Illustrazione di Tommaso Casoli

Black Mirror è morta, viva Black Mirror!

Un’analisi, episodio per episodio, di questa discussa quarta stagione

La Caduta
La Caduta 2016–18
13 min readJan 19, 2018

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Torna l’opera più conosciuta di Charlie Brooker in una veste inedita, mettendo da parte la riflessione sulle nuove tecnologie per concentrarsi sulla spettacolarizzazione dei suoi alienati e alienanti protagonisti. Niente a che vedere con la distopia di White Bear e lontani dal profetico The Waldo Moment, questo “rinato” prodotto Netflix punta a dividere il pubblico. Black Mirror intrattiene senza stupire, forte della brand image, rievocando temi già affrontati, con quella superficialità che dalla serie antologica di Channel 4 non ti aspetteresti. Qui di seguito le nostre impressioni, con gli episodi in ordine cronologico:

U.S.S. Callister

Di semi-dei e biscotti digitali

U.S.S. Callister è nella forma e nella sostanza un sistema di scatole cinesi; una perfetta metafora della percezione come loop conoscitivo al cui interno lo spettatore sarà costretto, più di una volta, a ricompilare il proprio paradigma interpretativo per far fronte ai mutamenti di senso delle immagini poste davanti a lui. Infatti, se l’avvio ci colloca in un circuito narrativo che parodizza senza mezzi termini la serie classica di Star Trek (il setting è quello, il respiro narrativo pure nonostante il tono sarcastico), appena fatta l’abitudine ne veniamo espulsi. Quello che ci è stato proposto non rappresenta lo stato di realtà, ma una sua virtualizzazione collocata all’interno di un videogame chiamato Infinity — un Life Simulator sotto steroidi (à la Matrix per intenderci) creato dal geniale informatico Robert Daily.

Robert è timido, ha problemi nel relazionarsi con gli altri, viene bullizzato dai suoi stessi dipendenti, ed è totalmente incapace di farsi valere. A questi tratti caratteristici, tipici del “motivo del nerd”, si aggiunge un’infantile passione per Space fleet (cioè Star Trek).

Le sue giornate, scandite dall’anonimato e da massicce dosi di frustrazione, trovano un perché solo nelle salvifiche partite su Infinity: unico luogo in cui realizzare quella necessaria fuga dalla realtà. Ma a mescolare le carte in tavola ci penserà Nanette, giovane e graziosa neo-assunta che sembra avere un debole per Robert — sarà proprio lei l’incidente scatenante del secondo e definitivo colpo di scena. Difatti, dopo qualche impacciato approccio, che lascia sperare in un riscatto sociale ed esistenziale dello sventurato informatico, ecco venire a galla l’ultimo tassello: Robert Daily è sì un genio maltrattato da tutto e tutti, cionondimeno è anche un sadico, problematico, pezzo di merda. La sua simulazione spaziale, infatti, non utilizza una versione ufficiale del gioco, ma una mod da lui progettata per replicare il suo telefilm preferito. Scopo? Creare e controllare come una divinità uno zoo narrativo a tema sci-fi in cui intrappolare copie digitalizzate (il processo parte da tracce di DNA delle vittime per creare degli avatar, dei cookie, virtuali con memoria, personalità e coscienza di sé del tutto inalterate) dei propri colleghi. Una safe zone di invincibilità e delirio di onnipotenza in cui dar libero sfogo alla propria rabbia, cattiveria e malignità repressa: tutto quello che nella realtà gli era sempre stato impossibile fare. Cambiato il passo, e ribaltato il ruolo degli attanti (il buono diventerà il cattivo e l’outsider la protagonista), la storia procederà lineare verso una risoluzione fin troppo debole e stanca — senza contare i salti logici da ingoiare per evitare imbarazzanti impasse. Dualità, ontologie umane/postumane e meccanismi di potere, sembrano costituirsi come i noccioli tematici di questo primo episodio. Un episodio che a tratti convince e intrattiene (soprattutto per l’aspetto tecnico, scenografico e per l’interpretazione degli attori), ma che, per altri, non riesce ad essere incisivo né a tratteggiare con efficacia questioni così delicate e ambigue come fatto in passato (White Christmas vi dice niente?). Alla fine: un retrogusto smielato e accondiscendente in bocca. Cosa strana per (un) Black Mirror. (Andrea Bollini)

