Black Milk come paladino del virtuosismo

Con il sesto album, FEVER, il rapper di Detroit continua il suo percorso verso un rap sperimentale dalla rara qualità

Lorenzo Mondaini
La Caduta 2016–18

--

Nell’epoca d’oro del rap che stiamo vivendo, ci si può lamentare di molto tranne dell’assenza di alternative. All’interno di un panorama così ricco e prospero, scandito da nuove uscite su base quotidiana, orientarsi non è facilissimo: il rischio di perdersi tra un beat e l’altro, tra una strofa e l’altra, è all’ordine del giorno — complice anche la confusione creata dai servizi streaming. In questo caos delle moltiplicazioni c’è chi costruisce e impone il trend, chi lo segue, chi passa di lato, chi lo reinventa, chi si adagia sul proprio stile e chi invece non si fa corrompere. Pochi sono invece coloro che prendono strade avverse e solitarie, distanti da modi e tempi contemporanei, fuori dai riflettori del circuito all-stars. Tra le fila di questi preziosi virtuosi, spicca la figura di Curtis Eugene Cross, in arte Black Milk. Nato e cresciuto, anche e soprattutto musicalmente, nella devastata Detroit, il nostro è un “giovane veterano” della scena indipendente americana. Alla “tenera età” di soli 34 anni infatti, Black Milk può contare su una carriera quasi ventennale: un passato d’iniziazione da producer e beatmaker per colossi come gli Slum Village (nella breve fase post-J Dilla) e una carriera da solista tuttofare, tra i molti album di studio, jam session live e progetti in collaborazione. Con il sesto long playing dal titolo FEVER, pubblicato lo scorso 9 marzo per Mass Appeal e Computer Ugly, egli segna il prossimo decisivo passo nella sua personale storia compositiva, portando le dinamiche sperimentali al livello successivo.

Da sempre legato alla versione più musicata del rap, quindi quella più antica e tradizionale, in questa nuova prova Black Milk rielabora e ridisegna una moltitudine di suoni vintage, a volte contrastanti fra loro, con sinfonie più moderne ed echi provenienti da un futuro molto vicino. Il fulcro di quest’opera caleidoscopica infatti coincide nel rapporto tra digitale e analogico, quindi tra elettronica e r&b, rock, soul, jazz. Ogni traccia oscilla tra questi due spazi principali, variando di caso in caso: nell’opener UnVEil, con il featuring di Sudie, come in True Lies sono le movenze un po’ pazze, quasi free-jazz, a farla da padrone; nella seconda But I Can Be, che vede la collaborazione di Ab, il motivo cardine è un funky compressato; nel singolo Laugh Now Cry Later, il più cupo e ostico di tutti, le percussioni di Chris “Daddy” Dave (già turnista per D’Angelo, Adele, Justin Bieber) creano ritmi tribali e psichedelici; altre come Drown e Could It Be invece sono caratterizzate da un sound r&b più classico, dove le potenti linee di basso di Malik Hunter guidano il flow preciso e tagliente di Black Milk, in grandissima forma sotto questo punto di vista. Sorprendono sopratutto le finali Will Remain e You Like To Risk It All/Things Will Never Be, entrambe caratterizzate da atmosfere elettroniche più sperimentali del solito: quasi da dancefloor nella prima, più eleganti nella seconda, con l’aggiunta di chorus semi-cantati. Non mancano poi degli intramezzi strumentali come DiVE o eVE, dove il nostro da sfogo alle sue più strane pulsioni, mantenendo il rythm&blues come pilastro principale. Elementi, quest’ultimi, che seguono il progetto di improvvisazione ed esplorazione portato avanti, insieme al complesso Nat Turner, nei precedenti The Rebel Sessions e Sunday Outtakes .

Il rapporto fra vecchio e nuovo in FEVER può riassumersi in una bellissima storia d’amore, di quelle utopiche e incantate che oramai non esistono più. E in questa favola d’altri tempi, il nostro è produttore, regista, ma anche protagonista. Un ruolo poliedrico che davvero in pochi ricoprono.

La vera qualità di Black Milk è la sua propensione, quasi religiosa, a prendersi sempre sul serio. Lo ha dimostrato nel precedente If There’s a Hell Below — disco dal suono più old-school ma molto solido — ma anche nei già citati progetti collaborativi come Nat Turner. Potrà suonare come una banalità, ma c’è da meravigliarsi se di questi tempi liquidi e accelerati, un musicista del suo calibro, dopo anni di lavoro e sudore, continui a volere sempre di più, a spingersi oltre i limiti, senza mai stancarsi e adagiarsi sul trend del momento. E non c’entra niente che Curtis Cross adesso non giri in Maybach, non indossi collane d’oro, non abbia orde di groupies al suo fianco come i suoi colleghi di lavoro. Non è la mancanza di successo interplanetario a spingerlo a fare di meglio. Perché l’obiettivo di Curtis Cross non è quello di apparire sui megaschermi delle metropoli, ma piuttosto quello di creare arte nella sua accezione più nobile. Nel suo sperimentare, difatti, non c’è la paura di commettere errori, di risultare fuori luogo e quindi di non essere amato, ma la sola volontà di fare musica in modo genuino e intelligente. Ed è grazie a questa mentalità, a questo approccio puro, che anche lui vede e utilizza la musica come strumento di massa, di ribellione, di protesta. Egli si aggiunge agli altri tantissimi colleghi, fieri rappresentanti della comunità afroamericana, che sentono il bisogno di esprimere le proprie idee e opinioni durante questi tempi bui. Come spiega durante un’intervista per Bandcamp: “I think the world had changed and it put me in the place of where I gradually talked about what was going on — and there’s nothing feel-good about that shit.” o in un’altra con il Detroit Free Press: “I don’t consider this a political album, and I don’t consider myself a political artist. But I feel like it’s impossible, if you consider yourself a true artist in this day and age, to not speak on something that’s going on in the world.”

Anche se ancora di nicchia in confronto a tanti big di minore spessore creativo, la figura di Black Milk è presa in grande considerazione dalle testate internazionali, basti vedere le positive recensioni del disco in questione apparse su Pitchfork, The Guardian o Stereogum. Un talento costantemente riconosciuto dai grandi critici, in attesa di approdare nei sistemi uditivi del grande pubblico. Non possiamo far altro che sperare che questo passaggio accada presto, uno come Curtis Cross se lo merita.

--

--