scontrarsi, finalmente, con le cose”. Ci si uccide per non scendere a patti con la propria debolezza, irrigidendosi contro di essa “fino a spezzarsi”. In quest’ottica, in questa prospettiva ostinatamente aristocratica, la vita è l’opera intraducibile e il suicidio è l’atto, la firma che suggella, la forma definitiva del nome dell’autore. “Avrei voluto affascinare gli altri, trattenerli, legarli […] Avrei tanto voluto essere amato che mi sembra di amare”. Allora il gesto avvelenato, il gesto che non dispera e non conosce la serenità della disperazione, poiché nella pistola con cui Alain s’ammazza, vi è la speranza di sopravvivere negli altri, di fare degli altri il proprio fragile aldilà, di toccarli — una volta per tutte, magari, di toccarli con mano, foss’anche nel modo in cui ci toccano le colpe, le accuse micidiali.

A cura di David J. Watkins

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