Arkangel

Angeli oscuri

Quante volte ci siamo sentiti ripetere che è importante rialzarsi dopo una brutta caduta, che “sbagliando si impara”? Partendo proprio da questa frase non è difficile trovare una morale per Arkangel: il genitore perfetto non esiste e, in quanto esseri umani, la nostra fallibilità ci impedirà sempre di essere onnipresenti nella vita dei nostri figli. Anch’essi, in quanto esseri umani prima che prole, devono avere la possibilità di ferirsi, di sbagliare, di dare uno sguardo a tutto il male che li circonda e dal quale, inevitabilmente, non possiamo salvarli. Il secondo episodio di questa parecchio discussa quarta stagione (diretto egregiamente da Jodie Foster) ci pone davanti ad un dilemma etico come solo i migliori episodi di Black Mirror sanno fare: se la tecnologia ci permettesse di tenere costantemente al sicuro i nostri pargoli dal mondo esterno — se potessimo proteggerli, censurare tutto ciò che riteniamo inopportuno, violento, aberrante — chi non sarebbe tentato di usarla? D’altro canto lì fuori, lontano da quelle mura domestiche, si annida ogni genere di pericolo: qualsiasi cosa può succedere.

«Ricordo bene quando aprivamo la porta di casa e lasciavamo i bambini liberi. »

Nonostante faccia affidamento su espedienti già utilizzati da Brooker in passato (vedi The Entire History of You e White Christmas), Arkangel concentra la sua forza nel racconto di una relazione madre-figlia sviluppatasi nel peggiore dei modi possibili (tramite sorveglianza incontrollata ed un continuo filtraggio dei contenuti “scomodi”) e degenerata proprio a causa di tutta quella violenza accumulatasi che, con il passare del tempo, non ha potuto trovare sbocchi naturali. Mentre misuriamo pregi e difetti di questo evolutissimo parental control la narrazione sposta intelligentemente avanti le lancette, mettendoci faccia a faccia con una realtà (quella adolescenziale) estremamente più problematica rispetto ad un ti-vedo-mentre-rubi-biscotti-dalla-dispensa. Tutte le azioni del personaggio interpretato da Rosemarie DeWitt risultano ai nostri occhi ancora più sbagliate perché compiute a discapito di un dialogo con la figlia: lo scopo è sì quello di proteggerla, ma anche quello (egoistico?) di preservare una relazione completamente idilliaca con lei, priva di quegli sgarbi materni che invece aiuterebbero la costruzione di un rapporto sano. Sarah non è mai uscita veramente dal grembo materno a causa dell’Arkangel: per questo, quando la grande menzogna è finalmente svelata, si ritrova in fuga come un Truman Burbank che ha scoperto la grande macchinazione e si sente dire da Christof: «nel mio mondo tu non hai niente da temere… Io ti conosco meglio di te stesso!».

Il riutilizzo di tematiche già utilizzate da Black Mirror non rappresenta una zavorra ingombrante per l’episodio, che evita con cura di dare troppo spazio all’elemento tecnologico per focalizzarsi invece su un rapporto umano alla base della nostra vita (come già aveva fatto Be Right Back nella seconda stagione). La tragedia di Arkangel passa attraverso quella paranoia tutta genitoriale di creare un mondo perfetto per i figli: il voler essere ad ogni costo onniscienti angeli custodi si trasforma inevitabilmente in una condanna all’insuccesso. (Marcello Torre)

Crocodile

Ricordare è una condanna

Mia Nolan è un famoso architetto con un peccato sepolto nel passato, pronto ad esser rivelato dopo una visita inaspettata.
Shatzia è una detective al soldo delle compagnie assicurative, che risolve caso dopo caso grazie ad una macchina che visualizza i ricordi dei testimoni.
Le due vite finiranno per incrociarsi fatalmente in una battaglia tra chi cerca di sotterrare ricordi per tutta la vita e chi per mestiere li riporta alla luce. Fa da sfondo un futuro prossimo che fonde elementi innovativi, come furgoncini della pizza a guida autonoma e macchine rammentatrici, ad oggetti ordinari come smartphone e tv on demand.

