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Calcutta, Evergreen: Il ritorno del Re

Pensieri e parole condivise sull’ultima fatica del nostro Edoardo nazionale

La Caduta
La Caduta 2016–18
7 min readMay 30, 2018

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Tre anni sono pochi ma anche tanti, mezz’ora di disco è poco ma è anche tanto, Evergreen non è più Mainstream, è più o meno mainstream. Un anno di vita su internet vale più di tre anni di vita vera, o viceversa? Insomma, da quel settembre e quel video di Cosa Mi Manchi a Fare ne sembrano successe di ogni, a tutti noi, catapultati sicuramente nel virtuale e usciti quasi definitivamente dalla struggle della real life (o forse no?). Bolla bucata, vita cambiata, stravolgimenti vari — qualcuno più sotto parlerà di clonazione — fatto sta che lo scorso venerdì 25 eravamo tutti connessi alla mezzanotte, pronti a sentire, di nuovo, per curiosità, per sfizio, per amore, per sfottò, il terzo disco di Calcutta.

In questi giorni tutto è stato già detto e ripetuto — più di ogni ragionamento, più di ogni parola, sono i memi che fan da padroni la scena. È il nonsense e la necessità di sintesi, è l’attenzione che cala, è il mindfuck che deve colpire. Ma questo è tutto ciò che accade quando si lascia qualcosa di concreto per la via, un segno riconoscibile, un segno unico e irripetibile, una formula che non esiste (non deve esistere) perché è unica come lo siamo tutti, ognuno a modo nostro. Poi c’è qualcuno che alla sua unicità ci aggiunge la musica, le parole, il coinvolgimento e ci fa riconnettere con l’offline, ci dà da discorrere, ci si ritrova inaspettatamente nei circoli e nei bar, e la musica questa volta suona dalla radio, è lei che ci raggiunge, ed è una bella sensazione.

meme courtesy of l’indie italiano racconta le serie tv

Evergreen è un disco che è una dichiarazione d’intenti, è un disco che come i precedenti è di un sincero e di un genuino disarmante, un disco che esula dai pareri e dalle critiche, che arriva dritto al punto anche quando non c’è da arrivarci, anche quando c’è da lasciar sospeso ogni discorso e provare a empatizzare, è un disco che riabbassa i volumi saturi e le grida e le urla di nuovo incredibilmente alti e invadenti di questi anni, un disco spartiacque che non vuole esserlo. Un disco che scaturisce dalla forza di un vissuto, dall’esperienza di una vita normale, una vita come le altre, attraversata però da un’energia e una vitalità che si manifesta con forza per una mezz’ora, diluendosi in ambienti sonori e creando paesaggi di realtà e verità (sigh) come pochi, ad oggi. E allora non ci resta che ringraziarlo, Edoardo, e sì, rispettarlo come essere umano, come artista, lasciarlo in pace. Godiamoci queste belle cose con più calma e più rispetto. ()

CalcUruk-hai

Il re di Latina è tornato a Minas Tirith e sulla sua corona si trova incisa la parola EVERGREEN. Ancora una volta il lavoro in studio di Calcutta impatta con forza sugli Uruk-hai e sull’esercito del Male, vincendo senza se e senza ma. Diciamocelo schiettamente: il Male non sono altro che le pecore sulla copertina di Evergreen, ovvero, a mio avviso, tutti coloro che hanno cavalcato l’onda del calcuttismo per fare live stra-pagati e dischi stra-ascoltati (gente con poco da dire e poco da dare). Ma qual è la differenza tra Calcutta e i suoi cloni? La risposta sta nel concetto stesso di clonazione, che, come riporta Treccani (in Enciclopedia dei Ragazzi… aò meglio questa fonte che gli appunti di biologia di Studenti.it), è un processo, naturale o artificiale, che permette di produrre copie ripetute, chiamate cloni, di tutti gli oggetti della vita, dal DNA dei geni, alle cellule, fino a interi organismi. Tuttavia, l’evoluzione degli esseri umani, all’inizio semplicemente naturale, da circa 10.000 anni è diventata, con la nascita della comunicazione orale e scritta, anche evoluzione culturale. Dunque l’idea è semplice: senza il percorso culturale e personale che ha vissuto Edoardo, (tu generico) non sei altro che un essere vivente che aggiunge al proprio bagaglio anche quello dei tanti ascolti di Calcutta, non immettendo in ciò che crei però un’originalità “tua” e sincera. Tant’è che, rimanendo in tema Il Signore degli Anelli, gli Uruk-hai non sono altro che un incrocio tra uomini e orchi (secondo Barbalbero): un caso? Io non credo.