Charlie Brooker scrive un thriller molto classico, in cui la tecnologia è semplice strumento, quasi un ornamento. Al centro c’è Mia, un personaggio ambiguo, sempre in bilico tra pentimento e condanna eterna, un angelo della morte interpretato perfettamente da Andrea Riseborough.

Il resto dell’episodio lo porta a casa Hillcoat, la sua regia riesce a dare quel ritmo flemmatico ed inesorabile alla vicenda nei momenti di massima tensione: una scelta che si rivelerà saggia. La migliore scena è quella successiva all’interrogatorio di Mia da parte di Shatzia (Kiran Sonia Sawar), la detective determinata a sapere la verità sull’incidente avvenuto sotto la camera d’albergo dell’architetto; ne visualizzerà i ricordi, disvelando così l’omicidio compiuto da Mia la sera stessa. A questo punto la giovane detective cerca di dileguarsi, fingendo di non aver visto il delitto mentre una Mia sospettosa la insegue. Una volta entrata nella macchina Shatzia è inquadrata dal basso, la camera poggiata sul sedile del passeggero, e la sua figura occupa quasi tutto lo schermo. La vediamo chinarsi, agitarsi, mentre la macchina si rifiuta di partire ed il suo sguardo è fisso verso il colpevole. L’architetto non è nel quadro, ma gli occhi della detective lo vedono, lo seguono, finché non appare dietro al finestrino, scagliandosi con foga assassina contro il vetro dell’abitacolo frantumandolo, come un animale che bracca la preda. L’inquadratura fissa fa salire la tensione, sfruttando la bravura degli interpreti e tenendo l’azione celata al pubblico, che si ritrova perfettamente immedesimato nella povera Shatzia.

Crocodile non è il canonico episodio di Black Mirror. Lungi dall’essere perfetto, rappresenta un pezzo di buona televisione, che ti fa chiudere un occhio su tutte quelle piccole incongruenze che tanto fanno arrabbiare quei nerd fissati con la trama, che guardano la tv armati di appunti, senza lasciarsi trasportare. (Matteo Ciucci)

Hang the DJ

L’amore assicurato al 99,8%

Quarta puntata della quarta stagione. Ecco l’episodio dedicato ai sentimenti, quello in cui l’happy ending arriva grazie all’amore, perché solo l’amore vince sulle regole, sulla legge, sulla distopia. Un po’ come in San Junipero, episodio della terza stagione in cui due ormai anziane donne trasferiscono la propria coscienza in un mondo virtuale per condividere un amore eterno. Tutto bello, se non fosse già visto e rivisto. Poi va detto che probabilmente Hang The Dj è il capitolo più interessante di un’alquanto deludente nuova stagione di Black Mirror.
In pratica, in questo episodio chi non ha un compagno/a con cui condividere la propria vita si ritrova a seguire una sorta di dischetto parlante (Coach) che, attraverso una serie di algoritmi, è in grado di trovare il partner perfetto. Unica pecca è che, per arrivare all’amore (quello vero eh), tocca provare ad uscire con un sacco di persone differenti. E fin qui tutto normale, anche perché non è che ci sia troppa differenza con il nostro mondo. La cosa che la rende una puntata di Black Mirror e non una commedia sentimentale/esterna di Uomini e Donne è il fattore tempo. Quello che il coach fa è riferire quanto tempo la coppia appena conosciuta dovrà passare insieme, che può variare da qualche ora ad anni. Infatti i due protagonisti, dopo aver trascorso una decina di ore insieme, si ritrovano a trascorrere circa un anno con delle persone all’estremo dell’irritante: lei con uno scopatore seriale, lui con una dolcissima rompiballe.
Ma loro due si amano! E alla fine della fiera scappano dal sistema di incontri, che è anche legge a cui non si può sfuggire, e niente, evito spoiler perché il finale ha un suo perché. Quello che interessa tutti noi è la percentuale di attendibilità degli algoritmi del dischetto parlante Coach: infatti quello che è certo è che i calcoli portano ad una percentuale di successo pari al 99,8%, il che sancisce la sua quasi totale infallibilità.

La storia è carina, la regia ben fatta e gli attori sono molto capaci. Quello che però si è perso (e questo lo penso di tutta la serie) è quell’effetto di angoscia legato all’attualità degli argomenti trattati portati agli estremi distopici. Sembra di assistere ad un prodotto drammatico e fantascientifico, dove non è rimasto altro che la capacità di scrivere una sceneggiatura brillante ed accattivante in cui ormai è evidente quanto sia stata intrapresa definitivamente la via del pop. E adattare le cose per renderle alla portata di tutti non è mai stata una saggia scelta per un prodotto di qualità. Qualità che è sparita e che neanche la puntata più godibile della serie, Hang The Dj, riesce a salvare. (Edoardo Piron)

Metalhead

Of Dogs and Men

Black Mirror ci ha accompagnati in scenari futuristici, sia utopici che distopici, solitamente capaci di suscitare importanti spunti di riflessione sulla contemporaneità e assieme sul progresso. In ciascuna puntata l’avanzamento tecnologico diventa motore per la decomposizione morale, sociale e psicologica della specie umana. La serie di Charlie Brooker indaga dunque frammenti diversi di questo specchio oscuro, sforzandosi di non spingere la propria analisi in direzioni estreme, al limite davvero della distopia orwelliana. Questa quarta stagione vuole invece farci osservare proprio quel punto terminale, una realtà che non concede più passi indietro. L’episodio Metalhead, stilisticamente uno dei più memorabili dell’intera serie per l’uso del bianco e nero, conduce lo spettatore proprio in quella prospettiva estrema, nella quale la minaccia tecnologica non costituisce un’invalidità o un fattore di rischio sul lungo termine, quanto piuttosto una presenza immediata e letale: un qualcosa da cui fuggire. Metalhead ci mostra il panorama desolato della post-Apocalisse, in cui l’umanità è costretta a lottare non contro la dipendenza da tablet o imperfetti sistemi di dating, ma per la sopravvivenza. In questo futuro da incubo “alla Mad Max” gli uomini sono braccati da infallibili cani da guardia robotici, progettati per uccidere con efficienza chirurgica.

Non ci sono altre coordinate narrative. Metalhead racconta la fuga disperata di una donna che ha incrociato la strada di uno di questi robot assassini, nel tentativo di recuperare in un magazzino abbandonato un importante oggetto (la cui insospettabile natura è rivelata negli istanti finali). Il “cane” è in realtà un guscio metallico, fornito di quattro supporti per spostarsi ed equipaggiato con tutta una serie di armi e sensori in grado di tracciare le vittime; un costrutto tanto letale quanto elegante nel suo design, una sorta di versione avanzata dell’innocuo big dog progettato dalla Boston Dynamics, celebre compagnia di robotica americana. Sono proprio i loro prototipi a fornire l’ispirazione per l’episodio, che immagina le estreme conseguenze dei progressi compiuti negli ultimi anni dalla robotica.