meme courtesy of Hipster Democratici

A livello musicale poi, aggiungerei, si tratta di due livelli totalmente diversi: Calcutta ha dimostrato di avere un tipo di scrittura pop raffinata, fatta non solo di quattro accordi melodici ma anche di virtuosismi (e spesso pippe mentali). Tutto ciò si unisce alla presenza di ritornelli da stadio. E la sua forza sta proprio in questo: far urlare al pubblico WEEEEEEEEE DEFICIENTE non rinunciando ad una scrittura elegante e mai lasciata al caso. Non è una cosa da tutti, anzi, è un dono che è presente solo in pochi autori e che innalza ad un livello più alto il pop stesso. Alcuni brani brillano più di altri, ma, come in ogni disco di un certo calibro, non ci sono mai inciampi ma solamente cambi di direzione. Si ragionava l’altro giorno con amici: il pop di oggi sta creando solo nuovi Baglioni e Venditti, mentre Calcutta risulta più un Battisti o un Rino Gaetano (paragoni da contestualizzare e comprendere, please).

Una vittoria quella di Calcutta, che non fa altro che confermare il suo diritto a sedere sul trono del pop nostrano, un po’ come Aragorn su quello di Gondor. E, sempre un po’ come Grampasso, restando il più umile di tutti. ()

“Ma che stiamo allo stadio?”

calcuttino cammino

A due anni e mezzo dall’uscita di Mainstream il terremoto generato dall’esplosione di Calcutta si è placato, dopo che le scosse di riassestamento hanno cambiato irreversibilmente faccia al pop italiano tutto. Se fino a una manciata di mesi fa creava ancora scalpore la presenza del cantautore di Latina nei programmi Rai, dopo che la sua eredità è stata raccolta dai vari Coez, Thegiornalisti, Frah Quintale ecc. risulta ora normale sentire il ritornello di Pesto in radio mentre si percorrono i corridoi del Simply sotto casa. La cosa bella di questo fenomeno è stata la sua improvvisa casualità, al punto che non credo che Mainstream fosse una trovata commerciale ben riuscita (cosa che invece non si può dire dei cloni che hanno occupato le classifiche nell’ultimo anno), quanto più un disco pop ben pensato che ha superato pesantemente le aspettative di chi ci ha lavorato — Bomba Dischi e Calcutta per primi. C’è forse ancora chi rimpiange un tempo in cui Edoardo D’Erme cantava sbronzo nei locali di provincia con qualche decina di persone nel pubblico, in cui l’indie era veramente indipendente, in cui andare a vedere un concerto di un cantautore indipendente non significava correre contro il tempo per anticipare il sold out. Invece ora Calcutta è diventato il Vasco della nostra generazione e se vogliamo andarlo a sentire live probabilmente dobbiamo stare in coda allo stadio che neanche Inter-Juventus. Non gliene possiamo di certo fare una colpa, così come non possiamo incolparlo per aver aperto un vaso di pandora che ha dato spazio a tanti sosia ma a nessun artista all’altezza del talento genuino dell’originale.

meme courtesy of Hipster Democratici

Cosa cambia allora dal 25 di maggio, dall’uscita dell’attesissimo Evergreen? Rispetto a Mainstream si tratta sicuramente di un passo avanti. Calcutta poteva scegliere di fare il compitino e ricreare un album identico al precedente (cosa che avrebbe scontentato gli addetti ai lavori ma probabilmente non il pubblico) oppure stravolgere tutto e tornare con l’esatto opposto di quello che ci saremmo aspettati. Il risultato è invece una via di mezzo: Evergreen è un Mainstream più maturo e articolato, con più pezzi, con un suono più completo e meno minimalista, ma con lo stesso cuore. Il cuore è più o meno riconducibile ai testi, che questa volta sono ancora più catchy e allo stesso tempo nonsense: la storia della tachipirina ormai la sapete già tutti a memoria, il pungicare della bellissima Kiwi verrà accettato dall’Accademia della Crusca, we deficiente sarà il modo con cui salutare i nostri amici per tutta l’estate e va bene così. La verità è che, nonostante noi pseudo-critici musicali speriamo sempre che un artista ci spiazzi con qualcosa di totalmente inaspettato e nonostante Evergreen sia più o meno ciò che noi ci aspettavamo, questo nuovo disco di Calcutta è ottimo. Non c’è un brano noioso o ripetitivo, non ce n’è uno che non potrebbe diventare il prossimo singolo-tormentone (forse solo Dateo che è strumentale), e tutto ciò ci ricorda che il cantautore laziale è il meglio che abbiamo in casa nostra al momento e dobbiamo essere grati del fatto che al di là di Vasco o degli stadi faccia ancora cose come suonare negli Autogrill e presentarsi a sorpresa con una chitarra in occasione dei live di amici e colleghi. ()

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