Il risultato è un racconto ad alta tensione, le cui scenografie in bianco e nero e costruiscono l’idea di un mondo senza speranza; lo stile e la dinamicità delle riprese al cardiopalma sono in effetti i principali punti di forza dell’episodio, sicuramente uno dei più “cinematografici” da un punto di vista sia narrativo che visivo. Tuttavia, laddove lo scenario desolato e la fuga della vittima riescono a catturare l’attenzione dello spettatore, il messaggio di fondo resta superficiale, mentre ad emergere è anzitutto il ricordo di tutta una precedente tradizione cinematografica e letteraria, che ha già immortalato nel nostro inconscio inquietanti figure di killer robotizzati. A molti sorgerà infatti spontaneo associare questo cane metallico di Black Mirror al segugio di Fahrenheit 451, oppure al celebre Terminator ideato da James Cameron, paragone anche più immediato. Metalhead non è per questo meno attuale, specialmente in tempi in cui si parla di droni assassini comandati a distanza (ed effettivamente Brooker ha dichiarato che in una prima stesura della trama sarebbe dovuto essere presente un controllore umano del cane). Certo è che la rappresentazione post-apocalittica, per quanto suggestiva, proietta la vicenda in una inquietante realtà futura senza offrire spiegazioni e senza approfondire premesse, che dovrebbero essere alla base della filosofia di una serie come Black Mirror (che fino ad ora ha cercato di immaginare la pre-apocalisse). In questo episodio, come in altri di questa deludente stagione, gli stimoli sono pochi e gli spunti di riflessione si fermano su un terreno che la fantascienza ha già abbondantemente esplorato. (Michele Bellantuono)

Black Museum

“Impiantati le plastocellule o muori”

Come sempre tutto accade nel bel mezzo del nulla, soprattutto quando ci si avvicina verso la fine. Anche per l’ultima puntata di questa quarta stagione di Black Mirror volenti o nolenti ci si ritrova in situazioni fuori di testa e senza alcuna apparente logica. Come sempre siamo in movimento e come sempre a un certo punto abbiamo necessità di fermarci; alcune volte lo facciamo di proposito: quando andiamo in cerca di una verità, che sia parziale e minima o assoluta e più che totale, dobbiamo spostarci. Spesso per delle questioni irrisolte e spesso per capire qualcosa sulla nostra storia, ci ritroviamo a fare il punto rispetto a dove siamo ora, come ci siamo arrivati, cosa ci aspetta dopo. In linea generale tutto più o meno questo è in linea con il ragionamento che la serie fa sulle varie applicazioni dell’ICT (Information & Communication Technology) e che, mi vien da dire, in qualche modo quasi sovrasta ogni singola puntata (le nostre vite future?), dando sempre nuove intuizioni e scenari distopici e talvolta più vicini alla nostra realtà, creando un senso di estraniamento e pesantezza che guardar fuori e vedere il grigio e l’inquinamento ti prende ancor più male.

Black Museum tira un po’ le fila di tutta l’esperienza di BM dal 2011 a oggi. Brooker mette in scena l’ennesima vendetta, un’imboscata al contrario, un attacco mirato da una figlia a un uomo qualunque. Tutto accade nel nulla, in un vecchio museo divertimenti ormai decaduto, un edificio morto di un epoca precedente. Vi sono contenuti software di un tempo passato dentro teche, quelli che oggi è il progresso e che a distanza di un tempo che non conosciamo è già obsoleto. Una ragazza in macchina sta cantando, poi la batteria della macchina elettrica le si scarica e si ferma casualmente lì. Entra e incontra l’uomo qualunque, il direttore del museo che in un attimo inizia a sciorinarle tutte le falle e i fallimenti delle tecnologie obsolete tenute lì, come reliquie, prodotti inconsapevoli di uomini folli contenenti storie abbastanza raccapriccianti (talvolta surreali) su altrettanti uomini e donne. Perché i protagonisti, molto umani, raccontati dal direttore sono tutti mossi dall’amore verso i propri cari e da un recondito senso del dovere. Protagonisti che però, BM insegna, sbagliano sempre, perché di fronte a situazioni drastiche la tecnologia sembra proporre solo soluzioni drastiche. Ma la tecnologia è per perpetrata dall’uomo, anche dall’uomo qualunque che se ne è impossessato e l’ha plasmata per farne un prodotto da cui ricavarne un profitto sì economico ma altrettanto umano, perché si è sentito un semi-dio e ha voluto sentirsi potente. Arrivare in alto per essere colpiti e uccisi dalla propria stessa arma perché solo violenza e disperazione sembrano (s)muovere quegli uomini sullo schermo di un futuro-quasi-prossimo ma sullo schermo di un presente sempre più futuro. Comunque spinti al limite dalle loro creazioni, comunque piegati. Già macchine. (Pietro Giorgetti)

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